I rimandi tra questo film d’esordio e il successivo, Andrej Rubliev sono innumerevoli. A cominciare dalla panoramica iniziale verso l’altro (qui) ripresa poi nel successivo mediante la ben più lunga e complessa sequenza della mongolfiera. La dimensione onirica, a cominciare proprio da questo inizio, va in parallelo con la realistica presenza ossessiva dell’acqua anch’essa una costante e un parallelo con il Rubliev, ma anche con molte altre opere successive del regista. Anche le parti realistiche, ossia le sequenze più direttamente descrittive della guerra, hanno peraltro una connotazione quasi metafisica dovuta non solo al bianco e nero della fotografia, ma soprattutto alla connotazione del paesaggio che è sempre arso, desolato, brullo, quasi privo di vita al contrario del rigoglio naturale che caratterizza invece le scene oniriche. Come nel Rubliev, film su un pittore in cui non si vede una pennellata, anche questo film “di guerra” è estremamente anomalo non mostrando in tutta la sua durata alcuna vera e propria “azione di guerra”. Qualche movimento di truppe, qualche scaramuccia, ma più che altro, gli echi lontani e ossessivi degli spari, le raffiche, i bengala, disumanizzati nella loro astrattezza. Per il resto, lunghi dialoghi all’interno di un bunker. Altra caratteristica formale, dal chiaro valore simbolico, sono le inquadrature nelle quali Ivan è mostrato in relazione a oggetti acuminati, punte, rami secchi, pugnali anch’esse in opposizione alle sequenze oniriche in cui negli oggetti, negli alberi, nella natura prevalgono le forme sferiche o quadrangolari (la vera del pozzo, rami coperti di foglie, ruote di carri…). Tutte scelte determinate non solo dalla scarsezza dei mezzi economici di cui il regista disponeva, ma in primo luogo a precise intenzioni formali ovvero dove la genialità dell’artefice supplisce ai limiti che gli vengono imposti dalla produzione. Un cenno, infine, al materiale di repertorio usato nell’epilogo del film per raccontare le fasi della vittoria. Anche Tarkovskij, come molti altri autori che abbiamo incontrato parlando del ‘900, usa tale materiale in modo da fonderlo al suo stesso narrato, da renderlo tutt’uno con la storia sviluppata dal suo film. Dove il tripudio e le musiche squillanti della conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa seguono immediatamente la più amara e universale delle riflessioni sui conflitti nascosta in una battuta dei dialoghi: «Ascolta che grande silenzio: la guerra…».
Oltre a questi brevi spunti per la visione, riproduciamo l’interessante articolo della studiosa italo-bulgara Diana Mihaylova, blogger e slavista, esperta di cinema dell’Est europeo.
A distanza di oltre 60 anni dall’uscita, L’infanzia di Ivan resta uno dei capolavori della cinematografia moderna. Questo non solo per la suggestiva fotografia o le immagini in bianco e nero che lo hanno reso iconico, ma anche e soprattutto per l’incredibile attualità dei temi trattati dal regista, Andrej Tarkovskij, allora appena trentenne.
Quando la pellicola uscì, in quel periodo storico che oggi viene ricordato come disgelo, dove sotto la guida di Nikita Chruščëv l’Unione Sovietica si riavvicinò, seppur per poco, al blocco occidentale, il messaggio del film risultò netto: un ripudio e una condanna assoluti nei confronti delle atrocità della guerra. Questo perché negli anni Sessanta la Seconda Guerra Mondiale era tutt’altro che un lontano ricordo, come può esserlo per noi oggi, ma, al contrario, si trattava di una reminiscenza ancora viva, recente e dolorosa nella memoria collettiva. Nello stesso tempo, però, proprio ai giorni nostri, pur essendo in effetti passati 62 anni dalla prima proiezione in Unione Sovietica, L’infanzia di Ivan è diventato tristemente e dolorosamente contemporaneo.
