Per trovare un referente adeguato che potesse suggerire ai nostri lettori i giocattoli “giusti” per la filosofia sottesa, ci siamo rivolti a Fortura Giocattoli, che da 105 anni rappresenta un punto di riferimento nel mondo dei giocattoli e un indirizzo prezioso che si tramanda dai genitori ai figli.
Alla fine del XIX secolo, Enrico Fortura, quando partì dalla Ciociaria per stabilirsi nella cittadina di Hannover e impiantarvi una fabbrica di palloncini gonfiabili, probabilmente non immaginava di aver cominciato una storia che, attraversato il Novecento, impegna oggi la quarta generazione. Per conoscere più da vicino gli aneddoti e le sfumature di questa storia, siamo andati nei locali del negozio di via Pietrasanta, a Milano, per incontrare la nipote di Enrico, attuale presidente di Fortura giocattoli, Maria Teresa Dalavecuras, che per anni ed esperienza è una Grey Panthers Doc. Insieme a lei, i figli Martina e Paolo Scaccabarozzi.
Qual è l’inizio della vostra storia nel mondo dei giocattoli?
“Il filo della memoria e dei racconti di famiglia mi riporta ad Hannover, dove la fabbrica di palloncini si sviluppò con successo, fino allo scoppio del primo conflitto mondiale quando Enrico Fortura decise di rientrare in Italia e di stabilirsi a Chiavari. In quel momento erano già attive tre filiali: Francoforte, Altona (hinterland di Amburgo) e Milano, in piazza della Vetra, al numero 16. Fortura aveva coinvolto, infatti, alcuni fratelli e sviluppato una rete di vendita tra Germania e Italia”.
“La speranza che la guerra terminasse rapidamente si rivelò, come tanto spesso accade, infondata. Mentre Enrico, sua moglie Maria Teresa Di Placido e sette degli otto figli attendevano in Italia, la fabbrica tedesca – lasciata in gestione ai collaboratori – andò distrutta. La mia mamma, Enrica,” – continua la signora Maria Teresa – era rimasta in Germania più a lungo degli altri, ma dovette rientrare nel 1917. La famiglia al completo si trasferì a Milano un anno dopo e mio nonno – dapprima aprendo una sede in via Piatti, poi in via Olmetto 17 – continuò a trattare palloncini: non più fabbricandoli, ma vendendoli all’ingrosso insieme ad altri giocattoli, tra fiere e sagre. Alla sua scomparsa, nel 1933, Enrica – l’unica tra i figli ad averlo incoraggiato a ricominciare l’attività – ne prese il posto alla guida del negozio. Poco dopo, nel 1934, si sposò con Evangelo Dalavecuras, importatore in Grecia di prodotti italiani. Dapprima cliente dell’impresa, poi socio dal 1934, mio padre aiutò Enrica dopo la morte del padre”.
Quando iniziano i suoi ricordi di giocattoli e palloncini?
“Durante la Seconda Guerra Mondiale, ancora una volta, la mia famiglia fu costretta a sfollare da Milano verso Merone Ponte Nuovo (Como), in un fienile adibito a negozio. Al posto del fieno, i giocattoli. Gli scambi con Milano proseguono, come testimoniato anche da una lettera, gelosamente conservata nell’archivi di famiglia, datata ottobre 1944 dell’ufficio acquisti Upim-Rinascente. Dopo la Liberazione, il ritorno definitivo a Milano nel 1946. Io, bambina, sono inevitabilmente attratta dai giocattoli. In particolare ricordo una bambola “intoccabile”, perché, diceva sempre il mio papà, ‘Questi non sono giocattoli; sono campioni’. Quella bambola l’ho ritrovata tantissimi anni dopo su un catalogo illustrato d’epoca che ci è stato donato da un anziano cliente che lo aveva conservato per mezzo secolo. Oltre alle bambole il catalogo offriva bilance a due piatti, macchine per cucire, carte da gioco, una serie di automobiline di latta affiancate da un ‘motoscafo a reazione’, cavallini e un’ampia gamma di maschere in cartapesta”.
Come si sono evoluti i negozi, fino ad arrivare ai due attuali punti vendita milanesi?
“Risale al 1955 il trasferimento definitivo nell’attuale negozio di via Olmetto 10. La dimestichezza di mio padre con l’attività di importazione portò ad aprire, negli anni successivi, un canale con il Giappone, e io, che nel frattempo avevo trascorso un lungo periodo in Inghilterra e mi era diplomata, fui incaricata di redigere la corrispondenza in inglese. Ricordo che i tempi erano biblici, perché tu scrivevi oggi e ti rispondevano dopo quindici giorni; insomma, passavano dei mesi. Si importavano giocattoli, ma anche collane, tagliaunghie e accessori simili. Naturalmente il mio papà rimaneva in contatto con la Grecia, scambiando merci, ma anche assistendo un amico greco nell’impiantare una fabbrica di bambole. Dall’Italia furono spediti stampi, macchine “arricciatrici” per i capelli, occhi per le bambole, tessuti per i vestitini”.
“Sebbene io abbia assistito i miei genitori fin da ragazza, le mie responsabilità nella gestione dell’impresa crebbero a partire dal 1970, quando la mia mamma Enrica non se la sentì più di restare in negozio e anche l’anziana zia Virginia dovette smettere”.
