L’eredità di Roma e i popoli “barbari” – A.D. 681 di Ludmil Staikov, 1984

Pubblicato il 4 Dicembre 2023 in Outdoor Cinema
A.D. 681

A premessa dell’analisi di questo film ambientato nell’alto medioevo occorre focalizzare il senso comune attribuito alla parola barbaro. Etimologicamente deriva dal verbo greco antico che significa balbettare. Per traslato indica perciò quelle popolazioni che, vivendo al di fuori del mondo ellenico, non parlavano quell’idioma o lo parlavano malamente, come appunto una persona che balbetti. Dunque in origine barbaro significa semplicemente “straniero”, appartenente a un’altra cultura e parlante un’altra lingua. Barbari erano, per esempio, i persiani che pure avevano sviluppato una civiltà raffinatissima. Anche Saul di Tarso (san Paolo), che parlava e scriveva in greco, in una delle sue lettere usa il termine con questa accezione: «Se quindi io non intendo il significato del parlare, sarò un barbaro per chi parla, e chi parla sarà un barbaro per me» (1 Cor 14, 11). Nel vocabolario latino la parola cambia di poco il suo significato passando a indicare le popolazioni estranee alla koinè (all’insieme) della cultura greco-latina diffusa entro i confini (il limes) del vastissimo impero romano.

In apertura: Asparuh

Germani alle porte

Anche quelle popolazioni, per lo più di stirpe germanica, che nel IV-V sec. irrompono nella storia occupando vaste porzioni dell’impero sono “barbari” nel senso descritto in quanto, molto spesso, si erano già in parte romanizzate per i frequenti scambi (commerciali, militari e politici) con Roma. In qualche caso tali popolazioni erano state già assorbite nella compagine statale con il nome di foederati (alleati) e sempre più spesso numerosi contingenti militari appartenenti all’esercito romano erano costituiti da guerrieri “barbari”. Spesso mandati a compiere spedizioni ai danni di tribù avversarie alla loro stessa etnia, prima ancora che minacciose per l’impero. Resta il fatto che dal IV-V secolo l’ingresso in territorio romano si intensifica con movimenti di massa e intere tribù. Non solo entrano uomini atti alle armi, ma intere famiglie con i bambini e gli anziani, al punto che tali nuove popolazioni si mescolano o, più spesso, si sovrappongono alle preesistenti popolazioni romanizzate. Talvolta, ma non sempre, imponendo con la forza le loro usanze e le loro leggi a scapito dello jus (il diritto) latino. Altre volte succede che rimangano in vigore due sistemi giuridici: quello romano per la popolazione conquistata e quello germanico per i “conquistatori”.

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Truppe in movimento

Nel quadro sommariamente descritto non va infine dimenticato che al collasso dell’Impero Romano d’Occidente, sul cui territorio si vanno a formare i cosiddetti regni Romano-barbarici, ha contribuito in maniera non episodica né irrilevante l’Impero Romano d’Oriente che con cospicui finanziamenti “dirottava” verso ovest le tribù che premevano ai suoi confini. Senza peraltro evitare la stessa sorte come mostra questo film ambientato negli anni di poco precedenti a quello che gli dà il titolo (il 681) e che descrive l’insediamento delle tribù bulgare nella pianura a sud del basso corso del Danubio: l’odierna Bulgaria appunto.

Il khanato bulgaro

Come nel caso del Faraone di Kawalerovic (v. lezione n. 2) anche questo film si avvale di consulenti storici, docenti e studiosi capaci di ricostruire correttamente il contesto in cui la vicenda si colloca e, quantomeno, di evitare clamorosi blooper. In particolare il regista Staikov si è avvalso della consulenza del generale Atanas Semerdjiev (1924-2015), del docente e storico del medioevo bulgaro Vasil Todorov Gyuzelev (n. 1936) e dell’archeologo e storico Stanislav Stanilov (n. 1943). Il film è stato prodotto dall’ente televisivo di stato bulgaro in occasione dei 1300 anni di fondazione della nazione con un consistente budget e la partecipazione di contingenti dell’esercito per le scene di massa. Trasmesso sia al cinema che in televisione, il film ha riscosso in patria un’enorme consenso di pubblico passando invece pressoché inosservato all’estero.

