Cari amici Grey-Panthers, come promesso, ri-eccomi tra voi con un nuovo racconto della mia vita irachena. Un altro mese (o poco più) è passato, ma le emozioni vissute in questo arco di tempo, quelle no, non passeranno. Quanto è intensa la vita qua!
Grazie al lavoro sodo dei miei colleghi e a un pizzico di fortuna – che, per chi prima per chi dopo, alla fine tocca a tutti – ho avuto il mio visto per l’Iraq federale in tempi lampo, il che mi ha permesso – con non poca invidia di colleghi meno fortunati di me – di andare in field visit (visita sul campo) per osservare con i miei stessi occhi le attività poste in essere dalla mia organizzazione, Première Urgence Internationale, in Iraq. Ed è così che, una mattina di una domenica qualunque (in Iraq la domenica è un giorno lavorativo), mi sono ritrovata a partire per Mosul – quella stessa Mosul, «roccaforte dell’Isis», di cui avevo tanto letto fino ad allora solo sui giornali. In realtà, non so come sia successo che io mi sia ritrovata a partire in visita a Mosul. Non sono sicura che fosse stato previsto. So solo che, sentendo i miei superiori parlarne, mi sono gentilmente e discretamente proposta come supporto. E cinque minuti dopo l’iniziale «poi vediamo», mi è stato comunicato che sarei partita con loro.
Zaino in spalla e via, in macchina. Era la prima volta che uscivo da Erbil. La terra è brulla fuori e di un color oro pallido. Ma la visuale è ampia, a prima vista quasi rassicurante. Vi sono numerosi controlli lungo la strada – non veri e propri checkpoint ma piuttosto postazioni di sorveglianza della zona. Chi controlla sono i Peshmerga – combattenti curdi attualmente conosciuti principalmente per la loro campagna contro lo Stato Islamico ma che in realtà sono presenti in Iraq fin dagli anni ’80. Il vero checkpoint– dove ogni macchina viene singolarmente fermata – si trova a una decina di chilometri da Erbil. Il limite fu esteso durante gli anni del conflitto per evitare che l’Isis avanzasse (durante la strada infatti si può ancora vedere quello che era l’originale checkpoint, ormai inutilizzato). Una volta passato il territorio curdo, l’altro importante checkpoint è – ovviamente – quello per accedere al territorio dell’Iraq federale. Durante i passaggi al checkpoint, è importante seguire alcune regole fondamentali, tra cui: non utilizzare laptop né cellulari, non indossare occhiali da sole, sorridere, non parlare (nemmeno col vicino di sedile e nemmeno se la conversazione era interessante). Se hai fortuna – o se hai sembianze arabe – ti lasciano passare. Altrimenti – come è stato il caso per noi – ti chiedono tutti i passaporti e altresí una lista ufficiale (scritta in arabo) sulla quale devono figurare tutti i nomi dei passeggeri (da quel che ho capito, si tratta di una lista emessa dai servizi di sicurezza, ma – trattandosi di un documento redatto interamente in arabo e non occupandomi io della sicurezza dei miei colleghi – non possiedo maggiori dettagli al riguardo). Altri controlli hanno seguito, ma sinceramente ne ho perso il conto.
Durante il viaggio, siamo passati da diversi paesini, tra cui quelli che il nostro autista ha definito Saddam Hussein neighbours (il vicinato di Saddam Hussein) – non conosco l’origine esatta di questa denominazione (a volte fare troppe domande potrebbe sembrare un segno di invadenza), ma so che in quel momento il mio cervello ha messo insieme quell’infinità di informazioni vaghe e sconnesse accantonate da anni in un angolo un po’ polveroso del mio ippocampo ed è li che mi sono realmente resa conto di essere in quell’Iraq che da piccola vedevo nei telegiornali, con gli occhi increduli di una bambina che scopre la guerra.
