Ero impaziente d’imbarcarmi, ne avevo abbastanza di aspettare a Kuala Lumpur. Ormai giravo per Chinatown conoscendo le viuzze come un locale, perfino gli ambulanti non cercavano più di propormi la loro merce. Il cargo, la MV Loire, doveva arrivare a Port Kenang il 27 dicembre e l’imbarco era previsto per mezzogiorno. Pensavo di partire in mattinata e in un’oretta raggiungere Port Kenang per le pratiche di dogana ed emigrazione. Il giorno prima avevo passeggiato per l’oasi di eco-foresta lasciata integra nel centro città e dotata di camminamento sopraelevato per osservarla meglio. Poi una delusione, l’agente di navigazione mi aveva comunicato un ritardo nell’imbarco. Infine la mattina del 28, espletate tutte le formalità, finalmente ero salito sulla portacontainers. Trecento metri di lunghezza e novantatremila di stazza. Il capitano mi aveva accolto con cordialità e lo chief officer mi aveva mostrato la cabina. Di fianco vi era una saletta per i passeggeri e dato che ero l’unico, sarebbe stata tutta per me. L’equipaggio era in maggioranza croato e ucraino. Un buon pasto con cibo sostanzioso e robusto e il terzo ufficiale mi aveva mostrato le dotazioni di sicurezza. Verso le sette avevamo lasciato la Malesia, la navigazione cominciava.
I giorni successivi dopo colazione salivo sul bridge – il ponte comando – e curiosavo tra le procedure di navigazione e gli strumenti, con gli ufficiali che mi spiegavano i principali rudimenti. La routine di bordo era organizzata tipo caserma, con ruoli e ritmi ben precisi. La rotta prevedeva la discesa a sud ripassando per Singapore, poi lo stretto della Sonda e ci saremmo diretti verso l’oceano aperto e la Western Australia. Naturalmente il punto più trafficato era lo stretto di Singapore dove le navi si affiancavano e si sorpassavano come auto in autostrada. Nella notte del 30 dirigendoci verso Giava e con Sumatra sulla dritta, avevamo passato l’equatore e il capitano aveva rispettato una simpatica procedura marinara consegnandomi un attestato. Nello stretto della Sonda il traffico navale si era di nuovo intensificato e riflettevo che qui tra Giava e Sumatra, doveva trovarsi l’isola di Krakatoa, dove nel 1883 era avvenuta la più grande esplosione vulcanica mai registrata con una tsunami di quaranta metri. La mattina dell’ultimo dell’anno eravamo passati vicino a Christmas island, l’isola australiana più vicina all’Indonesia; il paese di Oz si avvicinava! A mezzanotte ero andato sul bridge e avevo festeggiato l’anno nuovo con gli ufficiali di guardia. Negli auguri di questi in fondo sconosciuti, vi era una sincerità forse dovuta alla particolarità geografica: eravamo isolati nell’oceano con la nave più vicina a centosette miglia. Il cielo senza nuvole mostrava la Croce del Sud, e con serenità ero grato al destino per questa esperienza. Passaggio navale costoso, ma confortevole in confronto ai viaggi del passato. Capivo meglio che sulla terraferma cosa volesse dire seguire la rotta australiana. Viaggiare nel passato per mesi abbandonando le sicurezze di casa per raggiungere il continente nuovo con implicazioni di clima, rischi per le condizioni del mare, malattie; un tagliarsi i ponti alle spalle! L’ultimo giorno prima dell’Australia, il mare era aumentato a forza sei e al rollio si era aggiunto il beccheggio. Infine la mattina del quattro gennaio si era mostrata la costa australiana. Ormai Fremantle era vicina e potevo distinguerne le strutture a occhio nudo. Nel pomeriggio il pilota era salito a bordo per l’attracco e dopo le procedure di immigrazione ero sceso a terra. Uno scambio di telefonate e avevo abbracciato mia figlia Gabriella. Un’emozione difficile da metabolizzare e ancora di più da descrivere. Ero sommerso dal ricordo degli oltre venticinquemila chilometri percorsi per arrivare su quella banchina, ci vorrà tempo per metabolizzarla. Ora sono a casa di Gabriella e ho flashback degli episodi del viaggio che sembrano come un grande rotolo che si svolge con le immagini della geografia e dell’umanità di questo enorme spazio euroasiatico/pacifico che rappresenta la maggior parte del pianeta. Mi avete seguito e supportato con passione e costanza commovente. Grazie! Spero con gli aggiornamenti pubblicati d’essere riuscito a passare il messaggio che mai ci si deve arrendere se si ha un sogno, sia quello che sia; meno che mai per l’eta. Che è uno scandalo vedere tanti giovani andare via non per scelta ma perché da noi non trovano giuste opportunità. Lungo la strada ho incontrato persone meravigliose e con il generoso contributo al fundraising su Facebook, abbiamo aiutato chi è meno fortunato, solo questo motiva il viaggio. Ora prima di rientrare resterò un po’ qui a Perth, intanto un abbraccio commosso.
“Nell’anima non ho neanche un capello bianco” – Vladmir Majakovskij –
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