Attraverso la vita e il pensiero del filosofo arabo Averroè, vissuto nella Cordoba del XII secolo, il regista egiziano Youssef Chahine ci racconta una storia straordinariamente attuale che verte sui principi della libertà di pensiero e del fanatismo.
Si è parlato e si parla ancora, con chiaro intento apologetico, di radici cristiane dell’Europa dimenticandosi, o fingendo di dimenticare, che, più in profondità di quelle cristiane, l’Europa, intesa come insieme di culture di popoli diversi, presenta anche radici pagane ed ebraiche. Ben più profonde, quantomeno da un punto di vista temporale, di quelle cristiane in quanto l’ebraismo e la filosofia greca precedettero di non pochi secoli la venuta di Gesù. Non solo: proprio la cultura cristiana europea, sviluppata a partire dal IV sec., deve alla filosofia greca (in particolare al platonismo) gran parte delle proprie categorie teoretiche così come deve ai fratelli maggiori ebrei non solo la parte preponderante del proprio bagaglio teologico (i libri dell’Antico Testamento), ma la comune fede nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Pregato, invocato e acclamato anche dai musulmani che si dicono a loro volta figli di Abramo attraverso Ismaele, nato da Agar e dunque primogenito del patriarca.
I musulmani di Spagna
E proprio ai musulmani europei, ovvero agli arabi di Spagna, nell’alto medioevo toccò il compito storico di salvare l’Europa dalle tenebre culturali in cui era sprofondata dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Gli islamici di El-Andalus, ovvero i regni Almohadi, con le loro scuole, le biblioteche, i copisti e i traduttori, impedirono che andasse perduta quella cultura classica che fornì, dopo l’anno mille, gli strumenti ideologici per la rinascita del continente. Se gli arabi non avessero tradotto e studiato Galeno, Tolomeo, Aristotele e molti altri autori antichi, forse oggi le loro opere sarebbero perdute per sempre. Se all’ombra delle moschee di Saragozza, Siviglia, Cordoba e Granada non avessero lavorato matematici, filosofi, giuristi non ci sarebbe stato un rinascimento e un umanesimo. Senza contare la ricaduta di queste conoscenze sulle arti: pittura, scultura, architettura, musica e molto altro ancora. Non per nulla, nel X e XI secolo, mentre nel Tamigi e nella Senna si rispecchiavano solo casupole di fango, le acque dell’Ebro, del Tago, del Guadalquivir rispecchiavano sontuosi palazzi, giardini lussureggianti e marmoree fontane. Dunque, oltre a quelle pagane, ebraiche e cristiane l’albero della cultura europea possiede anche profonde e robuste radici islamiche.
La vita di un filosofo
Nel film Il destino Chahine mette in scena un breve periodo (circa sei mesi) della vita del filosofo Averroè, vissuto a Cordoba tra il 1126 e il 1198. Vicende immaginarie nel dettaglio, ma assolutamente plausibili nel contesto dell’epoca e, per questo, estremamente esemplari. In precedenza nella sua opera il regista egiziano aveva affrontato solo tre volte argomenti storici mentre la gran parte della sua cospicua filmografia si ambienta in tempi contemporanei. I precedenti sono Saladino (1963), Adieu Bonaparte (1985) e L’emigrante (1994). Cifra comune a questi film è la narrazione antiretorica e un punto di vista non troppo allineato con le tesi dominanti nel mondo occidentale. Nel caso di Saladino, per esempio, i re cristiani sono rappresentati come avidi e sanguinari mentre il sovrano musulmano è un campione di giustizia e magnanimità che combatte solo per forza maggiore e sempre con riluttanza. Quanto a Bonaparte, Chahine lo descrive come un ambizioso senza scrupoli che non esita a sacrificare migliaia di egiziani per i propri fini “carrieristici”. Caso emblematico, per quanto ante litteram, dei rapporti postcoloniali tra i paesi europei e quelli africani. Nell’Emigrante mette invece in scena la storia del biblico Giuseppe (uno dei dodici figli di Giacobbe), ma anche qui lo fa in modo estremamente autonomo rispetto alle letture correnti dell’episodio.