Più ci avvicinavamo a Mosul, piú era possibile vedere case distrutte lungo la strada. Ed è interessante notare come, contrariamente a me, i miei colleghi – con molta piú esperienza – riuscivano a distinguere con la scioltezza di un campione di quiz quali case fossero state devastate da raid aerei e quali invece da esplosioni di mortai. Pare che si evinca dal tipo di crollo: se il tetto è completamente inclinato, è un bombardamento; se invece vi sono evidenti fori nelle mura, è un mortaio. C’è sempre da imparare, anche in materia di guerra – purtroppo.
A Mosul le regole di sicurezza per noi, staff internazionale, sono – per ovvi motivi – piuttosto restrittive: (quasi) alcuna libertà di movimento. Vuoi comprare da mangiare? Mandi l’autista. Vuoi comprare da bere? Mandi l’autista. Hai bisogno di un prodotto per l’igiene personale? Mandi l’autista. Hai bisogno di un altro qualsiasi prodotto? Mandi l’autista. E ringrazi e sorridi, anche quando hai chiesto un paio di sunglasses (occhiali da sole) e ti porta seven glasses (sette bicchieri). A Mosul non puoi mettere nemmeno il migliolo del piede fuori dal cancello – o quasi.
L’ultimo giorno della mia permanenza a Mosul è successo infatti qualcosa di incredibile. Dopo lunghi mesi di valutazioni e accertamenti, un piccolo piccolissimo supermercato è stato finalmente approvato e messo nella lista dei posti autorizzati (attualemente tre in tutta la città). Si tratta di una stanza abbastanza spoglia di due metri per tre dove è possibile trovare solo caramelle, merendine scadute e pepsi – quanto basta per togliersi la voglia di fare la spesa. Si trova esattamente a nove passi dal cancello di casa – li ho contati personalmente – e inizialmente l’approvazione era stata data esclusivamente per andarci col furgoncino (sì, avete capito bene). Per fortuna poi hanno autorizzato il piede libero. Quando ci sono andata – il giorno stesso dell’approvazione – eravamo in tre, tutte, ed eravamo accompagnate da tre omoni – manco la Regina Elisabetta! Ho comprato una pepsi – che poi a me la pepsi neanche piace, ma quella era buonissima, aveva il gusto della libertà.
Per recarsi in ufficio a Mosul, la prassi è la seguente: 1) si sale sul furgoncino (rigorosamente all’interno del cortile di casa), 2) le donne non velate indossano il velo, 3) il guardiano di casa apre il cancello, 4) il furgoncino esce, 5) lo stesso guardiano chiude il cancello, 6) il furgoncino arriva in ufficio, 7) il guardiano dell’ufficio apre, 8) il furgoncino entra, 9) lo stesso guardiano chiude. Solo allora si scende dal furgoncino. A fine giornata, stessa storia. E questo, tutti i giorni. [Onde evitare una dilagazione di informazioni fuorvianti (penso soprattutto alla mia mamma che legge queste pagine), è utile precisare che la presenza di tali regole non è per forza direttamente proporzionale al rischio effettivamente presente sul territorio. La sicurezza spesso è prevenzione. La sua funzione è quella di garantire l’incolumità del singolo individuo, limitandone la libertà personale laddove necessario. I rischi esistono ovunque ma quando si è staff internazionale in un paese straniero, perdipiù considerato un paese in guerra (o che comunque lo è stato fino a poco tempo prima), c’è chi per lavoro si occupa di non farteli correre (e io sono grata a queste persone che fanno un lavoro indispensabile ma ahi-loro spesso contestato – ci sarà sempre chi, sentendosi in prigione, dirà che le regole sono esagerate).] La situazione a Mosul adesso è molto piú calma rispetto al periodo di assedio sotto l’Isis. Ciononostante, resta una città che ha tragicamente sofferto e dove le dinamiche sociali necessitano ancora di un gran lavoro di democratizzazione e riordine – perché si sa, dove regna il caos, il piú forte cerca sempre di approfittarsene tramite l’(ab)uso di atteggiamenti spesso a stampo mafioso, i quali non mancano purtroppo nell’attuale Mosul (e.g. esplosioni in ristoranti che non pagano il pizzo).
