Il “nostro cervello è il più efficace dispositivo d’apprendimento che si conosca oggi” (Dehaene, p. 25). È un organo complesso l’encefalo. Quello di un adulto pesa circa 1300-1400 grammi e contiene in media 86 miliardi di neuroni, le unità funzionali del sistema nervoso. La complessità non è questione soltanto di numeri, ma di funzioni e di esercizio intellettuale. In tutte le età della vita
Di tutti questi neuroni, “solo” il 19% (16 miliardi) sono contenuti nella corteccia che pure rappresenta l’82% della massa cerebrale.Ben 69 miliardi (l’80% del totale), invece, sono i neuroni presenti nel cervelletto, che costituisce il 10% della massa cerebrale. Inoltre, nell’encefalo non ci sono soltanto cellule nervose: la metà del suo volume è occupato da circa 85 miliardi di cellule gliali, cellule non neuronali di vario tipo, le cui funzioni principali sono di fornire ai neuroni sostegno, ossigeno, nutrienti, e isolamento (attraverso la formazione di un involucro, la guaina mielinica), di rimuovere le cellule morte, di protezione contro i patogeni.
La trasmissione dell’informazione avviene a livello delle sinapsi, le aree di connessione funzionale tra la parte terminale del prolungamento principale (assone) del corpo cellulare di un neurone e le fibre minori (dendriti) che si ramificano dal corpo del neurone “successivo” che riceve l’impulso nervoso attraverso segnali elettrochimici. Ciascuno degli 86 miliardi di neuroni è dotato in media di circa 7.000-10.000 connessioni sinaptiche di forza variabile con gli altri neuroni: si calcola che circa un milione di miliardi (1015) di sinapsi siano presenti a tre anni nell’encefalo, un numero che tende poi a diminuire con l’età. La sostanza bianca è costituita dai fasci di fibre nervose che connettono fra loro le aree del sistema nervoso centrale: all’età di 20 anni i neuroni sono collegati da 150.000-180.000 chilometri di fibre mieliche.
Pur essendo ben protetto all’esterno dalla scatola cranica e all’interno dalla barriera emato-encefalica, l’encefalo però è tutt’altro che isolato e statico, anzi.
Le informazioni sensitive provenienti dal mondo esterno e interno sono infatti trasportate attraverso catene di neuroni ascendenti che veicolano le varie forme di sensibilità (vie sensitive e degli organi di senso) alla corteccia cerebrale e il cervello è in grado di modificare e adattare la propria struttura e funzionalità in risposta agli stimoli dell’ambiente (plasticità cerebrale). Non ci potrebbe essere apprendimento di una nuova abilità se non ci fosse una modificazione dell’attività e dell’organizzazione dei microcircuiti neurali. In risposta a un aumento o a una diminuzione dell’attività sinaptica, questi cambiamenti possono riguardare la formazione di nuove connessioni fra i neuroni (sinaptogenesi) o la loro potatura (pruning sinaptico), l’estensione e la forza delle connessioni sinaptiche e anche lo spessore della guaina mielinica, la membrana plasmatica delle cellule gliali che avvolge l’assone e il cui spessore influenza la velocità di conduzione dell’impulso nervoso.
La plasticità sinaptica rappresenta uno dei principali meccanismi nella formazione di nuovi ricordi, la base materiale di apprendimento e memoria. Apprendere a leggere o a suonare uno strumento porta a modificazioni visibili della corteccia. L’esercizio musicale prolungato nel tempo del violino, ad esempio, è associato a un aumento della rappresentazione delle dita della mano sinistra nell’area sensitiva primaria del lobo parietale (la corteccia somatosensoriale).
Nel cervello, aree cerebrali programmate e plasticità cerebrale in mutamento
Questa plasticità però non è senza limiti. Il primo e più importante è quello genetico: pur possedendo ampi margini di plasticità, l’architettura generale dell’encefalo, i grandi fasci di connessione tra aree cerebrali sono programmati geneticamente e già strutturati alla nascita. La struttura innata del nostro encefalo non è programmata però per restare inalterata, bensì per essere modificata dall’esperienza. La plasticità ha dunque margini ristretti, ma i cambiamenti possibili per quanto piccoli possono però avere un effetto vistoso: le vie nervose che presiedono al linguaggio hanno una base ereditaria e sono peculiari della specie umana, ma l’apprendimento della lingua madre è determinato dall’ambiente in cui si cresce.