Palma d’Oro del 50nario
Ma torniamo al Destino, Palma d’Oro a Cannes nell’edizione del 50nario. In una città della Linguadoca (Francia Meridionale) l’eretico Gerardo Breuil, allievo di Averroè, viene messo al rogo. La moglie e il figlio del giustiziato partono per raggiungere il regno arabo di El-Andalus, l’Andalusia spagnola, ovvero il califfato di Cordoba, dove vive il maestro del loro congiunto. Dal luogo dell’intolleranza verso il luogo della libertà, dalla barbarie alla civiltà, dall’oscurantismo alla luce. Già nelle prime battute del film, in poche, straordinarie immagini, è delineato l’ambito ideologico entro cui si svolgerà la vicenda ambientata in quella realtà che rappresenta la punta di diamante della cultura e della scienza europee nel XII secolo. Chahine ci avverte però che la storia è fatta di uomini e donne che vivono, muoiono e combattono nel concreto di situazioni contingenti, che operano all’interno di rapporti familiari, sociali, politici. Una storia il cui approccio rimanda significativamente all’École des Annales di Bloch, Braudel, Duby e Le Goff. Una storia che si sveste del mito per farsi concreta e quotidiana. Tanto attuale che, al di là dei costumi, delle architetture e delle scenografie, ci parla con la voce di chi vive oggi le stesse situazioni e gli stessi problemi. Dall’Afghanistan all’Iran, dalla Palestina alla Siria.
La scuola della tolleranza
Nel prologo e nella descrizione del viaggio dei fuggiaschi verso l’esilio, con straordinarie invenzioni visive, Chahine mette in scena una sorta di “sacra rappresentazione” dell’intolleranza e della violenza che culmina nel rogo dell’eretico e nella morte della sua vedova tra le braccia del figlio, come in una Pietà a ruoli rovesciati. L’arrivo del giovane nella città musulmana coincide con il rientro trionfale del califfo Al Mansur da una vittoriosa campagna militare. Tra la folla festante si scorgono i membri di una setta di fanatici che fa capo allo sceicco (autorità religiosa) Ryad: l’intolleranza sta dunque mettendo le sue radici anche nel cuore dello stato più tollerante e “pluralista” del tempo. I bersagli della setta sono due: Abdallah, il figlio minore del califfo, che gli integralisti contano di conquistare alla propria causa sfruttandone le frustrazioni e le incomprensioni col padre, e Averroè, il maestro di moderazione, medico, filosofo, teologo e alto magistrato della corte. Averroè è il nemico dichiarato in quanto insegna nella moschea la compatibilità della fede con la ragione, commenta il Corano in armonia con Aristotele, incarna insomma l’ideale di un islam aperto all’esterno, ansioso di confronto, tollerante, illuminato, autenticamente universale proprio perché consapevole e rispettoso della fondamentale dignità dell’uomo, al di là dei precetti religiosi e delle prescrizioni del culto.
Questione ermeneutica
Attorno al filosofo gravita una comunità composita di amici e discepoli tra cui il fratello del califfo e l’erede al trono Al Nasser, il cantore e poeta Marwan e sua moglie Manuella, una gitana. A questi si aggiunge ora l’esule Giuseppe Breuil, il giovane fuggito dalla persecuzione dei cristiani.
Ma perché le opere e il pensiero di Averroè sono tanto pericolosi? Per spiegarlo, Chahine ci porta nel cortile della moschea dove il filosofo insegna e dove un gruppo di integralisti tenta di intimidirlo.
«Un pigro ignorante che recita a memoria due versetti del Corano… È questo un uomo pio?» si domanda retoricamente Averroè, che subito aggiunge: «Mio Signore, accresci la mia scienza».
Borhan, un fondamentalista, gli ribatte: «Scienza? Dimenticate la fede!»
E a palazzo, nella cerchia dello sceicco Ryad, si commenta: «Quando Averroè ha detto: “Dopo la rivelazione si è aperta la via all’interpretazione del testo” la risposta doveva essere: “Il testo non va interpretato”». Sembra di sentire un qualsiasi ayatollah dei giorni nostri.
«La rivelazione integra la ragione» ribadisce invece il filosofo ai suoi discepoli. Ed ecco il punto. Chahine, che non è certo né un imam né un teologo, colloca proprio il circolo ermeneutico (ossia l’interpretazione e l’attualizzazione dei testi sacri) al centro del dibattito religioso in una moschea del XII secolo. Ma il contesto cui il regista si rivolge è ovviamente quello contemporaneo. Sono le coscienze dei suoi spettatori. Musulmani e non, arabi ed europei.