Mosul era la seconda città piú grande dell’Iraq e forse la prima in termini di dinamicità e di qualità dei servizi offerti. Adesso, è una città quasi completamente rasa al suolo. In particolare, la parte che è stata piú atrocemente bersaglio di bombardamenti aerei, autobombe, colpi di artiglieria, granate e ordigni esplosivi improvvisati (conosciuti come IED – Improvised Explosive Devices), è la parte Ovest. Mosul sorge infatti sul fiume Tigri, sulle cui rive si sviluppa. Io ho attraversato il principale ponte di collegamento tra la riva Est e la riva Ovest – o almeno, quello che ne resta. Come tutti gli altri ponti, anch’esso è stato distrutto ma, per ovvi motivi logistici, è stata costruita una pensilina di collegamento tra le due parti del ponte ancora in piedi. Dalla macchina era possibile vedere il vuoto totale al di sotto, il che – lo ammetto – non è stato affatto rassicurante.
Ma ciò che è stato per me ancora piú scioccante è stata la visione che con prepotenza mi si è posta davanti agli occhi: la parte Ovest di Mosul totalmente e letteralmente in frantumi. Il mio cuore ha tremato e con difficoltà ho trattenuto le lacrime. Mi sono zittita all’istante. Penso di aver riaperto bocca dopo venti minuti. E la prima parola che mi è venuta da dire al collega e all’autista che erano in macchina con me – entrambi originari di Mosul – è stata «sorry» (scusate). Non perché avessi causato io tutto quell’orrore ma perché non potevo non sentirmi in difetto davanti a un tale scempio. In difetto perché mentre loro fuggivano da Mosul, io pensavo a quale top abbinare alla gonna. In difetto perché mentre loro perdevano persone care, io pensavo a superare l’esame di Diritto pubblico europeo. In difetto perché mentre loro piangevano di fronte alla loro casa distrutta (l’autista mi ha indicato dove sorgesse la sua), io mi tuffavo dallo scivolo di un pedalò. In difetto per non essermi resa davvero conto di cosa stesse accadendo. In difetto per non essermi incazzata abbastanza. In difetto per aver creduto che quella parte del mondo non fosse la mia.
Tutto a Mosul Ovest è distrutto – t u t t o. Abitazioni, farmacie, negozi, ristoranti, bar, palestre ma altresì moschee e chiese – eh sì, perché Mosul era una città che accoglieva allo stesso tempo Arabi, Curdi, Armeni, Assiri, Cristiani, Musulmani, Ebrei, e altre minoranze etnico-religiose come Yezidi, Shabaks, Kakais. Ma Mosul era anche una città rinomata per le sue ottime Università – di Ingegneria civile, Scienze, Medicina, Farmacia, etc. – enormi complessi di cui io stessa ho potuto vedere l’insegna – e nient’altro, perché nient’altro è ciò che ne resta. Ed è stato proprio il mio collega – adesso Medico – ad avermi indicato il luogo in cui sorgevano un tempo le università, perché è lì che lui ha cominciato i suoi studi, prima di fuggire da Mosul – lasciando gli esami della sessione estiva a metà.
In Iraq, la mia organizzazione – Première Urgence Internationale – interviene in diversi settori: in primis quello della Salute – dispensando cure primarie, sviluppando servizi di salute mentale e rafforzando il sistema sanitario nazionale – ma altresì in quello della Protezione (attraverso sessioni di sostegno psicosociale), della WASH (disinfettando l’acqua e ricostruendo strutture igienico-sanitarie), e dello Shelter (tramite la riabilitazione di infrastrutture e il ripristino delle strutture di ricovero). In quanto Grants Officer, la mia presenza a Mosul era mirata all’osservazione delle attività poste in essere nell’ambito dei nostri progetti, al fine di rendermi conto di persona dello stato di avanzamento e della qualità del nostro intervento. La prima visita è stata all’interno di Salamiyah II, un campo di sfollati interni situato a una ventina di chilometri a Sud di Mosul. Gli sfollati interni – meglio conosciuti con l’acronimo anglosassone IDPs (Internally Displaced Persons)– sono persone che, per ragioni quali conflitti armati o catastrofi naturali, sono state costrette a lasciare la propria casa, ma che – ed è qui l’elemento chiave – sono restate all’interno del confine nazionale. Questi campi, credetemi, sono sconvolgenti. Ettari ed ettari di terreno sul quale sorgono, sotto al sole cocente del trentaseiesimo parallelo Nord, migliaia di tende dove da anni abitano migliaia di famiglie. Ditemi se è umano tutto ciò. Nel campo di sfollati interni che ho visitato, la mia organizzazione ha costruito nel 2017 – anno di emigrazione massiccia da Mosul – un centro di assistenza sanitaria primaria (PHCC – Primary Health Care Center), al fine di garantire un equo accesso alle cure all’intera popolazione del campo. Ad oggi, grazie a una squadra di medici competenti e implicati, continuiamo le nostre attività all’interno del centro, garantendo – per esempio – assistenza sanitaria di base e d’emergenza, assistenza ostetrica di base e d’emergenza, assistenza neonatale, e trasferendo i pazienti in centri di assistenza sanitaria di livello secondario e terziario, laddove necessario.
