Carissimi che mi seguite da mesi: oggi è Natale e qualunque significato diate alle festività, auguro una giornata felice e serena. Qui a Kuala Lumpur siamo alla vigilia dell’ultima tappa. Dopodomani mi imbarco dalla Malesia sulla portacontainers Loire con destinazione Australia. Saranno otto giorni di navigazione e intanto ripenso con perplessità all’ultima tratta. Per quello che ho visto della Malesia, belle le città coloniali, un po’ meno la cura dell’ambiente. Penso soprattutto all’arcipelago delle Langwaki, raggiunto dopo aver passato la frontiera viaggiando in treno da Bangkok. Con ancora negli occhi lo splendore di Rabbit Island in Cambogia, arrivato a Kuah, ero rimasto profondamente deluso; un’altra località rovinata dagli eccessi del turismo di massa. Triste constatarlo, ma ormai purtroppo pure in Asia i posti pubblicizzati sono invasi da orde di turisti seguiti da colate di cemento. Capisco che è una conseguenza inevitabile della crescita del benessere nella regione e che i numeri della potenziale utenza asiatica siano enormi, ma fa male vedere una noncuranza e una mancanza di rispetto dell’ambiente cosi marcata. Ad esempio Celang beach, la più famosa dell’arcipelago, oltre ai rifiuti di plastica abbandonati, è invasa fino alla battigia da auto e scooter e il mare adiacente è pieno di moto d’acqua che fanno pericolose evoluzioni tra i bagnanti; un pugno nello stomaco! Volevo restarci più tempo, ma non mi sentivo a mio agio. Non volendo pero arrendermi avevo pensato di andare all’isola di Bunding a una mezz’ora di navigazione che prometteva natura incontaminata e bungalow sul mare. Purtroppo dopo aver atteso di più di due ore sul pontile barcaioli che indirizzavamo gitanti a redditizi tour turistici, e che continuavano a ripetere una sola litania: “aspetta che raccogliamo abbastanza gente per partire. Ma quante persone servono? Quindici, oppure noleggi tutta la barca” (a prezzo improponibile…), avevo capito come fosse aleatoria la partenza; anche perché con quell’andazzo non sapevo come sarei ripartito. Peccato! Anticipando la partenza per Penang dopo tre ore di ferry avevo raggiunto Georgetown, patrimonio UNESCO. Località che mi aveva fatto subito una bella impressione: una città coloniale ben tenuta con possibilità di sbizzarrirsi a fare foto e con giuste vibrazioni. I portici mi ricordavano le città centroamericane e se non avessi visto le facce degli abitanti avrei pensato di essere in Guatemala. Bello anche il monastero buddista di Keke Loh, il più grande della nazione. Coinvolgenti le cerimonie dei monaci tutti vestiti in nero che recitavano sutra.
Interessante pure lo Snake temple; vedere animali liberi tra i visitatori mi ricordava il Karni Mata in India, il tempio dedicato ai topi. Girando per la parte più antica di Georgetown, ero casualmente capitato al cimitero coloniale degli europei. Come in altre occasioni, leggendo le date sulle lapidi di questi espatriati pensavo alle motivazioni di quei giovani: senso dell’avventura, ricerca del successo? Forse dimenticati in patria, erano morti in questo angolo di terra all’epoca distante anni luce dalla cultura e dalla società europea. Leggendo le lapidi di personaggi celebrati per il loro rango, mi aveva colpito una sepolta col solo nome: Harriet. Neppure un cognome! Che storia avrà avuto dietro e come sarà arrivata a Georgetown? Una storia da Antologia di Spoon river. Ripensavo alla mia vita in giro per il mondo e a quella dei ragazzi che partono oggi: che avremmo fatto se fossimo vissuti in quell’epoca? Lasciata Georgetown, dopo un’attesa di otto ore in una vecchia stazione, ero arrivato a Ipoh da dove intendevo proseguire per le Cameron highlands; alture dove vi sono piantagioni di te. Purtroppo il monsone che imperversava con pioggia torrenziale – fenomeno chiamato “melting snow”, anche se penso non abbiano mai visto la neve – le pessime previsioni meteorologiche e un malessere dovuto forse all’aria condizionata mi avevano fatto desistere dall’organizzare un trekking, e quindi avevo continuato per Kuala Lumpur (KL) e Malacca. Malacca mi aveva fatto innamorare. Specialmente sul finire del pomeriggio sul fresco, girare per i portici della città vecchia o sul lungofiume in bici era un incanto. Ben tenuti i posti coloniali portoghesi, olandesi e britannici con i musei e le case della comunità Peranak, cinesi dello Stretto, restaurate con stile. In alto sulla collina davanti alla chiesa di San Paolo guardando una statua di San Saverio, evangelizzatore d’Asia, ripensavo alla visita anni prima alla chiesa di Bom Jesus a Goa, dove San Saverio riposa. Curiosando nella biblioteca del museo avevo ritrovato un vecchio libro che raccontava di una leggenda di una suora sedotta da un soldato e poi entrambi erano stati murati vivi per punizione. Si diceva che per questo nella casa avvenivano strani fenomeni, mi era naturalmente venuta curiosità e l’avevo cercata con le coordinate di Google Maps. Purtroppo al suo posto avevano costruito una replica del palazzo del sultano e nulla ne era rimasto; chissà se almeno ora i due avranno trovato pace. Un pomeriggio arrivato fino alla foce del Melaka guardavo l’oceano su cui avrei navigato, mentre alle spalle avevo i resti di quello che era stato uno dei porti più importanti d’Asia. Mi sembrava incredibile realizzare che ce l’avevo quasi fatta. Ora dovevo solo aspettare le ultime news sul cargo! Ero quindi tornato a KL, da cui Port Kelnag dista solo una quarantina di chilometri. Girando per i suoi enormi mall, l’atmosfera natalizia mi sembrava falsa in un paese mussulmano tradizionalista come la Malesia. Surreale con clima caldo umido e donne in chador, leggere Happy Christmas e vedere immagini di Babbo natale, neve e slitte. Mi faceva immaginare una teoria dei “no eventi”. Eventi non legati a una cultura specifica ma uguali ovunque nel mondo come celebrazione di un consumismo fine a se stesso e conseguenza di una globalizzazione snaturante. Alla prossima quando avrò raggiunto l’Australia, intanto godetevi le feste!
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