Musica e danza
Nel patio (khan, in arabo) dei gitani, un po’ osteria, un po’ salotto, luogo di incontro di mercanti, sfaccendati e giovani, Abdallah, che ha la passione per la danza, viene avvicinato da Soad, un emissario della setta dei fanatici. Per toglierlo d’impaccio Marwan intona una canzone e Manuella si lancia in una danza travolgente che in breve coinvolge anche Abdallah. Il giovane è così momentaneamente sottratto al pericolo. Questa scena è una delle tante in cui i personaggi cantano e ballano, scene che hanno indotto alcuni critici a parlare (a sproposito) del film come di un musical. Musica e danza hanno una funzione squisitamente espressiva e sono legate in modo organico allo sviluppo drammaturgico del racconto. La musica (e la danza) cadono sempre come prolessi o come epilogo di un momento drammatico, anticipano o seguono un nodo particolarmente importante dell’azione. A volte, come qui, sciolgono la tensione e rispondono, in modo metaforico, ai problemi posti dalle parole del fanatico; altrove rappresentano un momento di sospensione contemplativa o poetica su cui irrompe il dramma o la violenza. La musica e la danza fanno insomma parte della vita che viene rappresentata e non ne sono un abbellimento o un fronzolo. Il testo delle canzoni di Marwan dovrebbe bastare a orientare in questo senso la sensibilità dello spettatore.
Lessico familiare
Storia fatta di uomini e donne, dicevamo, nel concreto di una quotidianità antieroica e nell’intreccio di relazioni affettive, morali e sentimentali. Tra i pregi del film c’è quello di calare sempre le teorie filosofiche e le relative dispute nella dinamica esistenziale dei personaggi. Concetti astratti come tolleranza, ragionevolezza della fede, dignità dell’uomo, vita e morte non sono veicolati da dotti ragionamenti, ma in dialoghi molto colloquiali tra genitori e figli (Al Mansur e Abdallah o El Nasser, Averroè e la figlia Selma), tra maestri e discepoli, tra mariti e mogli (Averroè e Zeina, Marwan e Manuella), tra amanti, tra clan (i gitani e gli allievi di Averroè), molto spesso in situazioni domestiche, quotidiane, anche quando l’azione si svolge tra le mura del palazzo reale. Logica conseguenza di questa scelta espressiva è il ruolo fondamentale che hanno i personaggi femminili. Per un autore arabo, nel momento in cui la donna viene quasi ovunque demonizzata nel mondo islamico, non si tratta certo di un fatto irrilevante. Ancora una volta Chahine, mettendo in scena con rigore filologico la vita nei regni musulmani della Spagna medievale, tocca tasti che possono far riflettere quanti, a distanza di sette secoli, hanno arretrato l’orologio della storia ed erigono barriere ideologiche basate sulla differenza di genere.
Le ali del pensiero
Il fanatismo tuttavia avanza, con le consuete armi del terrore e dell’indottrinamento. Abdallah viene irretito, Marwan subisce due attentati, il secondo dei quali mortale, e la casa di Averroè viene incendiata per intimidazione. Sembra cronaca quotidiana dalla Siria o dall’Afghanistan. Il califfo, condizionato dai capi dei fanatici, ordina il bando di Averroè e la distruzione delle sue opere che però i discepoli salvano trascrivendole di nascosto e portandole, a rischio della vita, in luoghi lontani. Quando già sulla piazza principale di Cordoba si levano le fiamme che bruciano i libri, dopo un drammatico faccia a faccia tra il califfo, i suoi figli, e lo sceicco Ryad, il filosofo viene riabilitato. A questa notizia Averroè getta nel rogo, con ironia, l’ultimo manoscritto che era riuscito a nascondere e l’immagine si fissa su queste parole firmate da Youssef Chahine: «Il pensiero ha le ali e nessuno può impedirgli di volare».
Minacce di morte
Il finale è l’unica forzatura storica perché in effetti Averroè dovette fuggire dalla Spagna e morì in esilio, ma, come spesso accade, la discrepanza dalla realtà dei fatti serve a rafforzare il disegno e l’impianto ideologico del film che è, come abbiamo visto, un vibrante e incoercibile canto levato contro tutti i fanatismi. Per questa stessa ragione l’unico personaggio che muore è il poeta e cantore Marwan, colui che con le sue strofe (ma anche con l’azione concreta) era il più vicino alla gente comune (le donne, i gitani, i ragazzi). L’artista Chahine, minacciato di morte dagli integralisti islamici per aver messo in scena un personaggio descritto nel Corano (il Giuseppe dell’Emigrante), fa morire l’artista Marwan per mano dei fanatici: l’arte rappresenta sempre l’avanguardia delle idee. Anche a rischio della vita. Nonostante questo però Chahine mostra una fiducia incrollabile negli ideali averroisti dell’islam: il film si apre e si chiude con due roghi, il rogo di un eretico e un rogo di libri. Non è difficile leggere in questa scelta un monito che Chahine rivolge al mondo cristiano. Dal punto di vista storico, la più violenta e brutale tra le due religioni è stata sicuramente quella della croce, in nome della quale si bruciavano gli uomini. Sotto la mezzaluna si bruciavano solo i libri.