Ma il settore della Salute non è l’unico in cui interveniamo. Il giorno dopo la mia visita al campo di sfollati interni, mi sono recata insieme ad altri colleghi – tra cui un Ingegnere, anche lui originario di Mosul – in tre paesini a qualche chilometro dalla città – Khorsabad, Darawish et Abujarbuah. In queste tre località abbiamo posto in essere un progetto volto ad accompagnare gli sfollati interni del campo di Bardarash – ormai chiuso – a tornare nelle loro comunità di origine. Per realizzare ciò, abbiamo implementato attività di diverso tipo, in linea con quello che è un approccio integrato. Interventi di sensibilizzazione sui rischi legati alle mine (perché ne restano ancora di inesplose), formazioni sull’assistenza psicologica di base, riabilitazione del sistema di drenaggio delle acque di superficie, rirpristino di alcune strade, ricostruzione dei centri socio-ricreativi, riabilitazione di (ben quattro) scuole. Proprio a proposito di queste ultime, voglio condividere con voi un piccolo anneddoto simpatico.
Entrando in una scuola (quasi deserta dato che era periodo di vacanze scolastiche), mi accorgo che a una decina di metri circa, spuntava una testolina di un tredicenne che si era accorto della mia presenza. Come segno di rispetto, faccio un movimento con la testa, lo stesso che in Italia si userebbe per dire «buongiorno», «buonasera», «con permesso», «grazie», «arrivederci», «è stato un piacere», e sicuramente altro. Ebbene, ho scoperto che in Iraq attribuiscono a tale gesto un significato diverso. In otto decimi di secondi quel bambino era dietro di me, che mi fissava, serio, in silenzio, come fosse in attesa di qualcosa. Io gli ho sorriso, ma sinceramente non avevo la più pallida idea di cosa volesse. Il mio collega iracheno ha risolto l’equivoco. In Iraq, muovere la testa dall’alto verso il basso con lieve torsione cranica significa «vieni qua». Io di certo non lo sapevo ma ciò che proprio in assoluto non concepivo è che al mondo potessero esistere bambini tanto obbedienti e ben educati. Otto decimi di secondo – o t t o. Per un semplice cenno di capo. Mai vista una cosa simile. Nemmeno in un adulto, sinceramente. [Piccolo tredicenne, sappi che resterai un dolce ricordo della mia esperienza irachena.]
Dopo le scuole, è stato il turno dei centri socio-ricreativi. Ad accoglierci è stato il Mukhtar – il capo del villaggio, figura di alta considerazione in numerosi paesini iracheni (proprio per questo, tanti di loro sono stati brutalemente trucidati dall’Isis durante gli anni dell’assedio). Alto, snello, molto anziano, ma molto arzillo, indossava un lungo dishdasha bianco – il tradizionale abito maschile arabo. Ci ha fatto gentilmente accomodare su alcune sedie in plastica accuratamente posizionate intorno alla sua scrivania. A me – unica donna presente in quella (circo)stanza – ha concesso il posto d’onore: accanto a lui. E da lì ho potuto assistere a una scena che ha del surreale. Con il fervore del capo di un comizio davanti una folla, ha iniziato a elencarci tutte le attività che stava continuando a promuovere all’interno della sua comunità (quando si vuole implementare progetti del genere in villaggi del genere, tutto deve necessariamente passare dal Mukhtar, per rispettare l’equilibrio comunitario che in questi posti è di fondamentale importanza).
