In politica interna nonché nella postura regionale, l’Arabia Saudita appare, ora più che mai, come il regno delle contraddizioni. Infatti, le scelte politiche di Riyadh, in materia di diritti e libertà di espressione, ma anche nei rapporti diplomatici con vicini e alleati, assumono modalità imprevedibili e, talvolta, apparentemente contraddittorie. La politica saudita dà la sensazione di muoversi “di volta in volta”, “caso per caso”, comunque al di fuori di un disegno strategico: l’assenza di un compiuto quadro d’insieme, di un codice politico-operativo, potrebbe derivare proprio dalla fisiologica spinta scompositrice connaturata a quel processo di transizione (di potere, economico, sociale), innescato dalla leadership del principe ereditario, nonché ministro della Difesa, Mohammed bin Salman Al-Saud. Insomma, riformare radicalmente un sistema significa, innanzitutto, far saltare i meccanismi esistenti, per poter poi delineare nuovi perimetri ed equilibri. Di certo, l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman (MbS), finora assecondato dal padre, il re Salman, sta (ri)diventando uno stato centralizzato, ma inserito in un contesto altamente globalizzato. Uno stato contraddistinto, come sempre, da processi di “modernizzazione dall’alto”, qui perseguiti con metodi popolari tra i giovani sauditi (vedi gli arresti di massa in chiave anti-corruzione al Ritz-Carlton, novembre 2017), ma che avvengono al di fuori di un processo di negoziazione tra nuovo vertice ed élite preesistenti, anche interne alla famiglia reale. Soprattutto, il quasi-regno di MbS sperimenta un’inedita personalizzazione in chiave nazionalista del potere, a fronte di una graduale scoloritura della tradizionale connotazione wahhabita del paese (vedi il ridimensionamento del ruolo della mutawwa, la polizia religiosa).
Quadro interno
Arresti e rilasci di attivisti e attiviste (per i diritti delle donne, per le riforme sociali, per la libertà d’espressione, per i diritti degli sciiti della regione orientale), nonché di religiosi legati alla corrente della sahwa, si susseguono[1] . Per esempio, otto persone, tra cui due attivisti con doppio passaporto saudita e statunitense, sono stati arrestati nel mese di aprile; questi fermi sono stati preceduti, nel mese di marzo, dal rilascio (misura comunque temporanea in attesa del processo) di tre attiviste saudite in regime di carcerazione preventiva da un anno. Altre quattro attiviste sono state temporaneamente rilasciate nel mese di maggio. Un gruppo di attivisti, fra cui donne, sarebbe stato sottoposto ad abusi e torture durante la detenzione, come scritto nel report medico preparato per re Salman e in parte divulgato dal quotidiano britannico The Guardian[2] . Oltreché per gli arresti, il caso Khashoggi e le tante vittime civili dei bombardamenti sauditi nello Yemen, Riyadh rimane al centro dello scrutinio dei media internazionali, fin qui con scarse ricadute politiche, anche per le esecuzioni: il 23 aprile, trentasette sauditi sono stati sottoposti alla pena capitale, probabilmente per decapitazione, poiché sentenziati per “crimini di terrorismo”. Le esecuzioni, le più numerose in un solo giorno dal 2 gennaio 2016 (furono quarantasette i giustiziati, tra cui il celebre religioso sciita Nimr Al-Nimr), sono temporalmente seguite all’attacco del 22 aprile, rivendicato dalla cellula saudita del sedicente Stato Islamico, contro il comando di polizia della città centrale di Zulfi, in cui sono morti quattro attentatori e tredici cittadini sauditi sono stati, in seguito, arrestati. Dopo aver rimosso e/o emarginato i potenziali rivali al trono (come il cugino Mohammed bin Nayef, già potente ministro degli interni, o il principe Mitaeb, già capo della Guardia Nazionale), Mohammed bin Salman sta provando a rimuovere gli ostacoli organizzativi e burocratici alla sua leadership. A tal fine, il numero due di Riyadh sta centralizzando e personalizzando i principali centri di potere del regno, tra cui i servizi di sicurezza interni. La promulgazione della legge anti-terrorismo, nel 2017, è avvenuta in parallelo all’istituzione della Presidenza della Sicurezza dello Stato, organismo controllato dalla corte reale (di cui MbS è segretario generale), che accorpa anti-terrorismo e servizi di intelligence interni, trascendendo il potere giudiziario[3] .
