Tra i tanti film d’azione d’argomento storico prodotti negli anni ‘60 spicca questa singolare produzione inglese che verte su una delle pagine più cupe e sanguinose della conquista dell’America Centromeridionale da parte della corona spagnola nel XVI secolo. In particolare l’annessione del vastissimo impero Inca, che comprendeva l’attuale Perù e parte degli stati limitrofi (Ecuador, Colombia, Cile e Bolivia), ad opera di Francisco Pizarro. Come per la conquista del Messico compiuta da Hernán Cortés una decina d’anni prima, anche la spedizione di Pizarro rimarcava una notevole sproporzione di forze tra i conquistadores spagnoli e le popolazioni locali appena un poco compensata dalla presenza di cavalli, animali sconosciuti agli indigeni americani, e armi da fuoco da parte degli europei. Non di meno la massa di armati agli ordini dell’Inca (si stima fossero non meno di 30mila soldati) avrebbe potuto sopraffare in qualsiasi momento le poche centinaia di uomini agli ordini di Pizarro. A facilitare le cose fu però soprattutto la lotta intestina in corso nell’impero incaico tra Atahualpa, figlio illegittimo del defunto Inca Huayna Cápac, e il suo fratellastro Huáscar che vantava la primogenitura. L’arrivo degli spagnoli coincise con la fase finale delle ostilità, favorendo di fatto la loro azione.
Anche Pizarro era segnato da una nascita illegittima, figlio di un ufficiale che aveva combattuto in Europa nelle fila degli eserciti spagnoli e di una donna del popolo. E proprio su questa singolarità, sull’essere i due protagonisti accomunati da tale “macchia” nelle rispettivi origini, prende spunto il testo teatrale The Royal Hunt of the Sun da cui il film è tratto. Autore del testo è Peter Shaffer (1926-2016), prolifico commediografo inglese che lo scrisse nel 1964, cinque anni prima che Irvin Lerner lo portasse sugli schermi per l’interpretazione di Robert Shaw, nel ruolo di Pizarro, e Christopher Plummer in quello di Atahualpa. Una coincidenza: nel 1966 Shaw era stato Enrico VIII nel film di Fred Zinnemann Un uomo per tutte le stagioni, anch’esso di origine teatrale e ambientato a sua volta nel primo ‘500, sulla figura e la condanna a morte di Thomas More (Tommaso Moro). Anche la musica adattata a colonna sonora del film di Lerner era stata composta da Mark Wilkinson per l’allestimento teatrale. E l’origine del testo destinato alla tavole del palcoscenico si nota molto anche nella sua versione cinematografica che spicca per la scarsissima azione e per i molti dialoghi tra quattro mura, per i filosofeggiamenti e le diatribe su questioni astratte come la fede, l’aldilà, l’incarnazione divina, il significato della scrittura e cose di questo genere. Il film non manca tuttavia di una sua robusta tensione drammatica che mantiene desta l’attenzione e vivo l’interesse in ogni momento dello sviluppo narrativo.
Anche se girato in gran parte in studio, dove gli interni sono ricostruiti con buona approssimazione, non mancano location spagnole (Madrid, Segovia, Almeria, Avila…) e americane (Cuzco, Chincheros, Machu Pichu, Cajamarca e altre località andine) che rafforzano il quadro generale di credibilità storica della vicenda narrata. Che è invece, per sua natura, puramente d’invenzione a cominciare proprio dal singolare rapporto che si viene a creare tra i due protagonisti. Per rafforzare questo fatto, nella versione cinematografica il regista riduce a comprimario il personaggio di Martin che nel testo teatrale è un po’ come Adso di Melk nel Nome della rosa di Eco ossia l’io narrante di fatti avvenuti decenni prima di cui è stato testimone in gioventù. L’azione prende il via a Toledo nel 1528, preludio a quella spedizione che nell’arco di cinque anni portò alla dissoluzione dell’impero incaico dopo che Atahualpa si era consegnato inerme ai suoi stessi aguzzini e aveva accettato la promessa di liberazione in cambio di tanto oro quanto poteva contenerne la sua cella. Il cosiddetto Cuarto del rescate (Stanza del riscatto) che ancora viene mostrata nella città peruviana di Cajamarca anche se non è storicamente accertato che sia effettivamente tale. Sintetizzando per ovvie ragioni l’evolversi dei fatti storici il film ne rievoca peraltro i salienti. Dal 1530, dopo l’arrivo di Pizarro in America, alla cosiddetta battaglia di Cajamarca del 16 novembre 1532, fino al luglio del 1533 ossia all’uccisione dell’Inca. Rievocato anche il contesto di guerra fratricida tra Atahualpa e Huáscar. Puntuali alcuni dettagli come l’uso da parte dei messaggeri inca dei quipu le cordicelle annodate di vari colori utilizzate come strumenti di calcolo e di “trasmissione dati”.