È piuttosto facile intuire il motivo: questo film parla di guerra e, in un mondo come quello odierno, dove da oltre due anni la guerra è tornata a sconvolgere la quotidianità dell’Europa, dove le tensioni e i conflitti hanno irrimediabilmente modificato la nostra percezione e la nostra sensibilità fino a cancellare la promessa di pace che ingenuamente ci si era fatti nel secolo scorso, un film come questo parla non più solo di un lontano passato, ma diventa un diretto rimando anche a noi e al nostro presente.
Ispirato al racconto Ivan (1957) di Vladimir Bogomolov, il film narra, come il titolo suggerisce, la vita di un bambino di circa dieci anni che dalla spensieratezza e dall’ingenuità infantili, vissute in un villaggio di campagna assieme alla madre, si ritrova a perdere tutto quello che ha, compresi i propri cari, a causa della guerra.
La trama del film si sviluppa infatti attorno ai terribili fatti della guerra, negli anni in cui fra 1941 e 1945 l’esercito nazista invase l’Unione Sovietica, devastando, saccheggiando e distruggendo tutto ciò che si trovava sul suo cammino e sconvolgendo per sempre la vita degli abitanti. Così, dalle prime idilliache immagini, si viene presto catapultati nella disperazione e desolazione più totali, dato che Ivan resta orfano, completamente solo e abbandonato a se stesso, costretto a fuggire e a nascondersi.
Dalla brutale esperienza germina in lui anche un sentimento di vendetta. La rabbia e la violenza si appropriano di lui, in un’incontenibile furia e volontà di uccidere chi gli ha tolto il diritto a vivere l’infanzia spensierata che ogni bambino meriterebbe. Ivan diventa allora una piccola macchina da guerra: colmo di odio e risentimento, non sente più i morsi della fame, del freddo, del dolore, ma si nutre di collera e odio – come solo in un bambino cui è stato tolto tutto possono nascere – e vi si aggrappa per cercare di sopravvivere in un mondo che non riconosce più. La storia di Ivan, se presa in una chiave storica, non è però da considerare come caso isolato, ma resta piuttosto un esempio di quella che avrebbe potuto essere (e che forse ancora oggi è) l’esperienza di migliaia di bambini e bambine, le cui vite furono strappate e modificate per sempre dalla brutalità della guerra. E dunque, nuovamente, il messaggio che valeva allora riecheggia con un amaro rigurgito proprio oggi.
Il film venne prodotto dalla sovietica Mosfil’m fra il 1960 e il 1962 e fu il primissimo lungometraggio di Andrej Tarkovskij, che riuscì a farlo emergere, consacrandolo definitivamente fra i maestri della storia del cinema. A differenza di alcuni dei film successivi venne considerato, soprattutto inizialmente, come un film prettamente “sovietico”, sia per il tema trattato, sia perché Tarkovskij iniziò a lavorarci quando aveva solo 29 anni e, avendo da poco terminato gli studi e vivendo in Urss, non si era ancora mai dedicato alla regia di progetti dal respiro più ampio.
Tuttavia, l’accoglienza a livello internazionale fu comunque più che mai calorosa: la pellicola vinse infatti il Leone d’Oro al Festival di Venezia e anche in patria fu uno dei film più di successo al botteghino, proiettato per mesi e visto da quasi 17 milioni di spettatori nella sola Unione Sovietica.
Jean-Paul Sartre: mostro e martire
Il pubblico rimase molto colpito dalla vicenda del piccolo Ivan, di fronte agli orrori della guerra eppure, oltre agli elogi, alla pellicola non vennero risparmiate anche numerose critiche, tanto in patria, quanto a livello internazionale. Tarkovskij venne infatti accusato di formalismo e persino di decadentismo, in quanto il film si presentava come estremamente diverso rispetto alle precedenti pellicole sovietiche legate al tema della guerra e inoltre non rispecchiava in alcun modo i canoni del realismo socialista.