Prosegue la diversificazione economica del regno: turismo e intrattenimento sono fra i settori sui quali Riyadh ha deciso di puntare per sviluppare il ramo non-oil. La Saudi Entertainment Ventures Company (Seven), una divisione del Fondo di Investimento Pubblico (Pif), ha annunciato l’apertura di venti parchi di divertimento in Arabia Saudita (il primo sarà a Riyadh): le strutture, che includeranno aree per lo sport, l’intrattenimento e l’arte, nonché per la ristorazione, intendono attrarre il turismo familiare saudita. Oltre al settore “divertimento”, il regno vuole affermarsi come meta internazionale per il turismo archeologico (come nel caso del sito archeologico pre-islamico di al-Ula, nel nord ovest del paese) e delle vacanze: in questo settore, Riyadh intende attrarre fino a 20 miliardi di dollari di investimenti entro il 2035. Al momento, la prima voce turistica in Arabia Saudita riguarda il solo turismo religioso, ovvero l’annuale hajj a La Mecca. In un quadro segnato dalla forte flessione degli investimenti internazionali nel regno, è ancora la compagnia petrolifera Saudi Aramco a sostenere il peso finanziario della diversificazione economica. Infatti, la quotazione in borsa della compagnia è stata rinviata dal 2018 al 2021, ma il debutto di Saudi Aramco sul mercato dei bond, avvenuto in aprile, è stato un grande successo, con ordini che hanno raggiunto i 100 miliardi di dollari. Inoltre, Saudi Aramco è stata protagonista di un’altra consistente operazione finanziaria, stavolta tutta interna all’Arabia Saudita: la compagnia petrolifera ha infatti rilevato il 70% di Sabic, il fiore all’occhiello nazionale della chimica, versando 69 miliardi di dollari nelle casse del fondo sovrano saudita. Un’operazione di vertice che ha l’obiettivo di assicurare la sostenibilità finanziaria di Vision 2030[4] .
Da una prospettiva geostrategica, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (Eau) sono stati oggetto, con modalità differenti, di due episodi preoccupanti per la stabilità regionale e la libertà di navigazione. Il 12 maggio, quattro navi commerciali, tra cui due petroliere saudite, sono state sabotate nella zona economica degli Eau, al largo dell’emirato di Fujairah, con danni, nel caso di una nave norvegese, compatibili con l’utilizzo di mine marittime: gli Emirati Arabi Uniti hanno aperto un’inchiesta, cui partecipano anche Stati Uniti, Arabia Saudita e Norvegia. Il 14 maggio, due installazioni petrolifere saudite nell’area di Riyadh sono state colpite da droni: ciò ha causato il danneggiamento di una delle due strutture e la temporanea interruzione della East-West pipeline (Petroline), ovvero l’oleodotto che trasporta il petrolio dalla regione orientale al porto occidentale di Yanbu, sul Mar Rosso. Gli huthi hanno rivendicato questo attacco, una ritorsione nei confronti dell’intervento saudita in Yemen: secondo gli insorti sciiti, sette droni avrebbero colpito l’area. Per Riyadh e Abu Dhabi, tali episodi, a prescindere dagli autori ancora in via di accertamento, contengono un chiaro messaggio strategico. Infatti, entrambi gli attacchi sono avvenuti al di là dello stretto di Hormuz (Fujairah e le infrastrutture dirette alle coste del Mar Rosso), mettendo dunque in luce che gli interessi commerciali ed energetici dell’Arabia e delle monarchie vicine possono essere danneggiati anche nelle aree ritenute più sicure, poiché alternative al choke-point di Hormuz[5] .
Relazioni esterne
Anche in politica estera, l’Arabia Saudita attraversa una fase non priva di contraddizioni, specie nei rapporti con gli alleati regionali. Innanzitutto, la crisi interna al Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) rimane aperta: i sauditi, insieme a Eau, Bahrein ed Egitto hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar da ormai quasi due anni (giugno 2017). Tuttavia, se sul piano verbale-retorico la contrapposizione è ancora forte, vanno segnalati alcuni recenti episodi in senso distensivo. Un contingente di militari qatarini ha partecipato alle esercitazioni militari congiunte svoltesi a Jubail, in Arabia Saudita (Dir al-Jazeera 10, 21 febbraio-12 marzo); l’ultima riunione del Gcc Supreme Military Committee, ospitata dall’Oman il 1 maggio, ha visto presenti i sei capi di stato maggiore dell’area, Qatar compreso. Il piccolo emirato degli Al-Thani ha ospitato il sedicesimo incontro ministeriale per il Dialogo Cooperativo in Asia (Ministerial Committee of the Asia Cooperation Dialogue, 30 aprile-2 maggio): per l’occasione, delegazioni saudite e bahreinite sono giunte in Qatar, ricevute dall’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani. La notizia che gli Eau avrebbero allentato il blocco commerciale nei confronti del Qatar è stata smentita da Abu Dhabi. Di certo, la Dolphin pipeline, ovvero il gasdotto sottomarino che permette al gas qatarino di raggiungere gli Eau e l’Oman, non si è mai interrotta[6] : il contratto di approvvigionamento è stato inoltre prolungato al 2032. Riguardo all’Oman: l’Arabia Saudita non ha mai gradito la posizione politica del Sultanato, suo alleato, sulla crisi in Yemen. Infatti, Muscat ha sempre mantenuto aperto un canale di dialogo con gli huthi (gli insorti sciiti del nord sostenuti dall’Iran), permettendo a suoi esponenti di soggiornare sul territorio per incontri diplomatici, anche con le Nazioni Unite, e cure mediche. La crescente tensione tra il Consiglio di Transizione del Sud (Stc, l’organo pro-indipendentista degli yemeniti del sud sostenuto informalmente dagli Eau) e l’Oman, che teme di perdere la tradizionale influenza nelle aree al confine yemenita-omanita, si scarica anche sui rapporti fra Arabia Saudita e Oman, dato il forte asse regionale tra Riyadh e Abu Dhabi[7] .
