La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata dall’approvazione in nottata del Recovery Fund da parte del Consiglio europeo, strumento che si andrà ad aggiungere ai prestiti di BEI, Mes e Sure. Rimangono, tuttavia, ancora molti nodi da sciogliere. Alla Commisisone Ue l’arduo compito di far pervenire una proposta che possa essere accettata da tutti entro il 6 maggio. Le misure a livello europeo così come il ruolo svolto dalla Banche Centrali nel fronteggiare la crisi sono affrontati in questo nuovo numero di ISPI Global Watch, dedicato alla geoeconomia del coronavirus. Un focus particolare è dedicato anche alle dinamiche recenti del prezzo del petrolio, alle problemi legati alle app di tracciamento, agli effetti della pandemia sul settore del trasporto merci. Inoltre perché le città possono affrontare meglio le conseguenze della crisi da pandemia? E, infine, come l’India si sta attrezzando per far fronte alle ricadute economiche della crisi sanitaria nella democrazia più grande del mondo?
Banche Centrali al fronte ma con limiti
Di fronte all’emergenza economica del Covid-19 la reazione più immediata è stata quella delle banche centrali che hanno assicurato interventi molto consistenti in acquisto di titoli pubblici e privati. Hanno cioè messo a disposizione molta liquidità per aiutare a coprire gli squilibri di cassa che il blocco dell’attività economica veniva creando presso imprese e famiglie e per facilitare il collocamento del debito pubblico necessario a finanziare le spese più urgenti per sanità, disoccupazione e primo aiuto ai settori più colpiti dallo shock epidemico. I finanziamenti delle banche centrali sono stati estesi anche a chi può offrire in garanzia solo titoli molto rischiosi. La BCE ha subito anticipato l’ammissione della Grecia al quantitative easing e ha poi, come ha fatto la Fed statunitense, dichiarato di accettare in garanzia i cosiddetti junk bonds. Ciò consente di prevenire l’effetto perverso che avrebbe sulla solvibilità di imprese e governi il deterioramento dei rating che le apposite agenzie dovranno prossimamente constatare in seguito alla crisi sanitaria. Le politiche monetarie hanno dovuto metter da parte i programmi di normalizzazione che avevano avviato dopo più di un decennio di interventi straordinari diretti ad aiutare le economie a superare la grande crisi del 2008-9 e, in Europa, quella del 2010-12 quando l’euro ha rischiato di dissolversi. I tassi di interesse molto bassi o negativi e il quantitative easing sono poi proseguiti nel tentativo, non sempre e del tutto riuscito, di far riprendere alla crescita reale e alla dinamica dell’inflazione ritmi soddisfacenti.
Anziché avviarsi a una “nuova normalità”, le banche centrali hanno iniziato un nuovo periodo straordinario che sarà difficile termini prima di alcuni anni. Aggiungendo i nuovi interventi in programma a quelli fatti in passato, il ruolo delle banche centrali si va ingigantendo. L’ordine di grandezza del problema si coglie guardando i bilanci delle principali banche centrali. Sommando le attività di quelle statunitense, giapponese, cinese e della BCE, si è passati da meno di 5 miliardi di dollari nel 2007, poco prima della crisi finanziaria, ai quasi 22 miliardi della fine di marzo di quest’anno (divisi in parti quasi eguali fra le quattro banche). Alla quasi quintuplicazione del valore degli attivi è corrisposto l’aumento del rapporto fra tali attivi e la dimensione reale delle economie, misurata dal loro Pil. Dal 2007 a oggi il bilancio della Fed americana è passato da circa il 6 a più del 18% del Pil Usa; quello della Banca del Giappone dal 20 al 105%, la BCE dal 12 al 40% del Pil dell’eurozona. La proporzione è prevista crescere ancora molto fra quest’anno e l’anno prossimo (per la BCE si andrà oltre il 50%) in seguito ai grandi interventi in corso. Solo nel caso cinese, per via della straordinaria crescita dell’economia reale e della modernizzazione del sistema dei pagamenti (che funziona con sempre meno moneta), l’attivo della banca centrale è cresciuto meno del Pil pur avendone superato il 40%.
Fino a quando potrà continuare questo ingigantimento delle banche centrali che deriva non solo dall’acquisto di nuovi titoli ma anche dal rinnovo di quelli in scadenza? È probabile ci sia un limite che non è opportuno e forse nemmeno possibile superare, per diverse ragioni. Aumentando la quantità e riducendo la qualità dei loro attivi le banche centrali, deputate ad assicurare la stabilità finanziaria, divengono esse stesse più rischiose. La liquidità che si crea è sempre meno efficace nell’alimentare l’economia e tende a ristagnare nelle banche commerciali e a finire ridepositata e inerte nelle stesse banche centrali. Mentre per lunghi periodi pare non riesca a riportare l’inflazione abbastanza sopra lo zero da scongiurare la deflazione, la moneta che si accumula è sempre pronta a consentire una brusca ed eccessiva spinta inflazionistica che potrebbe generarsi per varie cause, soprattutto con la pandemia che limita la produzione di beni. La sovrabbondanza di liquidità rigonfia i prezzi di borsa e i valori immobiliari causando bolle speculative che creano disordine e ingiustizia nella distribuzione della ricchezza e fanno male quando scoppiano.