“In quegli anni mi sposo e metto al mondo Martina, nata nel 1973, e Paolo, nel 1975. Nella gestione dell’attività ero aiutata da Luisa Soma, entrata in negozio nel 1968 come contabile: la assunsi molto giovane perché volevo un tocco di gioventù. Luisa è ancora con noi e la sua preziosa collaborazione è arrivata al quarantesimo anno”.
Cosa vendevate in quel periodo? Quali erano i giocattoli più amati?
“Se fino al Dopoguerra i prodotti qualitativamente migliori erano i giocattoli tedeschi e gli oggetti a molla, in particolare di marca Schuco, progressivamente la clientela di via Olmetto si differenziò: da un lato gli ambulanti, a lungo prevalenti, che cercavano articoli senza molte pretese; dall’altro gli acquirenti al dettaglio, desiderosi di acquistare i nuovi giocattoli giapponesi, capaci di imporsi sul mercato anche per la rivoluzionaria introduzione delle batterie”.
“Negli anni Settanta si crea quindi una distinzione piuttosto netta in termini di gusti, esigenze, prezzi, che si dimostra difficile far convivere nella medesima sede. A questo si aggiunge un mutamento di atmosfera: via Olmetto aveva assunto un profilo elegante e si cominciava a mal tollerare l’andirivieni dei camion degli acquirenti all’ingrosso. Si profilava insieme un problema logistico e di opportunità che ci portò alla ricerca di una sede da dedicare specificamente all’attività di grossisti, lasciando in via Olmetto il dettaglio. La scelta, compiuta nel 1980, cadde su via Pietrasanta e coincise con l’inizio di un mutamento complessivo nel mercato del giocattolo: al prodotto giapponese cominciava a sostituirsi il concorrenziale oggetto cinese, molto inferiore in termini qualitativi, ma assolutamente più economico”.
Per capire meglio il mercato dei giocattoli e della sua evoluzione, ne chiediamo conto a Paolo Scaccabarozzi, il più giovane e il primo tra i figli di Maria Teresa a entrare nell’impresa. Conclusi gli studi superiori, comincia ad apprendere l’arte dell’assortimento, dell’esposizione e della vendita, divenendo responsabile acquisti, abile nel cogliere le sfumature e i trend del mercato. Racconta…
“L’evoluzione verso Oriente della produzione di giocattoli è una fase ancora in corso, dato che la quasi totalità del mercato globale in questo settore è dominata dalla Cina. Persino il giocattolo di legno, una nicchia che noi curiamo con molta attenzione, tedesco per tradizione o comunque nord-europeo, vede oggi l’ingresso della produzione cinese. Questi segnali, assieme a un miglioramento degli standard qualitativi dettato dalla più stringente normativa in materia, testimoniano una forte adattabilità e flessibilità dell’imprenditoria cinese, che rapidamente coglie i mutamenti ed è in grado di interpretarli.”
L’altra figlia di Maria Teresa, Martina Scaccabarozzi, entra nell’impresa nel marzo 2008, dopo un’esperienza di sei anni a Londra come assistente al direttore commerciale del Guardian. ….
“Dopo la laurea in scienze politiche e un soggiorno in Inghilterra grazie al progetto Erasmus, avevo il sogno di lavorare presso agenzie internazionali o corporation del mondo anglosassone, di cui apprezzo organizzazione ed efficienza. Per un anno ho lavorato in un gruppo americano con sede a Milano, poi nel 2002 inizia la mia lunga esperienza presso il noto giornale inglese. Lì ho maturato il desiderio di un’assunzione diretta di responsabilità e ho iniziato a riconsiderare in quest’ottica l’impresa di famiglia, che all’inizio ritenevo poco stimolante. A Londra ho osservato lo strapotere delle catene commerciali in franchising. Anche per evitare che questo accadesse in Italia, ho deciso di tornare e inserirmi attivamente nella società. In Fortura mi occupo di comunicazione e marketing, di fondamentale importanza anche nel nostro settore commerciale”.
È difficile dare un messaggio chiaro e definito al consumatore, perché possa scegliere adeguatamente i prodotti da acquistare?
“Sarebbe importante che Unione del Commercio e Assogiocattoli ci supportassero nel divulgare la cultura di una selezione personalizzata dei giocattoli da parte del commerciante, con l’intento di favorire l’utente finale (il bambino), la cui creatività è oggi vittima delle strategie pubblicitarie”, continua Martina. “Quest’ultimo dovrebbe poter trovare nel suo negozio preferito alternative che lo interessino e lo stimolino al di là degli articoli reclamizzati. Insomma, una sorta di ‘biodiversità’ del giocattolo, concetto applicato alle scienze naturali per salvaguardare le risorse del pianeta”.
In via Olmetto ci sono i giocattoli per la vendita al dettaglio, sia quelli ispirati alle tendenze recenti sia i più tradizionali e selezionati. Un assortimento rivolto alla clientela esigente del centro di Milano e prodotti a volte introvabili nelle catene distributive. Una scelta netta, condivisa anche nella sede di via Pietrasanta, è stata fatta da Fortura, come da altri giocattolai: non si vendono videogame! I bambini hanno fantasia e vivacità sufficienti per animare qualunque dei giocattoli che trovano qui.
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