In continuità con il trend di repressione preventiva rilanciato con maggiore forza all’indomani delle elezioni presidenziali del 2018, il capo di stato Abdel Fattah al-Sisi ha segnato un nuovo punto nella propria agenda politica vincendo un contestato referendum costituzionale ad aprile. Un voto che ha segnato di fatto la fine di qualsiasi eredità rivoluzionaria e che rischia contestualmente di aprire una nuova stagione di restaurazione autoritaria. Sul piano regionale e internazionale, invece, non si segnalano particolari cambi di registro, se non un rinnovato interventismo egiziano nei principali dossier regionali (Libia e Striscia di Gaza).
Quadro interno
La vittoria nel referendum (88,83% i “sì” contro 11,17% di “no”), che modifica sostanzialmente la Costituzione egiziana e i poteri a disposizione del presidente, garantisce ad Abdel Fattah al-Sisi una lunga presidenza, almeno fino al 2030. Un voto che essenzialmente ha mirato ad allungare i termini del mandato presidenziale (che è passato da quattro a sei anni, in maniera retroattiva), ampliandone contestualmente i poteri (maggior controllo sulla magistratura ordinaria e sugli organi di vigilanza giudiziari). Altresì il referendum ha decretato una posizione dominante e istituzionalizzata assunta dalle forze armate in termini di potere soprattutto civile (economia, giustizia e sicurezza).
Il voto in questione[1] ha certificato ancora una volta l’esigenza del regime di non permettere l’emergere di nuovi e possibili leader alternativi all’attuale corso politico. Di fatto un blocco all’ingresso per qualsiasi candidato che non abbia uno sfondo militare o un curriculum rientrante nei canoni accettati dall’inner circle sisiano. Il voto non è mai stato in discussione e ha visto una partecipazione popolare leggermente superiore alle precedenti tornate elettorali (intorno al 44% contro una media tra il 38 e il 40%), nelle quali si è tuttavia evidenziata una forte protesta popolare, tanto da far parlare alcuni autorevoli commentatori politici di un ritorno delle opposizioni sulla scena politica. Infatti, il referendum dello scorso 20-22 aprile ha segnato una lenta e faticosa ripresa delle attività delle opposizioni, che dal 2011 sono state strumentalmente represse dalle istituzioni egiziane. Una situazione divenuta più evidente in particolare dalla seconda metà del 2018, ossia all’indomani del voto sulle presidenziali del marzo 2018. In quei mesi il governo ha lanciato un nuovo giro di vite nei confronti di eminenti personaggi pubblici, giornalisti, scrittori e accademici, alcuni dei quali sono anche stati incarcerati. Alla base di ciò vi era una forte denuncia – proseguita anche nei mesi successivi che hanno accompagnato lo scarno dibattito sul referendum costituzionale – da parte di questi personaggi contrari alla deriva autoritaria in cui rischia di incorrere il paese. Nonostante quindi il boicottaggio annunciato da alcune frange delle opposizioni e l’attivismo più civico che partitico avvenuto soprattutto attraverso internet – unico spazio ancora esistente per esprimere il dissenso nei confronti delle politiche del governo in carica – la campagna dei gruppi di opposizione al “no” è stata diversificata e ha cercato soprattutto di raggiungere una più vasta cittadinanza possibile, invitandola a votare piuttosto che a boicottare il voto referendario. A oggi, però, le uniche forme di opposizione vere al regime rimangono all’infuori dei confini egiziani e per la precisione si concentrano negli Stati Uniti, in Europa e in Turchia, dove è presente un variegato mondo di forze laiche e islamiste, accomunate da un forte sentimento contro l’attuale regime. In particolare negli Stati Uniti, le componenti della comunità egiziana hanno lanciato un’attiva e ampia campagna di informazione atta a spiegare ai legislatori del Congresso statunitense i rischi derivanti dagli emendamenti proposti.
