In alcuni dei miei romanzi ho descritto la durezza della mia infanzia. Se mi chiedono quando ho iniziato a scrivere io so che cosa rispondere: avevo meno di tre anni quando prima di addormentarmi mi raccontavo da sola le favole che inventavo io. Non era soltanto fantasia: ero una bambina sola e infelice. I test psicologici affermano che una bambina infelice sarà per sempre una donna infelice: e questo è stato vero anche per me.
Poi a un certo punto, senza una ragione precisa o un preciso cambiamento, io ho iniziato a sentire la leggerezza delle parole, dei gesti, della presenza degli altri. E ho imparato a ridere. La durezza è diventata ironia. La normalità, una specie di vuoto intorno che potevo riempire a piacer mio. Lo so, sono parole. Posso dire che è successo ma non saprei dire altrettanto come sia successo. So che ho imparato a ridere e la vita mi e’ diventata migliore. Sembra facile… diceva quel tale. Infatti non lo è.
Non ho una ricetta, posso soltanto dire come è successo a me. Giorni fa sono stata ricoverata in clinica per esami. Sembrava una cosa qualsiasi. Non era una cosa qualsiasi: tumore al pancreas. La nostra dottoressa e mio figlio si sono incaricati di dirmelo e non si sono stupiti di vedermi serena, tranquilla, come di una cosa che stava capitando a me, con qualche attenuante importante: ho novantacinque anni. Sicuramente faccio prima io ad andarmene che a questo indesiderato di crescere e di farmi male. Una gara tra me e lui… vincerò io.
E allora abbiamo riso. Ed è stato a quel punto che mi è venuta alla mente la domanda di Vitalba: come hai imparato a ridere? Eccola lì: me l’ha insegnato la vita. Mi ha preso per mano e mi detto: Prova… avanti, prova. Ho provato. E lo dico anche agli altri: avanti, prova… Prova a ridere anche quando ti sembra che il mondo ti stia cadendo addosso… e magari in quel caos vedi scappare un topolino – il mio tumore al pancreas. E allora ridi, ridi, ridi…
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