Il regista
Youssef Chahine (1926-2008) dopo aver frequentato nell’immediato secondo dopoguerra la Pasadena Playhouse, negli Stati Uniti, gira nel 1949 il suo primo film, Baba Amine (Papà Amine), ispirato al neorealismo italiano. L’anno dopo, non invitato, si presenta al festival di Venezia con le bobine sottobraccio della sua seconda opera, Le fils du Nil (il figlio del Nilo) che viene apprezzato dalla critica. Nei 48 anni successivi gira oltre trenta film molti dei quali premiati nei festival europei. Lavora molto in Francia dove mette in scena anche alcuni testi teatrali. Tra i suoi film più noti: Adieu Bonaparte (1984) e la trilogia autobiografica composta da Alexandrie pourquoi (1979, Gran premio della giuria al Festival di Berlino), La mémoire (1982) e Alexandrie encore et toujours (1990). Benché pochissimo nota al di fuori dei confini nazionali, la produzione cinematografica egiziana è ancora oggi tra le più cospicue del mondo per numero di film prodotti e numero di spettatori in rapporto alla popolazione, tuttavia anche per un autore come Chahine, maestro riconosciuto a livello internazionale, è stato molto difficile arrivare al grande pubblico dei paesi occidentali. In Italia Il destino è stato il primo a essere distribuito nel circuito commerciale.
Nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto e di formazione culturale cosmopolita, Chahine ha sempre unito nelle sue opere una grande attenzione per le radici storiche e culturali del proprio paese a uno spiccato interesse per il mondo occidentale. La trilogia su Alessandria ne è la dimostrazione più compiuta. Questa sua posizione ideologica gli ha procurato talvolta problemi, come nel caso dell’Emigrante. Alla sua uscita nelle sale, in poco più di due mesi, venne visto da 900 mila persone e si avviava a diventare un successo commerciale. Gli integralisti islamici però insorsero e, attraverso un’azione legale, ottennero il sequestro della pellicola perché, in base ai precetti del Corano, è proibito mostrare un profeta in un film. Chahine rischiò una fatwa (condanna religiosa) simile a quella che colpì lo scrittore Salman Rushdie e comunque ricevette frequenti minacce di morte che lo obbligarono a lunghi periodi di permanenza all’estero. «Quando L’emigrante è stato proibito – ha detto Chahine in un’intervista – ho ripensato alla Spagna araba, alla sua tolleranza, a quell’epoca in cui i musulmani convivevano con i cristiani e gli ebrei, come avveniva ad Alessandria quando ero bambino. Ho iniziato a leggere tutto quello che trovavo su Averroè, il grande filosofo del XII secolo le cui opere sono state messe al bando. La sua storia aveva dei tratti in comune con quanto avevo appena vissuto. Ho pensato che così sarei stato in grado di raccontare l’urgenza di lottare contro l’intolleranza e le sette religiose».
Mettiamolo nel limbo
L’immagine dell’aldilà che noi italiani abbiano scolpita plasticamente nella memoria collettiva è la descrizione che ne viene fatta nel testo fondamentale e fondante della nostra lingua e della nostra cultura: La divina commedia di Dante Alighieri. Inferno, purgatorio e paradiso ovvero lo specchio divino della società due-trecentesca gerarchizzata e ordinata secondo un preciso e rigido schema sociale. Al quale non si può sfuggire. Come non si poteva sfuggire a un’altrettanto rigida costruzione spirituale: Extra Ecclesia nulla salus (Non esiste salvezza al di fuori della Chiesa). Chi non era battezzato, cioè chi non apparteneva alla comunità dei seguaci di Cristo, non avrebbe in alcun modo potuto godere della visione beatifica di Dio dopo la morte. L’inferno per i peccatori, il paradiso per le schiere dei santi e il purgatorio (in cui, per modestia, si colloca lo stesso Dante) per chi è nel peccato, ma non al punto da recidere qualsiasi legame con Dio. Ma chi non è cristiano? Gli uomini (e le donne) giusti, che non hanno compiuto il male, ma non sono battezzati? O non hanno semplicemente conosciuto la Buona Novella? E i famosi bambini morti prima di ricevere il sacramento? Ecco il colpo di genio, una delle più spettacolari “invenzioni” medievali che Dante fa propria. Il non-luogo dell’aldilà, che il poeta colloca nell’antinferno, molto simile ai Campi Elisi della mitologia classica e allo Sheol ebraico: il limbo. E qui, in questo luogo che non è di espiazione, ma neppure di giubilo, tra i poeti latini e greci (incluso Virgilio, momentaneamente promosso a guida turistica) nel castello degli spiriti magni che accoglie filosofi, scrittori e condottieri non cristiani (tra cui il Saladino), Dante colloca anche Averroè riconoscendone dunque implicitamente non solo il valore culturale, ma anche la statura e l’integrità morale.
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