“Viviamo una pace bellica, il corpo comodamente in pace, la mente tra bombe e macerie. Attacchiamo a parole un nemico che a sua volta ci attacca con le minacce, ma noi dormiamo nel nostro letto, non in un rifugio” scrive Edgar Morin. Ci sono due sguardi possibili di chi è vicino alla guerra (come noi), ma non è in guerra: quello che osserva i movimenti sul campo, gli scontri, i bombardamenti, le artiglierie, i posizionamenti reciproci e quello di chi si sofferma sugli esseri umani che sono in quel campo conteso. Come se una reale vicinanza fosse possibile solo mettendosi nei panni dell’altro, di chi, da un giorno all’altro, forse persino da un’ora all’altra, sia stato scaraventato in un’altra vita, che mai aveva pensato possibile. Mi pare di poter notare che il primo è prevalentemente uno sguardo maschile, il secondo uno sguardo femminile. Non sempre, ma quasi sempre.
Uomini mandati al fronte, donne che cercano di scappare con i figli, quando possono, ma spesso anche intrappolate nei cunicoli sotterranei, negli scantinati o nei rifugi per mesi, senza cibo né acqua, bambini/larve che non hanno più sorrisi. In terza linea, ancora più lontani, ancora più nascosti i vecchi. L’invasione dell’Ucraina colpisce tutte le fasce d’età, ma, come giustamente sottolinea AGE Platform Europe (il comitato europeo nato per garantire che la voce degli anziani sia presa in considerazione nelle politiche europee) in occasione della Giornata europea della solidarietà tra le generazioni, le persone anziane – che in Ucraina sono il 17% della popolazione – sono particolarmente esposte. Esposte al pericolo, ma non all’attenzione che sarebbe loro dovuta.
E qui, nel tentativo di avvicinare sempre di più lo sguardo, diventa imprescindibile ricorrere al concetto di diverse fasi della vecchiaia. Certo, ci sono anziani e anziane ancora in grado di scappare, di scendere nei rifugi. Nonni e nonne che salvano i nipoti restati orfani, che fanno file alle frontiere, che arrivano “da noi”. Ancora forti. Ma nei loro sguardi c’è qualcosa di diverso dagli altri. C’è il racconto della loro vita lunga, unica e irripetibile, luminosa e straziante. Molto hanno visto e vissuto anche guerre e stermini precedenti, ma poi anche una lunga pace, un avvicinarsi alla morte che poteva essere considerato un incontro inevitabile, ma “naturale”. Negli occhi di queste donne e di questi uomini, nella loro postura, negli occhi sbarrati c’è il racconto di ciò che è stato “prima” e di come in un attimo sa stato travolto, cancellato, per lasciare spazio solo all’orrore del presente e al ricordo di un passato che sembrava cancellato, ma è tragicamente ritornato. Dice una donna anziana in un reportage: “io spero che le persone che vivono in pace non vedano mai quello che vediamo noi adesso”.
E poi ci son gli altri, quelli ancora più vecchi, quelli lasciati indietro. Quelli che non possono scappare perché non ne hanno la forza, quelli che non possono salire e scendere dai rifugi sotterranei perché sono ingabbiati in una carrozzella, quelli che non hanno più famiglia perché i figli sono al fronte e le figlie sono scappate con i bambini. Quelli che, immobilizzati a letto, aspettano giorni senza acqua né cibo che qualche vicino si ricordi di loro e riesca ad aiutarli. Quelli che sono riusciti ad arrivare o sono stati portati nei rifugi sotterranei e poi non ne sono più usciti per l’impossibilità di muoversi. Quelli che prima erano assistiti dagli operatori sociali, scappati anche loro. La distruzione della guerra ha anche distrutto quel tessuto di assistenza sociale che forse non era perfetto, ma in qualche modo esisteva.
Poco possiamo fare noi, ma una cosa sì: continuare pervicacemente ad attirare l’attenzione su di loro, a focalizzare lo sguardo perché quello che succede è che spesso lo sguardo scivola via dalla vecchiaia. Lo abbiamo sperimentato anche noi durante il Covid quando sentivamo le ‘care voci’ che dicevano “pazienza se muoiono i vecchi”. Abbiamo scoperto anche noi che, a due anni dall’inizio della pandemia, una vecchia signora è stata trovata morta, seduta sulla sedia della cucina. Abbiamo recentemente letto sui giornali che una donna di 76 anni e suo figlio disabile di 54 sono morti di fame e di inedia qualche giorno dopo che in casa era stato colto da malore il capofamiglia ottantenne che si occupava di loro. Quindi siamo noi per primi perché lo “sappiamo”, perché riusciamo a metterci nei loro panni, che dobbiamo denunciare l’indifferenza di fronte alla situazione di solitudine e di assenza di assistenza territoriale e prendere molto sul serio l’allarme lanciato da AGE .
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