L’accusa più grave partì in particolare da alcuni esponenti della sinistra italiana, ma, in difesa del giovane regista intervenne Jean-Paul Sartre che decise di scrivere una lettera aperta alla redazione de L’Unità, organo del Pci, poiché proprio lì erano apparse alcune delle critiche più aspre. Eccone alcuni estratti:
«Vorrei esprimere un mio rincrescimento: perché accade che, per la prima volta a mia conoscenza, l’accusa di schematismo possa essere rivolta dagli articoli che L’Unità e gli altri giornali di sinistra hanno dedicato all’Infanzia di Ivan, uno dei più bei film che mi sia stato dato di vedere negli ultimi anni. La giuria del Leone d’Oro gli ha attribuito la ricompensa più alta: e questa diventa una strana patente di “occidentalismo”, e contribuisce a fare di Tarkovskij un piccolo-borghese sospetto? […] Per alcuni critici laggiù, e per i vostri migliori critici, qui, parrebbe che Tarkovskij abbia assimilato in fretta procedimenti sorpassati in Occidente e che li applichi senza discernimento. Gli vengono rimproverati i sogni di Ivan: “Dei sogni! Noi altri, abbiamo smesso da tempo, in Occidente, di utilizzare i sogni. Tarkovskij è in ritardo: andava bene nel periodo tra le due guerre!”. Ecco che cosa ho letto da penne qualificate. Ma Tarkovskij conosce malissimo il cinema occidentale. La sua cultura è essenzialmente e necessariamente sovietica”».
La lettera prosegue con alcune riflessioni di Sartre sul piccolo protagonista del film: «Ivan è folle, è un mostro; è un piccolo eroe; è la più innocente vittima della guerra: questo ragazzo al quale non si potrà fare a meno di voler bene è stato forgiato dalla violenza e l’ha interiorizzata. I nazisti l’hanno ucciso quando hanno ucciso sua madre e massacrato gli abitanti del suo villaggio. Eppure, vive. Ma altrove in quell’istante irrimediabile nel quale ha visto cadere il suo prossimo […]. La piccola vittima sa ciò che gli occorre: la guerra – che lo ha fatto – il sangue, la vendetta. L’amore per lui è una strada sbarrata per sempre. Gli incubi, le allucinazioni, non hanno nulla di gratuito. La verità è che il mondo intero per questo bambino è un’allucinazione e che lo stesso bambino, è mostro e martire…». Diana Mihaylova
Il regista
Il russo Andrej Tarkowskij (1932-1986) è certamente uno dei registi più innovativi nel panorama europeo della seconda metà del ‘900. Nonostante la breve vita e l’esiguità della produzione artistica (solo sette lungometraggi in 25 anni) le sue opere hanno inciso profondamente nel linguaggio cinematografico e lasciato un’impronta indelebile nonostante le difficoltà incontrate all’interno del sistema produttivo sovietico, controllato dai burocrati del Pcus. Nel solco della grande tradizione cinematografica russa, Tarkowskij innova radicalmente il linguaggio filmico con gli strumenti della psicanalisi, della letteratura, del teatro e della pittura fino ad arrivare a una forma estetica autonoma di grande impatto visivo. Sia che narri di un ragazzo coinvolto nelle vicende della Seconda Guerra Mondiale (L’infanzia di Ivan, 1962) sia che si rivolga alla tradizione artistica ortodossa (Andrej Rubliev, 1966-69) o che esplori le frontiere della fantascienza (Solaris, 1972 e Stalker, 1979) o che indaghi i rapporti familiari (Lo specchio, 1975, Nostalghia,1983 e Sacrificio, 1986). Con il cinema Tarkowskij è in grado di abolire la realtà spazio-temporale per immergere lo spettatore in una sorta di narrazione libera che oltrepassa le barriere della razionalità. Particolare importanza nella poetica del regista hanno anche le vicende personali e della sua famiglia, sublimate a loro volta da uno sguardo senza tempo che parla alle coscienze di ogni individuo. Il grande affetto per la madre e la conflittualità con il padre, Arsenj, importane poeta, ma genitore assente e problematico, emergono in film come Lo specchio e Nostalghia non in forma di narcisistici amarcord, ma come esempi universali e atemporali. Perciò concretissimi e vitali.
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