La Cina post-Covid guarda al mercato interno (e a Hong Kong)
Certamente un’immagine suggestiva quella che ieri ha dato inizio alle “due sessioni” (liang hui), il più atteso evento annuale della vita politica cinese: il Presidente Xi Jinping a capo chino tra l’oro e il rosso della Grande sala del popolo a Pechino e alle sue spalle i 2,200 membri della Conferenza politica consultiva del popolo, mascherina sul viso e cartellino identificativo sul petto, rigorosamente scarlatto. La Conferenza si è raccolta in un momento di silenzio per onorare le vittime di COVID-19 prima di dare il via ai lavori. È la pandemia, questo è chiaro, a scandire le priorità del vertice di quest’anno. Ed è sempre la pandemia ad aver ha già rivoluzionato la “Cina del dopo”: il paese ha rinunciato a qualsiasi target di crescita economica per l’anno corrente e adotterà un’ingombrante legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong e Macao.
Le due sessioni sono un avvenimento estremamente articolato che solitamente si tiene a inizio marzo e prosegue per un paio di settimane. A causa del rischio di contagio, quest’anno è stato rimandato di quasi tre mesi, condensato in soli otto giorni e ridotto in termini di presenza dei media. Una riduzione, quest’ultima, non di poco conto se consideriamo che le due sessioni sono l’unica occasione in cui i giornalisti cinesi possono evitare i portavoce e interfacciarsi direttamente con le alte cariche del governo, seppur solo attraverso domande concordate in precedenza. Chi esce dal seminato, rischia di mancare l’invito l’anno successivo. La Conferenza, che dà l’avvio all’evento, è l’alto comitato consultivo del paese: l’equivalente nel sistema politico cinese al senato delle democrazie occidentali, anche se non ha alcuna funzione legislativa. Divisa in comitati, fa proposte di policy al governo su svariati argomenti, dall’economia alla salute alla politica estera, allo scopo di rendere migliore la vita dei cittadini. Poiché è composta da membri di partiti politici, gruppi sociali e professionali, settori e altre organizzazioni civili, è l’unico organo attraverso cui la società cinese può esprimersi sul futuro del proprio paese.
Altra storia è il secondo ramo delle due sessioni, l’Assemblea nazionale del popolo, che è la legislatura cinese. La più grande al mondo, si compone di 2,957 delegati, eletti dalle province, regioni autonome, municipalità e dalle regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao. L’agenda dell’Assemblea è pre-concordata e raramente ci sono stati momenti in cui non sia stata approvata. Come ricordato da diversi osservatori, il caso più eclatante è stato quello sulla costruzione della “Diga delle tre gole”, controverso progetto a gravità idroelettrica capitanato dall’ex-premier Li Peng, contro il quale avevano votato o si erano astenuti quasi un terzo dei delegati dell’Assemblea nel 1992: un evento più unico che raro. Sebbene sia solo all’apertura, l’Assemblea ci ha già fornito una buona base per capire che aspetto avrà la Cina nel post COVID-19. Partiamo dall’economia: durante l’attesissimo intervento del premier Li Keqiang, non è stato comunicato alcun obiettivo annuale di crescita dell’economia cinese. Li ha infatti annunciato che nel breve periodo “la Cina si troverà ad affrontare sfide senza precedenti”, tra cui l’evolversi della pandemia e le incertezze che avvolgono il futuro dell’economia e del commercio internazionale. Per facilitare la ripresa nazionale, Pechino ha guardato alla politica fiscale, prevista come più proattiva per l’anno a venire, e quella monetaria che sarà invece più flessibile. Chiaro è che la Cina pensa a una ripresa focalizzata soprattutto sull’economia nazionale, non su quella mondiale. Dobbiamo quindi rassegnarci ad abbandonare l’ideale lasciatoci dalla crisi finanziaria del 2007-08 di uno stimolo cinese vantaggioso per tutti poiché, pur di raggiungere il seppur minimo tasso di crescita previsto dal Fondo monetario internazionale (circa +1.2%), Pechino dovrà fare per sé e accelerare i piani per rendere l’economia sempre meno incentrata sulle esportazioni e più sui consumi interni. Non a caso, per stimolare i consumi, saranno emessi bond speciali destinati ai governi locali pari a circa 482 milioni di euro, destinati a progetti infrastrutturali e di urbanizzazione. Gli investimenti, invece, daranno priorità alle “nuove infrastrutture” come le reti 5G e tutto il mondo digitale, al rinnovamento di quasi 40,000 comunità residenziali sparse in tutto il paese e allo sviluppo di nuovi sistemi di trasporto e conservazione dell’acqua. Riguardo alla guerra commerciale con gli Stati Uniti, Pechino si è detta disposta a portare avanti i termini dell’accordo di “fase uno” firmato lo scorso gennaio, nonostante l’inasprirsi delle relazioni tra i due paesi negli ultimi mesi.
Tuttavia, è nell’ambito della sicurezza che si sono accese le controversie. A un tasso di crescita della spesa militare tra i più bassi di sempre, si è infatti associato l’annuncio dell’adozione di una legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong e Macao, le due regioni amministrative speciali cinesi. Non è la prima volta che Pechino tenta di far passare una legge di questo tipo durante un’emergenza sanitaria, anche se durante l’emergenza SARS del 2003 non vi era riuscita. Fino ad ora, la pubblica sicurezza era rimasta infatti di competenza dei governi locali, così come sancito dal principio “un paese, due sistemi” che regola le relazioni tra Pechino, Hong Kong e Macao. La nuova legge lascerebbe quindi spazio alle autorità centrali di occuparsi direttamente delle minacce alla sicurezza nazionale (come il separatismo e il terrorismo) e, di fatto, autorizzerebbe la scesa in campo di forze speciali in caso di proteste come quelle che avevano sconvolto Hong Kong la scorsa estate, già etichettate da Pechino come “terrorismo”.
Il perché di questa scelta è piuttosto chiaro: da una parte, Hong Kong rimane un centro finanziario importantissimo per Pechino e gli effetti congiunti di proteste e lockdown hanno messo a rischio la stabilità politica ed economica della città. Dall’altra, a causa della pandemia, Pechino è ora in difficoltà a rispettare i termini dei suoi grandi obiettivi strategici, in primis quello trasformare il paese in una “società moderatamente prospera” entro il 2021. Pertanto, con questa legge, Pechino dà una spinta al secondo obiettivo, quello di raggiungere la “riunificazione nazionale” entro il 2049, guardando a Hong Kong, Macao e Taiwan. Li Keqiang ha infatti affermato di “opporsi fermamente e scoraggiare qualsiasi attività separatista in cerca dell’indipendenza di Taiwan” – un’affermazione che ha già suscitato l’intervento (per ora solo verbale) degli Stati Uniti, uno dei maggiori sostenitori dell’isola a livello internazionale. Le due sessioni ci mostrano quindi una Cina che è molto più assertiva nelle sue questioni di politica interna, un paese che è spinto ad adottare il classico approccio alla stabilità come requisito imprescindibile per la ripresa. Questa ritrovata assertività, tuttavia, dipinge anche un futuro molto più incerto per l’Asia, destinata ora ondate di instabilità regionale invece che di cooperazione, di fatto in completa opposizione alle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali per fronteggiare efficacemente il lascito di COVID-19.
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