ORE 17: TENNIS
Cara Marta,
so che sei in casa, come sempre. Avere prospettiva significa lanciare il cuore oltre l’ostacolo, cercando di guardare in faccia il dopo. Si dice che con l’età si perda questo slancio verso il futuro, perché il futuro assume le sembianze di qualcosa di immediato e limitato nel tempo. Che senso ha cercare di guardare al di là dello scorrere dei decenni quando il nostro domani si esaurirà molto prima?
Ragionando così, l’orizzonte si rimpicciolisce e si finisce per interpretare come tragedia qualsiasi semplice seccatura. Io ho deciso di allungare l’occhio. Fammi sapere.Ti abbraccio,
Marisa
Carissima Marisa, non so come ringraziarti per il consiglio e per l’omaggio. All’inizio mi sono offesa a morte quando mi hai dato della lapide, ma avevi ragione. Mi chiedo come facevo a pensare di lasciare la mia vita a metà per così poco. Mi sono iscritta all’Abio e tre volte alla settimana vado a giocare con i bambini ricoverati in ospedale. Ho deciso di stare vicino a chi i problemi ce li ha davvero. Sono rinata, amica mia. Ora devo andare: ho prenotato il campo. Il martedì pomeriggio gioco sempre a tennis con mia nipote Carolina.
Ciao,
Marta
Prepara la racchetta, Marta: arrivo mercoledì.
A presto,
Maris
CAFFÈ DELLA SIGNORA FRANCA
La Signora Franca non era molto convinta di andare in gita a Roma, per via del suo problemino. Ma Clara aveva così insistito che si era decisa ad accettare. Incredibile la quantità di fontane che ci sono a Roma. Fontane che zampillano, gorgogliano, si prodigano i giochi d’acqua i più vari. Mentre andava in albergo, Franca svoltò l’angolo ed ecco la Fontana di Trevi, nella quale si agita davvero tanta acqua. La signora Franca ebbe improvvisa necessità di un bar. Entrò nel primo che capitò, ma, per motivi arcani che nessuno comprende, nei locali pubblici l’accesso alla toilette ha un collegamento metafisico con la consumazione. Non si può entrare in un bar e impunemente adire alle secrete stanze senza lasciare un obolo: è una teoria filosofica vecchia come il mondo. Come diceva Platone, la strada per la toilette è lastricata di caffè.
Signora Franca uscì, diede ancora un’occhiata alla magnificente fontana e si allontanò furtiva. Poco distante ecco piazza Navona e lo scorrere festante della Fontana dei Quattro Fiumi. Accidenti, come scorre. La Signora Franca guadagnò l’ingresso di un altro bar e prese il secondo caffè in dieci minuti.
Approdò all’hotel, si rinfrescò (con l’acqua) e si preparò per uscire. Nel pomeriggio lei e Clara fecero una passeggiata a Piazza di Spagna, e per fortuna la Fontana della Barcaccia aveva vicino un bar carino. Seguì passeggiata sul Lungotevere, che fu per la Signora Franca una via crucis di caffeina. Prima stazione, “Bar Last Supper”, caffè. Seconda stazione, “Bar da Giovanni All’orto degli ulivi”, caffè. Terza stazione, Franca rinnegata per la terza volta, marocchino con panna, tanto per cambiare. Quarta stazione, Franca se ne va a dormire e buonanotte al secchio. Pensò che forse avrebbe potuto andare in giro con un secchio al collo, o alternativamente un catetere poteva rappresentare una discreta iniziativa contro l’incontinenza.
Che fu una notte buona non si può dire. Franca, a causa dei molti caffè che era stata costretta a ingurgitare per la nota questione, non riuscì a chiudere occhio. Alle cinque del mattino si addormentò e sognò sorgenti, torrenti, cascate, mari in tempesta, rumori di risacca. La cosa andò avanti per due giorni.
Il terzo giorno, ormai in preda a svariati tic e a una forma di delirio causato dalla caffeina in circolo e dalla mancanza di sonno, visitò la Cappella Sistina, un luogo che può dare una risposta a ogni quesito, se bene interrogato.
La Signora Franca, osservando l’incanto della volta e i mutandoni dei soggetti dipinti, comprese come a chiunque possa capitare di trovarsi a indossare degli slip singolari, ma soprattutto notò come tutti lo facessero con assoluta naturalezza, senza alcun imbarazzo.
Fu così che la Signora Franca si organizzò. Tale decisione le consentì di abbattere la concentrazione di caffeina nel suo organismo. Il mese dopo la signora Franca andò a Venezia per il weekend e già che c’era prese una stanza sul Canal Grande.
FOREVER
Ho rivisto l’albero sul quale abbiamo inciso le nostre iniziali, C & E, con sotto il segno di infinito: Claudio & Emma forever. Avevamo undici anni, ricordi?
Non ti piaceva avere quell’età. Dicevi che l’undici porta sfortuna. Infatti quell’anno la mia famiglia si è trasferita a Dublino e io ho imparato l’inglese, ho sposato un irlandese, ho girato il mondo per lavoro e avuto due figli. Loro sono diventati grandi, Simon se n’è andato e così qualche mese fa sono tornata a casa, nella mia vecchia casa sulle colline parmensi. L’albero è sempre davanti alla mia finestra, cresciuto, ma non invecchiato, o almeno non pare.
Sono uscita a fare una passeggiata e ti ho rivisto, Claudio, che sei come quell’albero: anche su di te gli anni sono passati con grazia.
Sei diventato un giornalista famoso, ma sei sempre rimasto qui, e non mi hai riconosciuta, o forse nemmeno vista. Perché io mi nascondo, da un po’ di tempo. Sono vecchia, sarebbe ridicolo cercarti, a questo punto. Mia figlia dice che sono ancora bella, che non ci sarebbe niente di male se ti fermassi per strada una mattina e ti dicessi chi sono. Dice che sarebbe un gesto di umiltà, da parte mia, darti la possibilità di sapere chi sono. Chi ero, sarebbe meglio dire. Umiltà? Non credo che uno come te vorrebbe trascorrere del tempo con una come me. Non sono più la bambina di quarant’anni fa, quella con il vestito rosso, anche se in qualche cosa sono ritornata piccola, purtroppo. Non mi va di mettermi vestiti sgargianti. Povera me.
Poi una volta mi hai fermato tu e ti sei presentato. Hai detto che non sono cambiata per niente. Povero te, che sei diventato presbite.
Ci siamo visti tutte le mattine per quasi un mese e ho avuto il sospetto che tu passassi di lì apposta alla stessa ora per vedermi. Io lo so per certo, che uscivo sempre alla stessa ora sperando che tu ci fossi.
Abbiamo preso qualche caffè e qualche giorno fa mi hai invitato a cena in questo bel ristorante nel quale sto entrando. Sei già lì seduto al tavolo che mi aspetti.
Ci ho pensato un po’, prima di accettare. Avevo paura di tante cose, ma poi ho pensato che ne ho visto tante e che sono ancora qui e che non so se sono ancora giovane, ma non lo sei nemmeno tu. Stamattina ho comprato un vestito rosso. Tu ti alzi e mi vieni incontro e sei lo stesso Claudio che ha disegnato il simbolo dell’infinito e io ho ancora undici anni. Non è vero che l’undici porta sfortuna.