Benché forse sia troppo presto per poter affermare ciò, è comunque possibile evidenziare come dall’approccio che eserciteranno tutte le istituzioni verso questa ridefinizione della Costituzione egiziana dipenderà molto del futuro politico del paese. Infatti, il voto di aprile ha definito in maniera permanente e inequivocabile il ruolo dei militari nelle dinamiche politiche e istituzionali egiziane, definendoli come unici garanti dell’ordine costituito e necessari difensori contro tutte quelle forze capaci di sovvertire il concetto di stato e legge venuto fuori dal referendum. Di fatto la Costituzione e lo stato diventano strumenti funzionali a poche e ristrette élite di potere. In tal senso anche la repressione preventiva è giustificata dalle autorità essenzialmente per impedire eventuali regime change, sebbene le possibilità per un tale scenario siano molto scarne. Anche per ciò è facile immaginare che il governo eserciterà uno stretto controllo sulla sicurezza interna e proseguirà con una linea dura impostata sulla repressione del dissenso, delle libertà dei media e dei diritti civili, singoli e collettivi. Nell’ottica del governo centrale vi è una ferma convinzione che lo stato sia ancora troppo fragile per poter consentire slanci democratici. Una scelta che indirettamente conferma la debolezza del regime, il quale mostra il pugno duro come unica forma di governo utile a consolidare il potere e a soffocare qualsiasi rimanente forma di opposizione. Non di meno, tale attitudine esprime anche una forte esigenza interna dello stesso regime di auto-immunizzarsi dalle tempeste regionali che stanno lambendo il Nord Africa intero (Algeria, Libia e Sudan) e che potrebbero avere dei riflessi importanti in Egitto. Anche alla luce di ciò, le elezioni municipali, posticipate verso la fine del 2019, potrebbero rappresentare un banco di prova importante per il governo.
Ciononostante, il protrarsi della repressione potrebbe minare anche i leggeri segnali di ripresa emersi nei due principali indirizzi di politica interna di tutti gli esecutivi egiziani post-rivoluzionari: irrobustimento del processo di crescita macroeconomica e stabilizzazione nel quadrante della sicurezza. Queste due direttrici continuano a rappresentare oggi – seppur per motivi differenti – cause di profonda incertezza sull’effettiva stabilità del paese. Infatti, una crescente precarietà politica ed economica potrebbe divenire un fertile terreno per creare nuovi fattori di instabilità.
Il governo continua nel suo tentativo di risanamento di un’economia ancora fragile e non pienamente rivitalizzata dopo anni di aiuti provenienti dai paesi arabi del Golfo e di prestiti internazionali in cambio di misure di forte austerità promosse invece dal Fondo monetario internazionale. Proprio l’economia rappresenta il punto debole dei governi egiziani post-rivoluzionari, in quanto le riforme prodotte e le forti prospettive nel settore energetico hanno sì favorito una certa ripresa del prodotto interno lordo ma hanno anche alimentato un diffuso malcontento popolare, danneggiando maggiormente i poveri e la classe media. Anche per far fronte agli alti tassi di disoccupazione (particolarmente quello giovanile), il governo ha condotto importanti investimenti di tipo infrastrutturale nei cosiddetti mega-progetti, piani di sviluppo territoriale volti a favorire una certa ripresa delle aree maggiormente periferiche e meno avanzate del paese. Oltre ai progetti già approvati nel Sinai – in particolare nel sud della penisola, più attrezzata e dedita al turismo – e in materia di agricoltura e acqua potabile nel Deserto occidentale, i nuovi progetti includono la costruzione di nuovi tunnel nel Canale di Suez e una nuova città a Ismailia. Di fatto senza una piena e stabile ripresa economica, il paese corre il rischio di andare incontro a nuove fratture sociali che se non ben assecondate potrebbero incancrenirsi come fattore di instabilità, anche a uso e consumo della violenza politica e terroristica.