Seppur alleati, Arabia Saudita e Marocco vivono giorni di crisi. Le schermaglie tra il regno wahhabita e quello di re Mohammed VI durano da tempo (per esempio, Mohammed bin Salman non ha visitato Rabat nel corso del tour mediorientale del 2018), ma le frizioni sono ormai evidenti. Nonostante il Marocco abbia interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran (2018), accusato dai marocchini di sostenere il Fronte Polisario, Rabat continua ad avere rapporti diplomatici con il Qatar: movimenti legati alla Fratellanza musulmana sono presenti in entrambi i paesi. Mohammed VI, così come re Abdullah Hussein di Giordania, ha vivacemente protestato contro la decisione statunitense di trasferire l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme; pur condannando verbalmente la decisione americana, i sauditi sono apparsi più defilati sulla vicenda. Lo scorso febbraio il Marocco ha richiamato il proprio ambasciatore in Arabia Saudita, dopo la diffusione di un documentario dell’emittente saudita Al-Arabiya, sgradito ai marocchini, sul conflitto nel Sahara Occidentale. Anche l’ambasciatore degli Eau in Marocco sarebbe stato richiamato in patria. Inoltre, Rabat ha pubblicamente annunciato la fine dell’impegno nella coalizione a guida saudita che interviene militarmente in Yemen: il Marocco aveva già ridotto la sua presenza militare, ora limitata a sei aerei da combattimento.
Fra le ragioni dello scontro, vi sarebbero anche gli investimenti infrastrutturali previsti da Riyadh in Mauritania (paese visitato da MbS nel 2018), percepiti da Rabat come ostili poiché concorrenziali ai propri e localizzati in un’area di sua proiezione strategica. Lo scorso aprile, il viaggio del ministro degli Esteri marocchino, Nasser Bourita, in Arabia Saudita ha cercato di rasserenare una relazione politica che permane comunque tesa[8] . Nonostante la politica di polarizzazione regionale fin qui intrapresa e l’ostilità geopolitica nei confronti dell’Iran, l’Arabia Saudita sta invece accelerando l’offensiva politico-economica sull’Iraq. Per farlo, Riyadh ribalta lo schema settario (sunniti contro sciiti), introducendo il tema della comunanza etnica per giocare il fattore arabità in chiave anti-persiana. La seconda riunione del Consiglio di Coordinamento saudita-iracheno si è tenuta a Baghdad il 3 aprile, con una folta delegazione di investitori provenienti dall’Arabia Saudita. L’energia è al centro della strategia geopolitico-economica dell’Arabia Saudita in Iraq[9] : i sauditi puntano ad allontanare Baghdad dall’orbita iraniana sostituendosi a Teheran come fornitori d’energia, ora che i waivers (le esenzioni) statunitensi sulle sanzioni previste per chi acquista petrolio iraniano sono scaduti. Ma la strada è ancora lunga: Riyadh ha annunciato la creazione di un impianto a energia solare sul suo territorio, al confine con l’Iraq (area di Arar). Tale struttura, a spese saudite, dovrebbe includere anche un ospedale e un’università. Proprio l’Arabia Saudita ha appena promesso 1 miliardo di dollari per la costruzione di un impianto sportivo in Iraq: il 17 aprile, in occasione della visita del premier iracheno Adel Abdul-Mahdi a Riyadh, tredici accordi sono stati firmati in settori come energia, agricoltura, istruzione e cultura (nel 2018, un gruppo di poeti sauditi è stato persino in visita a un festival letterario di Bassora)[10] .
L’accordo finora più rilevante fra Arabia Saudita e Iraq (e sgradito a Teheran) è però quello su cooperazione in materia di sicurezza e intelligence. Dopo la riapertura della rappresentanza diplomatica saudita a Baghdad, Riyadh intende inaugurare due consolati a Najaf e Bassora, penetrando dunque nel fulcro della regione sciita e in parte filo-iraniana dell’Iraq.
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