Nei confronti della finanza pubblica l’espansione monetaria ha spesso effetti perversi sia sui governi troppo austeri, che continuano a spender troppo poco perché lasciano la responsabilità di alimentare la domanda alla politica monetaria, sia sui governi con deficit eccessivi che li vedono facilmente finanziati dalle banche centrali. Inoltre la sovrabbondanza di liquidità tende a comprimere i tassi di interesse su debiti e titoli di scadenze e rischi diversi appiattendone la struttura e facendo venir meno la loro funzione di indirizzo delle risorse finanziarie a seconda delle preferenze degli investitori e dei rischi dei possibili investimenti. Le politiche monetarie troveranno i loro limiti durante la crisi causata dal Covid-19? La crisi passerà attraverso fasi successive durante le quali le banche centrali dovranno avere ruoli diversi. In questi mesi di primo impatto dello shock epidemico, dovendo salvare il salvabile dall’improvviso blocco della circolazione della liquidità e volendo rassicurare i detentori di titoli impauriti dalle prospettive future, le banche centrali sono necessariamente protagoniste, anche perché possono muoversi con immediatezza mentre ai governi serve più tempo per reagire. È anche importante il loro collegamento globale per far giungere liquidità anche ai paesi meno sviluppati e più in difficoltà. Quando gli aspetti sanitari della crisi saranno domati e le economie potranno gradualmente sbloccarsi, comincerà una seconda fase, nella quale andranno curate le gravi ferite economiche inferte dal virus. In questa fase, più lunga della prima, la politica monetaria dovrà passare in seconda linea, lasciando alle politiche di bilancio il ruolo di protagoniste. Pur continuando ad aiutare il collocamento dei titoli di debito, ad assicurare alle banche la base monetaria per alimentare i prestiti a imprese e famiglie, a sbloccare i momenti di illiquidità dei mercati, le banche centrali dovranno dissipare l’illusione che i problemi reali dell’economia possono risolversi semplicemente stampando moneta.
Un caso particolare è quello della BCE che, per combattere speculazioni basate sull’ipotesi che alcune monete escano dall’euro, potrebbe intervenire calmierando gli “spread” con acquisti massicci di titoli di singoli paesi, fra i quali l’Italia, eventualmente oggetto di speculazione anche perché particolarmente indeboliti dalla crisi epidemica e dall’indebitamento aggiuntivo che ne deriva. Infatti, per quanto la crisi sembri colpire uniformemente tutti i paesi, le sue conseguenze sono molto asimmetriche, sia perché gli aspetti sanitari hanno diverse gravità sia perché le condizioni di partenza dei paesi stessi sono diverse per robustezza finanziaria, per capacità di crescita reale, per stabilità politica. Il “whatever it takes” di Mario Draghi, giustificato col mandato a difendere l’unità dell’euro, nel 2012 ha funzionato influenzando le aspettative col suo solo annuncio. Ma in futuro potrebbe richiedere veri interventi sul mercato. L’ultimo quantitative easing deliberato da Francoforte permette anche acquisti non uniformi a favore di singoli paesi e, quando questo non fosse più accettabile dal Consiglio della BCE, rimane l’arma pesante delle ancor mai usate Outright Monetary Transactions che però, se non cambiano le regole attuali, sarebbero condizionate dal seguire politiche economiche disposte e monitorate dalla Commissione e dal MES.
A un certo punto giungerà la terza fase, quando la crisi da COVID sarà stata curata e assorbita e le economie saranno in grado di riprendere la loro crescita normale. A quel punto le banche centrali, insieme ai governi, dovranno preoccuparsi del forte aumento avvenuto nel frattempo del grado di indebitamento di imprese, famiglie, banche e bilanci pubblici, che renderà più fragile l’economia, più precaria la finanza e più difficile una crescita vivace e sostenibile. Sarà allora il momento, fra l’altro, di reintrodurre le regole di disciplina dei bilanci pubblici, di tornare a elevare il grado minimo di capitalizzazione delle banche, di riformare la tassazione che oggi favorisce il finanziamento delle imprese col debito rispetto a quello col capitale proprio, di incentivare in vari modi la trasformazione di debiti in capitali di rischio. E sarà il momento, per le banche centrali, di avviare un decumulo graduale dell’enorme ammontare di titoli detenuti nel loro bilancio ricollocandone in parte sui mercati ed evitando di rinnovarli alla scadenza. Dopodiché è probabile che la cosiddetta “nuova normalità” delle politiche monetarie vedrà banche centrali con bilanci ancora molto grandi rispetto alla vecchia normalità dei primi anni 2000, ma meno grandi del livello che avranno raggiunto al termine della crisi e comunque in graduale ridimensionamento.
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