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Accampamento bulgaro

La trama si può condensare in poche righe. Nel 671 alcuni ambasciatori del basileus (imperatore) bizantino Costantino IV (652-685, sovrano dal 668) si recano presso la corte di Qubrat khan, il re del bulgari, per ottenere la sua alleanza contro i Cazari (Azar nel film) stanziati tra il Dnepr e la Crimea (ossia nell’attuale Ukraina). Quando Qubrat muore lascia il trono in eredità ai suoi cinque figli che si dividono in altrettante tribù. Il più giovane, Asparuh Dulo (che le fonti storiche latine chiamano Ispor rex, vissuto probabilmente tra il 664 e il 702, khan dal 679 al 700) si muove verso ovest in cerca di nuove terre. Alleatosi con alcune tribù slave, sconfigge nella battaglia di Ongal le truppe di Bisanzio e, oltrepassato il Danubio, ottiene di insediarsi stabilmente nella Mesia Inferiore dando vita al primo khanato bulgaro.

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Paganè

Consulenza storica

Il primo elemento che emerge dal racconto è l’accuratezza della ricostruzione storica e dell’ambientazione. Con le tipiche tende dei nomadi, i costumi, le armi. È corretto quando i bulgari chiamano romani i bizantini, cosa che facevano loro stessi, in continuità con la storia di Roma anche se la capitale era altrove e la loro lingua era il greco. In questo quadro storico si inseriscono ovviamente anche personaggi di fantasia a cominciare dall’io narrante, il giovane Belisarius, ambasciatore e poi ostaggio dei bulgari, infine amico personale di Asparuh. Di fantasia la veggente Paganè e il suo rapporto con il khan e altri personaggi minori. Concessioni allo spettacolo sono ovviamente le storie d’amore e, altra analogia con il già citato Faraone di Kawalerowiz, l’ingerenza negli affari di stato dei sacerdoti del dio Tangra con relativo spirito antireligioso della vicenda. Non dimentichiamo che nel 1984 la Bulgaria apparteneva ancora al blocco comunista dell’Europa Orientale ed era anzi considerata il vassallo più fedele di Mosca in quello scacchiere geopolitico.

Unico blooper, la breve presenza in scena dell’imperatore d’Oriente Costantino IV mostrato come persona anziana mentre in realtà, nell’epoca rappresentata dal film aveva solo 29 anni.

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Belisarius

Si fa presto a dire Medioevo…

I film ambientati nell’alto medioevo ovvero tra il 476, per convenzione data della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e l’anno 1000, sono decisamente meno numerosi rispetto a quelli ambientati nel basso medioevo (XI-XV secolo). Tenendo buono il conteggio di Wikipedia siamo nell’ordine di una quarantina di titoli contro circa 150. Dal numero sono ovviamente esclusi i tanti (questi sì) soggetti fantasy collocati in un’età di mezzo puramente d’invenzione e senza alcun riferimento storico o archeologico come Excalibur (1981) e simili, Conan il barbaro (1982) e derivati, Il signore degli anelli (2001-2003) e compagnia. Opere totalmente disancorate dalla realtà storica anche se, magari, desunte, peraltro molto alla lontana, da testi letterari medievali, come il ciclo di re Artù, oppure da leggende o saghe della stessa epoca. Nella quarantina possiamo invece includere i film che hanno per protagonista Attila (ca. 395-453) anche se il re degli Unni non è vissuto nel medioevo, ma negli ultimi anni dell’era antica. I più noti sono stati girati entrambi nel 1954 e sono dunque assimilabili al genere peplum. Il primo, produzione italofrancese di Ponti-De Laurentiis, è Attila di Pietro Francisci con Anthony Quinn nel ruolo del condottiero e Sofia Loren in quello di una nobildonna romana. Doppiati rispettivamente da Emilio Cigoli e Lydia Simoneschi. Il secondo, prodotto negli Usa e girato da Douglas Sirk ha per protagonista Jack Palance e si intitola Il re dei barbari (Sign of the Pagan).

Pochi anni dopo, nel 1959, Carlo Campogalliani gira Il terrore dei barbari (Goliath and the Barbarians per il mercato anglosassone). Ambientato nel 568 porta il sottofilone peplum degli uomini forti nell’età di mezzo. Interprete è infatti il culturista Steve Reeves nei panni di Emiliano, un romano che si ribella al dominio longobardo di re Alboino.

Stesso contesto storico (l’invasione dei Longobardi), ma ambientazione nelle retrovie, ovvero in villaggi dell’Europa centrale, per La furia dei barbari (Fury of the Pagans, 1960) di Guido Malatesta con Edmund Purdom, Rossana Podestà e, in una particina, una brunetta di nome Raffaella Pelloni non ancora divenuta icona televisiva nazionalpopolare con il caschetto biondo e lo pseudonimo Carrà.