Un altro limite parziale è di ordine temporale. Il grado di plasticità cerebrale cambia nel corso della vita: l’encefalo è infatti particolarmente sensibile a certi stimoli ambientali durante periodi specifici e limitati dello sviluppo cerebrale. L’apprendimento di abilità o caratteristiche quali la vista e l’udito, il linguaggio, le funzioni corticali superiori è distribuito lungo il corso dello sviluppo (dagli ultimi tre mesi di gravidanza all’adolescenza) con picchi di sensibilità tra la prima infanzia e la fanciullezza.
Un tempo si pensava che al termine di questi periodi sensibili non fosse più possibile modificare i circuiti cerebrali che si erano venuti a consolidare.
In realtà, la plasticità del cervello si riduce sì gradualmente con l’età ma non si azzera. Come ricerche successive dovevano mostrare, le connessioni sinaptiche possono essere modificate dall’esperienza a tutte le età, anche se nel tempo i cambiamenti risultano limitati e di conseguenza l’apprendimento diventa sempre più difficile (si pensi a quello di una seconda lingua).
Nessuno sfugge all’azione del tempo, a quella perdita progressiva di integrità funzionale che chiamiamo invecchiamento. Con una piccola o grande variabilità da individuo a individuo, tutti gli organi del corpo vanno soggetti a questo declino e il cervello non fa eccezione.
Che cosa succede nel cervello nel corso della vita?
Seppure non trascurabili, le nostre conoscenze scientifiche sull’invecchiamento cerebrale sono frammentarie e iniziali, ma in continua, vivace evoluzione. La più vasta collezione di dati di imaging a risonanza magnetica messo insieme (più di 100.000 persone dal quarto mese di gravidanza ai 100 anni) mostra cambiamenti rapidi nei primi anni di vita a cui fa seguito un lungo e lento declino (Bethlehem et al). Lo spessore della corteccia cerebrale raggiunge rapidamente il picco prima dei due anni, mentre il volume della materia grigia (un indice del numero dei neuroni e del volume del loro corpo cellulare) aumenta più lentamente e raggiunge il picco poco prima dei sei anni; successivamente spessore e volume iniziano a decrescere più o meno lentamente. Anche il volume della sostanza bianca raggiunge il picco attorno ai 29 anni per poi iniziare a declinare. Il volume dei ventricoli cerebrali (le cavità comunicanti all’interno dell’encefalo) sono in continua crescita, soprattutto dopo i 60 anni.
Queste modificazioni a livello cerebrale si affiancano ai cambiamenti cognitivi che si osservano nel corso dell’invecchiamento. Sono molte le persone anziane che lamentano che la propria memoria “non è più quella di una volta” o che riferiscono una maggiore difficoltà a concentrarsi o a eseguire due compiti contemporaneamente, come guidare l’auto e conversare. L’età d’esordio e la progressione dei cambiamenti delle funzioni cognitive che intervengono nell’invecchiamento sono eterogenee: la velocità di elaborazione dell’informazione inizia a rallentare molto precocemente influenzando così negativamente anche l’evoluzione delle altre abilità. La capacità di ragionamento e vari aspetti della memoria, quali la capacità di mantenere temporaneamente nella memoria a breve termine le informazioni e in parallelo manipolarle mentalmente (memoria di lavoro), la memoria a lungo termine di eventi soprattutto recenti (quella di cui più frequentemente si lamentano gli anziani), il ricordarsi di ricordare (la memoria prospettica), incominciano a declinare dopo i 20-30 anni.