Il problema è che non eravamo in una piazza ma in una stanza di tre metri quadri – e nessuno di noi era particolarmente sordo. Nonostante le dimensioni piuttosto esigue della stanza, di fronte alla scrivania era situato un enorme ventilatore: un cubo alto almeno quanto me. Per ospitarci nelle migliori condizioni, il Mukhtar ha deciso di azionarlo – tromba d’aria. Volava tutto ma in particolare la cenere di sigarette di cui il posacenere piazzato sopra la scrivania era straboccante. Nonostante le condizioni climatiche avverse, il comizio ha continuato. Poi il Mukhtar si è indirizzato a me e ha iniziato a dirmi cose – molte cose – in Arabo. Con un sorriso appena accennato (poichè timoroso di essere inappropriato), io rispondevo a tutto con «shukran» (grazie) – mea culpa, lavorare in un Paese senza conoscerne la lingua è una grave carenza che sento di avere. A parte il lato talvolta un po’ comico della situazione, ho apprezzato molto questo incontro, che mi ha permesso comprendere il reale impatto del nostro intervento all’interno delle comunità. Un ringraziamento speciale alla collaborazione di questo vispo Mukhtar, senza il quale nulla sarebbe possibile – o comunque, tutto sarebbe molto più complicato. Apparentemente il senso di gratitudine è reciproco dato che – con grande sorpresa ed emozione – entrando nel villaggio ci siamo ritrovati in mezzo a muri letteralmente tappezzati con la scritta «shukran PUI» (grazie PUI – Première Urgence Internationale). Non mentivo alla seconda riga di questo articolo, quando vi ho detto di aver vissuto emozioni incredibili in questo periodo!
La mia ultima visita è stata presso il centro di assistenza sanitaria primaria di Muhalabia, ad Ovest di Mosul. Si tratta di una struttura che era stata distrutta sotto l’Isis e che noi abbiamo – seppur con qualche difficoltà – riabilitato. A breve dovrebbe essere di nuovo operativa. Per raggiungerla abbiamo attraversato chilometri e chilometri di campagna ad Ovest di Mosul. È proprio da quella campagna che l’Isis ha raggiunto la città che poi sarebbe divenuta la sua grande roccaforte. E, purtroppo, si vede. Non è più una terra quella, è un cimitero. Piccoli borghi rurali – un tempo abitati da agricoltori, pascoli, orti ben curati – ormai distrutti, deserti, desolati. Sono passati da lì e non hanno lasciato nulla dietro a loro – n u l l a.
Nonostante tutto, Mosul è una città in cui la vita sta piano piano riprendendo una sua normalità. Ci sono i carri armati. Ma ci sono anche le macchine infiocchettate per i matrimoni. Ci sono i buchi dei proiettili nei muri. Ma ci persone che li riempono con lo stucco. Ci sono tanti negozi ancora chiusi. Ma ci sono anche molti commercianti che non hanno paura. Far rinascere una città che è stata brutalmente uccisa, è molto difficile. Io, sono sincera, non saprei da dove cominciare. Ma ho visto un vecchietto che, in mezzo a un deserto cinereo di macerie, forava il suolo con un trapano elettrico. Secondo me, lui lo sa.
Cara Elèna, il tuo accorato racconto mi ha colpito e commosso…non ho parole, se non un timido “I’m sorry”.
Elèna, ho letto il tuo racconto con attenzione e con stupore. Una narrazione precisa ed interessante ma soprattutto una gratitudine vera per averci reso partecipi della tua incredibile esperienza. Dirti “complimenti” serve a poco perché quello che stai facendo vale molto di più e stai dimostrando di valere moltissimo anche Tu. I migliori auguri per un futuro brillante e costellato di soddisfazioni, perché è così che lo stai costruendo. Ti aspettiamo presto a Firenze. Un abbraccio.
Grazie Elena. Sono commosso. 🙂