Decisamente diverso, anche per il momento in cui è stato girato, Prince of Jutland (1994) del danese Gabriel Axel con Gabriel Byrne, Helen Mirren e Christian Bale. Ambientato nel VI sec. si basa sulle cronache dello storico Saxo Grammaticus autore delle Gesta Danorum, testo del XII secolo che narra l’epopea danese a partire appunto dall’alto medioevo. La stessa fonte che pare sia servita a William Shakespeare per il suo Amleto.

Sorvoliamo su Dagobert (Le bon roi Dagobert, 1984) di Dino Risi che narra le “avventure romane”, ambientate all’inizio del VII sec., del più noto tra i re fannulloni di stirpe merovingia interpretato dal comico Coluche (con Ugo Tognazzi nei panni di papa Onorio I), e parliamo invece di tre film italiani che trattano dello stesso personaggio: Genoveffa (o Ginevra) di Brabante. Si tratta di un personaggio immaginario descritto nel ‘200 da Jacopo da Varagine (Varazze) nella sua Legenda aurea, best seller del medioevo. Narra la storia, ambientata nell’VIII secolo, durante l’espansione araba in Europa, di una moglie ingiustamente accusata di adulterio da un malvagio cortigiano respinto mentre il marito della donna è impegnato nella lotta contro gli infedeli. Storia esemplare, dunque, secondo i canoni duecenteschi, delle virtù femminili. Genoveffa diventa un film nel 1947 per opera di Primo Zeglio. Film che pare sia andato perduto tranne un brevissimo frammento.

Il soggetto viene poi ripreso nel 1952 con il titolo di La vendetta di Brabante per mano dell’austriaco Arthur Maria Rabenalt con Rossano Brazzi nel ruolo principale. Infine nel 1964, in piena epoca peplum e cappa&spada, per la regia di José Luis Monter con Alberto Lupo.

In tutti i film citati, costumi e ambientazione rimandano peraltro al XIII secolo ossia al tempo dell’autore della storia piuttosto che a quello in cui lui stesso la colloca.

Condizione femminile

Sempre dell’alto medioevo, e precisamente del IX secolo, ci parlano due film che affrontano lo stesso soggetto, ma girati a 37 anni di distanza. Si tratta di La papessa Giovanna del 1972, produzione inglese per la regia di Michael Anderson interpretato da Liv Ullman, e La papessa, del 2009, di Sönke Wortmann, coproduzione a traino tedesco con Johanna Wokalek nel ruolo principale. Mentre il primo è basato su una sceneggiatura originale, il secondo prende le mosse dal romanzo dell’americana Donna Woolfolk Cross. Entrambi mettono in scena la leggenda medievale secondo la quale una donna, forse originaria della Britannia, educata in Germania sotto le mentite spoglie di un monaco, arriva a Roma e scala le gerarchie ecclesiastiche sino ad assurgere al soglio pontificio nell’855 alla morte di Leone IV e regnare per quasi tre anni con il nome di Giovanni VIII. Sgamata nell’inganno a causa di una gravidanza e delle improvvise doglie sopravvenute nel corso di una processione pubblica.

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“Teodora” – pappagallo Ara

Singolare il fatto che l’eclettico regista Anderson prima del film sul papa-donna abbia girato un’altra pellicola ambientata in Vaticano: L’uomo venuto dal Kremlino (The Shoes of the Fisherman, 1968) tratto dall’omonimo romanzo di Morris West che immagina la salita alla cattedra di Pietro di un prelato liberato dai gulag sovietici. Una sorta di Karol Wojtyla ante litteram. Se questo film distopico poteva avere un certo interesse, specialmente nel contesto sociale del ‘68, così carico di eventi, e in relazione al Concilio Vaticano II che aveva portato tante novità nella Chiesa, con il successivo di ambiente medievale il regista inglese cade in tutti gli stereotipi del genere oltre che in una serie di banalità narrative non aiutato da una scialba prestazione della Ullmann. Per non parlare di blooper tipo monaci azzimati, glabri e privi di tonsura, un cavalletto e un album da disegno del tutto inappropriato e uno specchio… a spicchi come neppure nel più turgido barocco. Anche il tema di fondo, ossia le “due potestà”, quella religiosa e quella civile, è assolutamente fuori tempo. Bisognerà infatti aspettare l’XI sec. e la cosiddetta lotta per le investiture perché questo problema assurga alla storia.