Altre forme di memoria quali la conoscenza generale del mondo acquisita nel corso della vita (memoria semantica), la capacità di eseguire in modo automatico attività apprese quali, ad esempio, andare in bicicletta (memoria procedurale), vari aspetti del linguaggio (il vocabolario, l’abilità discorsiva, la comprensione), e l’abilità visuo-percettiva tendono invece a rimanere più stabili nel tempo e a declinare avanti o molto avanti negli anni.
Cosa possiamo fare per cercare di contrastare il declino cognitivo ?
Ovviamente, prima si interviene-previene, meglio è. Come abbiamo visto, il neonato “è una vera e propria macchina per apprendere, … nei primi anni di vita il cervello è la sede di un vero e proprio ribollire di plasticità sinaptica” (Dehane pp. 24-25 e 138). La stimolazione cognitiva nei periodi sensibili che vanno dalla nascita all’adolescenza rappresenta l’investimento in capitale neurobiologico che rende di più nella seconda e nell’ultima parte dell’esistenza. Il declino cognitivo associato all’età sembra infatti dovuto ad alterazioni della plasticità sinaptica che determinano una ridotta connettività neuronale con conseguente compromissione dell’integrità dei circuiti neurali cerebrali che supportano le funzioni cognitive.
Anche sanità pubblica e bilancio statale si avvantaggeranno dell’effetto protettivo dell’istruzione vedendosi ritornare quanto speso più gli interessi: una popolazione anziana più sana. L’esposizione del bambino e del giovane a un ambiente cognitivamente stimolante in un periodo in cui la plasticità sinaptica è particolarmente sensibile agli effetti dell’esperienza è dunque il primo obiettivo da perseguire nella strategia di contrasto del declino cognitivo. Questo periodo sensibile è fortemente influenzato dall’ambiente familiare (genitori ma anche nonni!), dai servizi educativi per l’infanzia e dall’istruzione scolastica (a loro volta fortemente dipendenti dalle condizioni economiche della famiglia), fattori che determinano differenze spesso rilevanti fra i giovani sia nella qualità dell’educazione ricevuta sia nel grado di istruzione raggiunto. Ne consegue la necessità di contrastare e controbilanciare con politiche di sostegno adeguate gli effetti negativi derivanti dal vivere in ambienti sociali e condizioni economiche penalizzanti.
E al termine dei periodi sensibili cosa si può fare? Possiamo farci aiutare a rimanere cognitivamente prestanti dalle cosiddette “smart drugs” (i nootropi)? Il loro “effetto sulla memoria nell’uomo e sul deficit cognitivo associato all’invecchiamento non è stato mai documentato [e] in un piccolo studio della durata di 2 mesi non è emerso alcun beneficio rispetto al placebo”, “i presunti effetti [neuroprotettivi dei nootropi] non sono mai stati dimostrati e non ci sono evidenze conclusive sull’utilità dei farmaci intelligenti” (Pasina, p. 252). E i videogiochi venduti per allenare il cervello (brain training) funzionano davvero come strumento per conservare o addirittura potenziare le proprie capacità cognitive? Le evidenze disponibili dicono di no: i risultati eventualmente conseguiti con la ripetizione di un compito specifico non si trasferiscono ad altre abilità cognitive o alle prestazioni nella vita di ogni giorno. E dunque?
Come abbiamo visto, la plasticità sinaptica si riduce nel tempo ,ma non si azzera. L’encefalo conserva un margine di plasticità e continua a rimodellarsi nel corso di tutta la vita. Se è vero che in avanti con gli anni non ci si possono attendere risultati altrettanto vistosi di quelli che si osservano nella prima parte della vita, l’effetto protettivo delle attività cognitive pur essendo minore non è nullo. Diverse ricerche hanno mostrato che impegnarsi in età avanzata in attività mentalmente stimolanti e ricreative (leggere, giocare a carte, a scacchi o a dama, rimettere insieme un puzzle, fare i cruciverba o i sudoku, suonare uno strumento musicale, seguire un corso, apprendere una lingua, partecipare a gruppi di discussione e attività sociali) possa essere uno strumento efficace per rallentare il declino cognitivo associato all’invecchiamento e contribuire a limitare il rischio di deficit cognitivi maggiori come la demenza. Un ostacolo da tenere presente è rappresentato dalla difficoltà a incentivare alla partecipazione l’anziano che in precedenza non si è mai impegnato in queste attività, soprattutto coloro che vivono socialmente isolati e comunque in un mondo dove la rete dei rapporti sociali tende progressivamente a restringersi. Non bisogna dimenticare che solitudine e isolamento aumentano con l’età e rappresentano importanti fattori di rischio di decadimento cognitivo.