Parimenti all’economia, la sicurezza rappresenta ancora un tema fortemente sensibile e di grande attenzione per il governo. L’ampia offensiva anti-terrorismo lanciata nel febbraio 2018 ha inflitto gravi danni alle infrastrutture terroristiche e ha contribuito a favorire una ripresa del turismo, settore cruciale per l’economia nazionale. Ciononostante, la situazione sul terreno rimane ancora decisamente instabile come dimostra la settima proroga di tre mesi dello stato di emergenza re-introdotto nell’aprile 2018 dopo gli attentati contro le chiese cristiano-copte di Tanta e Alessandria. I gruppi legati all’estremismo violento di tipo anarchico e all’Islam radicale, seppur duramente colpiti e in alcuni casi avversati, continuano a mantenere una forte presenza nell’intero paese, dal Sinai alla Valle del Nilo. Infatti, esiste ancora un rischio considerevole portato dai gruppi jihadisti, che continuano a condurre attacchi a intermittenza verso obiettivi dichiaratamente turistici che coinvolgono anche e soprattutto soggetti stranieri, nonché nei confronti di target militari e contro luoghi di culto. A ciò si aggiunge un forte senso di alienazione delle simpatie pubbliche verso la Fratellanza musulmana, a causa della narrativa di governo che li ha presentati in questi anni come un soggetto eversivo alla pari dei gruppi terroristici attivi nel paese.
Relazioni esterne
Le priorità del governo rimarranno sostanzialmente invariate sulle tre direttrici di politica estera: mantenimento di cordiali legami con gli Stati Uniti e l’Unione europea; ampliamento dei legami internazionali (tra cui un approfondimento delle relazioni con Russia e Cina); rinsaldamento dell’asse economico e politico con gli stati arabi del Golfo nelle principali questioni di politica mediorientale. Sebbene negli ultimi anni il Cairo abbia cercato di predisporre un proprio impianto autonomo di politica estera sempre più indipendente dai canoni tradizionali, il governo egiziano si è comunque distinto per un rinnovato tentativo di adeguare le proprie aspirazioni politiche (promuovere un’immagine di Egitto nuovamente come fulcro centrale delle dinamiche mediorientali e arabo-musulmane) alle contingenze del momento (necessità di attrarre nuovi capitali finanziari e politici attraverso una diversificazione dei contatti diplomatici)[2].
Anche in quest’ottica si spiegano i tentativi egiziani di riprendere in mano alcuni dossier come Libia e Striscia di Gaza, nei quali il Cairo ha cercato di far prevalere una linea marcatamente diplomatica e di sicurezza dei propri interessi strategici nelle aree in questione (messa in sicurezza dei confini e approvvigionamento energetico in Libia, al quale fa da contraltare per lo più un’attività di messa in sicurezza della frontiera settentrionale sinaitica condivisa con la Striscia di Gaza). Tale approccio si è mostrato meglio in Libia, dove il ruolo egiziano è decisamente marcato ed evidente in appoggio alle truppe del generale Khalifa Haftar e con una maggiore presenza militare lungo l’esteso confine condiviso tra i due paesi. Più sfumato, invece, si è mostrato l’attivismo egiziano nella Striscia di Gaza, dove ai ripetuti tentativi di mediazione tra Hamas e Israele (non ultimo l’ultima tregua del 6 maggio 2019) ha fatto da contraltare un’iniziativa propriamente securitaria portata avanti dagli uomini dell’intelligence e dai militari, volta a isolare le aree di confine egiziane maggiormente problematiche da un possibile effetto contagio da parte di Gaza.
