Lo svedese Ingmar Bergman (1918-2007), regista cinematografico e teatrale, è tra le maggiori personalità della cultura europea del ‘900. Attraverso la messa in scena delle dinamiche di coppia o del contesto familiare, analizzati psicologicamente, ha portato alla luce i malesseri e le tensioni di una società in crisi. Crisi di valori e di ideologie che evidenziano il drammatico senso della fine di un’epoca. Figlio di un pastore luterano, la sua infanzia è segnata dagli spostamenti della famiglia al seguito del padre e della sua carriera ecclesiastica. Il genitore, severo e umorale, impone ai tre figli una rigida educazione basata sulla dottrina cristiana mentre la madre, presa dai problemi domestici e succube al marito, è una figura fragile e sfuggente. Con il padre, Ingmar avrà sempre un rapporto difficile e conflittuale. La precarietà dei rapporti personali è a sua volta una costante nella vita privata del regista, sposato cinque volte, spesso con relazioni extraconiugali e con nove figli avuti dalle diverse mogli.
L’estetica del conflitto
La passione per il cinema è precoce, accanto a quella per il teatro che segna l’inizio della sua carriera al Royal Dramatic Theater di Stoccolma, città dove si era trasferito giovanissimo per evadere dall’opprimente clima familiare. Al cinema esordisce nel 1945 con Crisi, seguito, tra gli altri, da Piove sul nostro amore (1946), La terra del desiderio (1947), Musica nel buio (1948) e La prigione (1949). La cornice di queste opere è melodrammatica, tipica dei film di genere, ma in tutti l’autore si focalizza già sui conflitti generazionali e familiari. Esemplare anche il conflitto padre-figlio che è al centro di La terra del desiderio. Con il decennio successivo arrivano i primi successi internazionali: Un’estate d’amore (1950), Donne in attesa (1952) Monica e il desiderio (1952), Una vampata d’amore (1953), Una lezione d’amore (1953) e Sorrisi di una notte d’estate (1955), premiato a Cannes, sono i più rilevanti. In particolare, in Monica e il desiderio Bergman mette in scena temi come l’ansia di libertà, la rottura dei legami (familiari, domestici, affettivi…), la ribellione alle regole sociali e l’utopia irrealizzabile di un mondo migliore, che saranno fatti propri da molta cinematografia, anche commerciale, negli anni successivi. Il film viene apprezzato senza riserve dalla rivista “Cahiers du cinéma” (e, in particolare, da Jean-Luc Godard) e diventa un punto di riferimento per la Nouvelle Vague.
La seconda metà dei ’50 e il decennio successivo comprendono i capolavori più noti e riconosciuti, film che hanno lasciato il segno nella storia del cinema e in generazioni di cineasti. Peter Greenaway, per esempio, ha affermato di aver subito un influsso indelebile dalla visione, nel 1956, del Settimo sigillo. Oltre a questo, stiamo parlando di: Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), L’occhio del diavolo (1960), toni da commedia, ma pessimismo radicale, e dalla successiva “Trilogia del silenzio di Dio”. Sotto questa denominazione critica si è soliti comprendere tre film di argomento e ambiente molto diverso, ma accomunati da un medesimo filo conduttore: l’interrogativo sul trascendente. Questione peraltro già posta in molti altri film precedenti, sia pure in maniera meno esplicita. La trilogia comprende Come in uno specchio (1960), Luci d’inverno (1962) e Il silenzio (1963). Contrariamente a quanto sostenuto da una parte della critica, di matrice confessionale, la risposta del regista all’interrogativo resta totalmente negativa. Prova indiretta è la rappresentazione che Bergman dà sullo schermo dei ministri della religione: i pastori. In questi personaggi, ricalcati sulla figura paterna, va letto ovviamente il rimando al Supremo Pastore, a Dio. Ebbene in tutti i casi in cui compare un ministro del culto, costui si configura o come un freddo burocrate della fede, formale e poco commiserevole, oppure come un visionario disincarnato dalla realtà o, ancora, come un uomo disilluso, privo proprio di quella fede che dovrebbe alimentare il suo ministero. Insomma, nel migliore dei casi, un “ateo praticante”.
Analisi e psicanalisi
Il decennio culmina, nel 1966, con il complesso e problematico Persona che compendia tutta una serie di ricerche sull’immagine e sul suo significato che hanno caratterizzato le avanguardie cinematografiche. I temi ricorrenti dell’incomunicabilità, il senso del dolore, lo scopo della vita si uniscono qui a uno sperimentalismo linguistico molto accentuato.
Dopo Persona e il successivo, ancor più intellettualistico, L’ora del lupo (1967), Bergman colloca le sue storie di coppia in contesti legati al clima di tensione internazionale della fine dei ‘60 (La vergogna e Il rito, 1968) per tornare però ben presto a temi e personaggi che trovano nel contesto familiare la loro ragion d’essere e l’espressione del proprio disagio o della propria infelicità: L’adultera (1970), Sussurri e grida (1973), Scene da un matrimonio (1973) e Sinfonia d’autunno (1978). In tutti si coglie un interesse per la psicanalisi ancora più esplicito rispetto ai titoli precedenti. Tutto questo senza mai abbandonare le scene teatrali e occupandosi anche dei nuovi linguaggi televisivi e digitali. Come nel caso di quello che è considerato il compendio artistico e biografico del regista: Fanny e Alexander (1982), girato per la Tv e passato poi anche al cinema. Ritiratosi in vecchiaia sull’isola baltica di Fårö, che era stata set di alcuni suoi film, Bergman continua a lavorare fino agli ultimi anni girando nel 2003 Saraband, storia dell’incontro di due anziani ex coniugi che si trovano a fare i conti con un bilancio fallimentare della vita. Per il maestro svedese, dunque, la coppia è sempre il luogo privilegiato per analizzare e raccontare le pulsioni e i desideri, le parole e i silenzi, la complessità e il mistero dell’esistenza.
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