L’imperativo è dunque “il cervello? o lo usi o lo perdi”
Non a caso è lo stesso principio “use it or lose it” alla base della sottostante plasticità sinaptica: le connessioni sinaptiche usate frequentemente vengono rinforzate mentre quelle non utilizzate vengono eliminate. Un’esistenza mentalmente attiva è un sentiero semplice, ma sicuro da seguire. E pressoché privo di effetti collaterali dannosi.
Inoltre, il cervello non è sensibile soltanto agli stimoli mentali, non è isolato dal resto del corpo. Per poter funzionare ha bisogno innanzitutto di un continuo apporto di glucosio e di ossigeno. Sebbene costituisca circa il 2% della massa corporea, l’encefalo di un adulto consuma il 20% dell’ossigeno e circa il 60% del glucosio utilizzato dall’intero organismo in stato di riposo. E glucosio e ossigeno vengono trasportati all’encefalo attraverso l’apparato cardiovascolare. Le patologie che colpiscono il cuore e i vasi sanguigni nel resto del corpo colpiscono anche i vasi del cervello. Ciò che fa male al cuore fa male al cervello: malattie cardio-vascolari e cerebrovascolari condividono infatti gli stessi fattori di rischio potenzialmente modificabili: diabete, ipertensione, obesità, fumo, consumo eccessivo di alcol, inattività fisica. Questi comuni fattori di rischio vascolare contribuiscono insieme ad altri ad aumentare la probabilità di andare incontro col passare degli anni a un decadimento cognitivo o a una demenza. Rimanere mentalmente attivi, evitare l’isolamento sociale, cercare di conservare la rete di amicizie, tenere sotto controllo glicemia e pressione arteriosa, attenersi a una dieta equilibrata, correggere il sovrappeso e l’obesità, cessare di fumare e fare regolarmente attività fisica sembra essere la miglior difesa non solo per una vita lunga e sana ma anche per contrastare l’invecchiamento cerebrale. Prima si comincia e meglio è, ma non è quasi mai troppo tardi se non ci si aspetta l’impossibile.
Sono stati fatti grandi passi in avanti nella conoscenza del funzionamento del cervello e sui modi di rallentarne il declino. Ciò che sappiamo è molto, ciò che ci resta ancora da capire è … molto, molto di più. Ed è ai nipoti che viene lasciato in eredità questo “molto di più” da scoprire e raccontarc
Letture suggerite
Bethlehem RAI, Seidlitz J, White SR, et al. Brain charts for the human lifespan. Nature 2022; 604: 525–533. DOI: 10.1038/s41586-022-04554-y
Dehaene S. Imparare. Il talento del cervello, la sfida delle macchine. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2019.
Lucca U. Invecchiamento e attività intellettuale. In: Garattini S, Lucca U, a cura di. Invecchiare bene. Milano: Edizioni LSWR, 2021.
Pasina L. Esistono farmaci che influenzano l’invecchiamento? In: Garattini S, Lucca U, a cura di. Invecchiare bene. Milano: Edizioni LSWR, 2021.
Il professor Ugo Lucca è stato a capo del Laboratorio di Neuropsichiatria Geriatrica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS per circa venticinque anni. La sua ricerca si è concentrata soprattutto sulla farmacologia clinica e l’epidemiologia delle demenze e dell’invecchiamento. È stato il responsabile di due grandi studi epidemiologici di popolazione negli anziani (Studio Anemia e Salute) e nei grandi anziani e centenari (Studio Monzino 80-plus), e della parte neuropsicologica dello Studio Canton Ticino in Svizzera. Ha condotto diversi studi clinici su farmaci antidemenza.
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