Non migliore dal punto di vista della realizzazione drammaturgica La papessa del 2009. Qui gli autori, probabilmente su impulso del romanzo d’origine, connotano la leggenda medievale in chiave di femminismo postmoderno sposando il solito stereotipo del medioevo buio, incolto e retrogrado in cui l’essere nata donna era già di per sé un marchio di segregazione e disprezzo. Così la pensa il padre di Johanna, “parroco di campagna” in una comunità rurale della Renania ancor più arretrata e bigotta di lui. Al punto da impedire con la forza che le femmine imparino persino a leggere e scrivere. Da qui il motivo del travestimento: accedere a una cultura altrimenti preclusa. Di conserva la scalata alle gerarchie ecclesiastiche è una sorta di rivalsa da suffragetta ribelle intenzionata a imporsi a ogni costo.

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“Teodora”-M. Canale

A sfatare alla radice tale assunto basterebbe il semplice elenco delle donne che nell’alto medioevo hanno eccelso nella scienza, nelle arti, nel governo, nella società. Qualche nome? Marozia (X sec.) potente nobildonna romana in grado di fare e disfare i governi della Città Eterna. Lei sì una sorta di papa-ombra ascoltata e riverita. Roswitha di Gandersheim (X sec.) monaca, poetessa, drammaturga. Trotula di Salerno (XI sec.) medico, ginecologa, docente alla Scuola di medicina della città campana. Ildegarda di Bingen (XI sec.) badessa, mistica, poetessa e scienziata. Piccolo inciso: a lei Margarethe Von Trotta ha dedicato, nello stesso 2009 della Papessa, il film Vision che ne mette in scena in modo impeccabile la biografia. Mai distribuito in Italia. Per concludere la serie ricordiamo Matilde di Canossa (XI-XII sec.) politica e condottiera e la storica bizantina Anna Comnena (XI-XII sec.). Non tutte erano nobili e la varietà degli ambiti in cui hanno eccelso significa proprio che l’età di mezzo, anche per quanto riguarda la condizione femminile, era tutt’altro che retrograda. Molto meno dell’età moderna per la quale un analogo elenco di donne importanti risulterebbe assai più striminzito.

Un utile confronto

A proposito di personaggi femminili di spicco e anche per capire la singolarità del film bulgaro rispetto agli altri che trattano l’alto medioevo, può essere utile il confronto con una pellicola di successo degli anni d’oro del cinema peplum: la produzione italofrancese Teodora (1954), opera prima di Riccardo Freda con Georges Marchal e Gianna Maria Canale nei ruoli, rispettivamente, dell’imperatore Giustiniano e della sua consorte. Doppiati, indovinate un po’, da Emilio Cigoli & Lydia Simoneschi! A proposito: qui si doppia tutto, francesi e italiani, con Locchi, Romano, De Angelis a impazzare da par loro, ma di questa piaga abbiamo già parlato. Passiamo oltre.

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“Teodora”-Giustiniano (G.Marchal)

Una didascalia iniziale ci informa che siamo nell’anno 547 «Apice e splendore dell’Impero d’Oriente». A Ravenna si inaugura la basilica di san Vitale e le cineprese si trovano effettivamente all’interno del tempio. Oggi sarebbe inimmaginabile girare in siti di rilievo artistico e archeologico, ma, come abbiamo già visto, all’epoca era una cosa tutt’altro che rara. Un primo piano di Giustiniano ci introduce a un lunghissimo flashback, che dura praticamente tutto il resto del film, e che serve a raccontarci in sostanza la storia d’amore tra l’imperatore e la popolana Teodora con relativo côté politico. Infatti l’azione si sposta subito in una bettola di Bisanzio su una ballerina impegnata in una sensuale danza del ventre. È naturalmente la Teodora dei bassifondi, destinata però ai fasti della corte. Altro che underdog de noantri! E qui comincia il festival del blooper e dell’inesattezza storica. Dai caschi integrali dei soldati, cui forse si è ispirato Lucas per le sue Guerre stellari, alle circostanze storiche, all’età dei personaggi. Il generale Belisario (Nerio Bernardi), per esempio, reduce dalla guerra contro i sasanidi (persiani) è presentato come un uomo anziano mentre all’epoca era 30enne. Si parla delle fazioni politiche, corrispondenti ai colori delle “tifoserie” dell’ippodromo, e si parla giustamente di verdi e azzurri attribuendo ai primi le simpatie popolari e ai secondi quelle dell’aristocrazia. Peccato che fosse invece il contrario. Saliamo ancora di livello: in una lussuosa dimora gentilizia fa bella mostra di sé, tocco esotico, un bel pappagallo ara sul suo trespolo. Venuto direttamente dall’America con la macchina del tempo. In compenso, tra un pappagallo e l’altro, gli scenografi hanno pensato bene di modellare il trono imperiale sul modello di un capolavoro artistico paleocristiano del VI sec.: la Cattedra di Massimiano che si può ammirare nel Museo arcivescovile di Ravenna. Per le monumentali statue dell’ippodromo l’ispirazione è venuta invece dal razionalismo ‘900, tipo Stadio dei Marmi.