Non meno complessi si sono altresì dimostrati i rapporti consolidati tra Egitto e fornitori europei, con i quali il paese ha intrattenuto una relazione basata essenzialmente sull’acquisto di materiale e hardware militare (principalmente da Germania, Francia e anche Italia) come priorità assoluta nel contesto delle campagne di sicurezza in Egitto e nelle crescenti tensioni geopolitiche nel Mediterraneo orientale. Quest’ultima è un’area sempre più rilevante anche a livello internazionale per via delle immense fortune gasifere scoperte nei fondali marini e in cui l’Egitto assume un ruolo sempre più cruciale nello sviluppo di tali risorse e di strumenti di cooperazione politica, insieme a Cipro, Israele e Grecia (oltre a Giordania, Italia e Autorità nazionale palestinese). Le crescenti riserve di gas naturale egiziane potrebbero infatti permettere al Cairo di divenire un fornitore regionale di energia. Anche per questo, fin dalle prime scoperte avvenute al largo della costa di Alessandria nel 2015, l’Egitto ha provveduto a scoraggiare qualsiasi tentativo regionale portato dalla Turchia, che non riconosce gli accordi di demarcazione marittimi vigenti nell’area. Se da un lato il ruolo egiziano nel Mediterraneo rappresenta un fattore di stabilità di primaria importanza per la stessa Unione europea, i rapporti con alcuni dei suoi stati membri conoscono ancora fasi alterne. Molto forti e sviluppate sono le relazioni dell’Egitto con Francia e Germania, in particolare nell’ambito della cooperazione energetica e in materia di difesa. Di contro le relazioni con l’Italia rimangono ancora incerte soprattutto a causa degli sviluppi zoppicanti sul caso Regeni.
Una menzione particolare merita soprattutto il rapporto tra il Cairo e Washington, basato essenzialmente su un rapporto di stima reciproca tra i due presidenti, i quali si sono incontrati nuovamente il 9 aprile a Washington. Al centro dei colloqui una serie di importanti dossier regionali e internazionali. Tra tutti hanno avuto una certa eco i temi relativi agli emendamenti costituzionali in Egitto, la Libia, la questione della mancata partecipazione egiziana alla Middle East Strategic Alliance (Mesa)[3] e, presumibilmente, il tema dell’iscrizione della Fratellanza musulmana nella black list internazionale del terrorismo. Se sulla Libia e sulla riforma costituzionale egiziana, al-Sisi ha ricevuto un largo quanto prevedibile sostegno da parte di Trump – anche in virtù della ferma convinzione del presidente Usa secondo cui il leader egiziano rappresenta un fondamentale partner di Washington nella lotta al terrorismo internazionale –, la decisione egiziana di uscire dal progetto Mesa ha provocato una certa irritazione nell’amministrazione statunitense. Il ritiro egiziano dal Mesa è stato in parte favorito anche dai nutriti dubbi di formulazione del soggetto in questione. L’amministrazione egiziana si è dimostrata molto cauta nei confronti di un impegno internazionale potenzialmente problematico rispetto agli stessi interessi strategici del Cairo. Uno degli esempi più ovvi è il fermo rifiuto dell’Egitto di schierare le proprie truppe in scenari militari (come ad esempio lo Yemen) dove non erano direttamente coinvolti la difesa degli interessi nazionali egiziani. È interessante notare come nella dichiarazione ufficiale della Casa Bianca, pubblicata poco dopo il meeting Trump-Sisi, non fosse contenuta la parola “alleanza”, mentre invitava le parti a una più stretta “relazione strategica”. Una nota stonata che potrebbe in qualche modo essere rivista in virtù dell’ultima iniziativa, per ora soltanto abbozzata, del presidente Trump, ossia quella relativa all’inserimento della Fratellanza musulmana nella black list del terrorismo internazionale. Una decisione che qualora venisse confermata potrebbe avere un effetto domino su tutti i principali dossier mediorientali con riflessi non calcolabili in termini politici anche nei singoli scenari interni ai paesi della regione. Sebbene la proposta non sia nuova – già tre anni fa venne avanzata e quasi subito contenuta da parte dei diplomatici del Dipartimento di Stato –, l’invettiva riproposta da Trump potrebbe trovare ora una sponda interessata nei partner arabi, tra cui lo stesso Egitto, come merce di scambio nei principali dossier mediorientali[4].
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