Come in tutte le spedizioni analoghe anche in quella di Pizarro era determinante la presenza di religiosi, inviati a scopo missionario per la conversione degli indigeni al cristianesimo. Qui sono due frati, il francescano Marcos de Niza e il domenicano Vincente de Valverde, personaggi storici realmente esistiti e “pesi massimi” del cattolicesimo romano del tempo. Molto più numerose (e interessanti) le “licenze” storiche ossia quegli elementi del contesto narrativo che ci parlano piuttosto degli anni ‘60 del ‘900 con il loro carico di innovazione e sovvertimento anche in campo religioso. Tra queste segnaliamo la “tirata” di Pizarro a Martin sul senso della storia e della guerra. Impensabile nel XVI secolo, ma attualissima nel 1969 (e, purtroppo, anche oggi): «Una grande partita giocata da bruti che cercano una giustificazione alle loro turpi azioni» collocata dopo la metafora dell’aquila, del condor e del corvo quando la truppa è sulla via che la condurrà nel cuore dell’impero incaico. Stesso discorso per l’episodio della Bibbia portata all’orecchio da Atahualpa dopo la dissertazione teologica di padre Valverde. La conseguente strage di dignitari e soldati da parte degli europei si trasfigura peraltro nel film (complice anche la musica e le riprese al rallentatore) in una sorta di corrida nel chiuso di un’arena. Una brutale mattanza senza scopo dal puro effetto straniante. Il tema ricorrente della divinità incarnata riguarda entrambe le fazioni in lotta. I cristiani per la fede nella persona di Gesù, il popolo andino nella convinzione che il loro sovrano, l’Inca, fosse un’incarnazione del dio Sole. Inventate le dispute teologiche tra Atahualpa, i suoi sacerdoti e il domenicano, volte allo scopo di mostrare la fragilità logica e le contraddizioni insite nella fede cattolica con sottotraccia un messaggio molto “sessantottesco” contro le religioni fonte di povertà, oppressione e disuguaglianza tra gli esseri umani. Il crescendo drammatico porta a una rivolta degli uomini di Pizarro contro il loro stesso comandante, ma è Atahualpa a toglierlo d’impaccio con la credenza che il dio Sole farà risorgere dai morti l’Inca se costui verrà ucciso prima del giorno fissato dal destino. È la versione pagana del mito cristiano della resurrezione di Cristo. Ingegnosa sovrastruttura ideologica sulla realtà storica della morte dell’ultimo Inca: condannato al rogo in quanto “eretico” (cioè non cristiano), la pena capitale gli fu commutata nello strangolamento mediante garrota dopo che fu battezzato. Nel film il giorno dell’esecuzione viene fissato nel 29 agosto 1533, festa dedicata a Giovanni Battista, ma forse si tratta di un errore del cronista dell’epoca in quanto studi più recenti la anticipano al 26 luglio dello stesso anno e ad Atahualpa fu imposto il nome cristiano di Francisco. Lo stesso del suo amico-avversario.
Il regista
Il regista americano Irving Lerner (1909-1976), laureato in antropologia, è stato autore di documentari collaboratore di Robert Flaherty. Finito nella lista nera di Hollywood durante la “caccia alle streghe” del senatore McCarthy, è anche autore di una dozzina di lungometraggi a soggetto girati tra il 1943 e il 1971. Questo film è la sua penultima regia.
Nativi americani e Cristianesimo
Un tema vagamente analogo a quello trattato nel film di Lerner lo ritroviamo nel ben più famoso Mission (The Mission), girato da Roland Joffé nel 1986 con Robert De Niro e Jeremy Irons (musica di Ennio Morricone) Palma l’Oro a Cannes. Ambientato anch’esso nell’America dei possedimenti coloniali spagnoli, il film di Joffé è però ambientato 200 anni dopo quello sulla spedizione di Pizarro, ossia nella metà del XVIII secolo quando, in seguito al Trattato di Madrid del 1750, le Riduzioni gesuitiche del Paraguay furono brutalmente sradicate dalle stesse potenze dominanti. Le ragioni prevalentemente spettacolari del film rendono in modo molto approssimativo la realtà storica di uno dei più singolari “esperimenti” di applicazione del Vangelo nei rapporti umani. A opera appunto di quei missionari gesuiti che, per altro verso, nelle corti europee occupavano spesso ruoli eminenti di consiglieri e confessori di nobili e regnanti. Le prime Riduzioni risalivano all’inizio del ‘600 e durarono quindi quasi 150 anni durante i quali la popolazione locale venne evangelizzata con metodi non coercitivi e con estrema dignità umana. Al contempo gli indigeni vennero assimilati gradualmente alla civiltà europea mediante il lavoro libero e la creazione di comunità dove non esisteva la proprietà privata, ma tutto era in comune secondo il più rigoroso spirito evangelico. Molto meglio del film di Joffé, sul tema può essere interessante la lettura del saggio Il cristianesimo felice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay pubblicato nel 1743 dall’erudito a illuminista modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) scritto sette anni prima che tale esperienza sociale e religiosa fosse cancellata da chi non poteva tollerare un simile rapporto di evangelica fratellanza tra “conquistatori” e “conquistati”. Il saggio di Muratori è disponibile nel catalogo dell’editore Sellerio di Palermo.
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