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“Teodora”-Cattedra di Massimiano

A un certo punto, nei dialoghi si citano i pretoriani: «La scalinata sarà custodita dai pretoriani dell’imperatore!». Peccato che questo corpo militare fosse stato sciolto da Costantino all’inizio del IV sec., 150 anni prima. Le merci (e i traditori!) si pagano in sesterzi, monete non più in corso dal IV sec. Insomma sembra un film sul basso impero anziché sull’alto medioevo. Eppure ha fatto scuola. La corsa delle quadrighe ha certamente ispirato William Wyler per l’analoga, spettacolare sequenza del suo Ben Hur (1959).

Un altro falso clamoroso è quando Giustiniano parla di «Difenderci dalle invasioni barbariche». In realtà è stato lui a muovere guerra, ossia a invadere, i regni barbarici dell’occidente per ripristinare la sovranità di Roma (di Costantinopoli) sui territori che da alcuni secoli erano in mano ad altre popolazioni. Ricordiamo la Guerra Vandalica, in Nordafrica, in seguito alla quale i Vandali sono stati cancellati dalla storia, e la devastante Guerra Gotica combattuta sul suolo italiano per quasi 20 anni, dal 535 al 553, con effetti tragici per le popolazioni locali e per le finanze dell’Impero.

Comunque il film finisce con la Rivolta di Nika, del 532, durante la quale Giustiniano ha effettivamente rischiato di perdere il potere, salvato invece dalla determinazione di Teodora. Al proposito il film attribuisce a Giovanni di Cappadocia il ruolo di vilain, traditore e anima della rivolta stessa mentre in realtà Giovanni, alto funzionario della corte bizantina, non aveva nulla a che fare con i rivoltosi ed è rimasto in carica ancora per molti anni. Ultimo superblooper, al termine del flashback: Teodora accanto a Giustiniano in san Vitale. Teodora muore nel 548 e anche se la basilica ravennate è stata consacrata nel 547 in realtà è stata ultimata dopo la morte della sovrana. E poi neppure Giustiniano vi ha mai messo piede!

 

A proposito di Bisanzio

«Da noi la storiografia liberale ha per secoli considerato Bisanzio null’altro che una originale e sterile sopravvivenza del mondo greco-latino. Generazioni di studiosi e di lettori occidentali hanno tramandato una quantità di pregiudizi su Bisanzio, che, non somigliante né alla civiltà classica né all’Europa moderna, si sarebbe distinta solo per bigottismo, crudeltà e ristrettezza spirituale». Così lo storico Franco Cardini sottintendendo naturalmente che le cose non stanno proprio in questo modo. I mille anni di arte e cultura bizantina rappresentano qualcosa di originale e autonomo che ha avuto notevole influenza anche al di fuori del perimetro locale. Soprattutto su quel mondo slavo dell’Europa Orientale evangelizzato nel X secolo dai monaci bizantini Cirillo e Metodio. Da loro viene fatta derivare la scrittura, chiamata appunto cirillica, usata ancora oggi in Russia, Bielorussia, Ukraina, Bulgaria, Serbia e molti altri paesi. Di grande rilievo anche la storiografia bizantina. Oltre alla già citata Anna Comnena (1083-1153), autrice dell’Alessiade ossia la biografia del padre, il basileus (imperatore) Alessio I Comneno, possiamo ricordare Procopio di Cesarea (490ca-560) contemporaneo e biografo di Giustiniano, e Michele Psello (1018-1096) autore di una ponderosa opera intitolata Chronographia che descrive la storia dell’Impero nel X e XI secolo.

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“Teodora”-Arte razionalista ‘900

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