La bellezza della Mongolia ha messo a dura prova le capacita descrittive! Appena lasciata la caotica Ulan Bator, il paesaggio è apparso cosi immenso che gli aggettivi e i superlativi sono diventati inadeguati. Avevo passato la frontiera russa con un po di ansietà a causa dei problemi creati da funzionari poco corretti al consolato bielorusso e al confine russo. Ulan Bator si era presentata come dalle descrizioni: traffico infernale, smog e confusione assoluta. Nella capitale vive la metà della popolazione; il resto, circa un milione e mezzo di abitanti, è sparso in un territorio grande cinque volte l’Italia. Comprata una SIM card e cambiati un po di soldi, avevo preso il bus per Karakorum, l’antica capitale dell’impero mongolo. Sul bus vi erano contadini che nei loro migliori abiti tradizionali, rientravano a casa pieni di bagagli. La guesthouse di Gaya a Karakorum era deliziosa; un insieme di tradizionali ger mongole con un piccolo edificio dove ci si riuniva per mangiare e scambiare due chiacchiere. Le ger sono tradizionali abitazioni costruite su uno scheletro di legno e con una copertura di feltro che possono essere smontate in poche ore.
Alla guesthouse avevo incrociato viaggiatori interessanti: una coppia di francesi in viaggio per due anni per raccogliere testimonianze sulle culture locali, un giapponese partito a gennaio e che ancora non sapeva dove andare e se mai sarebbe tornato e cosi via. Il giorno dopo salendo la sovrastante collina, avevo ammirato l’insieme della vallata e la statua della tartaruga che marcava uno dei punti cardinali dell’enorme impero. Un passaggio mi aveva portato a sette chilometri di distanza presso una famiglia nomade. Osservandoli avevo cominciato a meglio capire la cultura nomade della steppa che se non fosse per i pannelli solari che portano energia e quindi indubbie migliorie, sarebbe ancora immutata da secoli. Uno dei cardini di questa cultura è l’ospitalità, perché in un ambiente ostile non si sopravvive senza l’aiuto altrui in caso di necessità. Al ritorno, una camminata nella steppa di un paio di ore ascoltando i Linkin Park, mi aveva regalato una sensazione di libertà meravigliosa!
Il giorno dopo mi ero unito a un gruppo che andava nella valle dell’Oklon per un giro a cavallo di quattro giorni. Il disagio per le sei ore di viaggio sulla pista era stato mitigato dai paesaggi e dalla imponente cascata nata da una spaccatura geologica del terreno. Era apparsa una Mongolia con paesaggi favolosi, con spazi di una tale ampiezza che trasmettevano un senso d’irreperibilità mai provato. Una vita bucolica che nascondeva una realtà difficile. Condizioni sanitarie, difficoltà d’istruzione, duro lavoro, clima inclemente, fragilità economica, isolamento, ecco i contraltari della vita nomade. Di conseguenza molti giovani cercano fortuna a Ulan Bator per poi confrontarsi con realtà difficili e spesso diventare emarginati. Al monastero di Erdene Zuu avevo assistito alla suggestiva cerimonia dei monaci che recitavano sutra buddisti accompagnati dai canti dei fedeli. Il tempio era racchiuso in un recinto di mura di quattrocento metri di lato. Le purghe staliniste del 1937 avevano sterminato il 3% della popolazione mongola, colpendo duro pure qui ed erano rimasti solo tre templi a ricordare le glorie del passato. Interessante pure la visita del piccolo museo storico, sui popoli Unni, Turchi e Mongoli! La distruzione della capitale da parte delle truppe Manciu dopo la caduta della dinastia mongola, non aveva lasciato nessuna traccia: una “delenda Cartago” asiatica. Al ritorno a Ulan Bator ero partito con Bagart, l’autista che mi avrebbe accompagnato per i successivi quattro giorni di full immersion nella steppa. Rifornimento di cibarie e bombole gas e ci eravamo diretti al National Park di Khustayn luogo di reintroduzione dei cavalli selvaggi di razza originaria mongola. Ero riuscito ad avvicinarli su per una collina e mi aveva coinvolto sentire i richiami dei cervi dai boschi contigui. Cosi come la visita nel mezzo del nulla di un sito di sepoltura degli aristocratici delle tribù turciche che nel VI secolo dominavano la regione. Per la notte trovavamo ospitalità presso famiglie nomadi. La prima ci aveva accolto con una ciotola di latte crudo, che per senso di rispetto avevo accettata. Ne avrei pagato le conseguenze nella nottata! Quando mi avevano mostrato a qualche centinaia di metri, la baracca costruita intorno a un buco per le necessita corporali, avevo sperato di non doverla utilizzare, e invece era stata una notte di passione con frequenti visite mentre i cani abbaiavano come folli. La mattina dopo i padroni a mie domande sul perhe dicevanoo wolfs! I giorni successivi erano apssati in una trance di stupore, in giro tra spazi immensi, branchi di animali selvaggi e ogni tanto gruppi di ger. Molto bello un lago alla base di una montagna con paesaggi lunari e branchi di cavalli che correvano bradi. Il punto più a sud lo avevamo raggiungo ai margini del deserto dei Gobi dove iniziavano le dune e all’orizzonte si ergevano montagne in un clima secco tipo Yemen. Per pranzo scaldavamo un po di acqua e mangiavano noodle liofilizzati comunicando a livello basilare, perché l’autista non parlava inglese; mi restava più tempo per riflettere e per disintossicarmi di emozioni negative. L’ultimo giorno al Terelj, durante un’escursione a cavallo avevo ammirato i colori meravigliosi dell’autunno nella taiga. Ora qui a Ulan Bator il tempo è cambiato e siamo a meno nove. Domani, faro una visita alla locale sede di “SOS village children” nel quadra della mia raccolta fondi e poi partenza per la Cina con tanti dubbi sulla lingua, biglietti dei treni, dove dormire. ATM, internet. Insomma il sale dell’avventura. Voi non dimenticate però di contribuire alla raccolta fondi e di condividere la pagina FB!
Nell’anima non ho neanche un capello bianco. – Vladmir Majakovskij –
Nell’anima non ho neanche un capello bianco. – Vladmir Majakovskij –
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.