Capitolo terzo: Hope

Pubblicato il 20 Marzo 2014 in

Ogni speranza era crollata nel cuore di Hope, quando Alessio le aveva comunicato la propria non imminente ma certa partenza. Non si capacitava che lui la cercasse solo fuori l’orario d’ufficio, che non le chiedesse di seguirlo in Italia.

Ad Alessio non piaceva la fedeltà e preferiva essere amato solo quando era libero da appuntamenti di lavoro. Non esercitava l’attaccamento.

Scese dal taxi e fu sollevato di non sentirsi osservato dagli occhi di Galimberti. Salì in stanza ed ebbe voglia di rileggere la lettera che Hope gli aveva fatto trovare nella hall dell’albergo l’ultimo giorno. Ma non poteva, perché, non desiderando ricordi, le lettere non faceva nemmeno l’esorcismo di distruggerle nel fuoco: le gettava nella spazzatura e basta.

Aveva eliminato la lettera, ma ne ricordava il contenuto. Trattava di dedizione e dolore e lo accusava di essere un uomo incapace di provare propensione per i suoi simili e per questa incapacità degno di perdono. Finiva proprio con quella parola: perdono. Ti perdono. Bene, lei lo aveva perdonato. Quando l’aveva letta la prima volta, non interessandogli investigare circa la colpa in questione, aveva appallottolato il foglio e senza alcuna cattiveria l’aveva buttato in un cestino vicino all’ascensore.

La mattina dopo aveva saputo la colpa dalla quale era stato assolto. Hope si era ammazzata, come una qualsiasi Giulietta non corrisposta. Niente ulteriori biglietti né scuse, solo l’evidenza dell’eterno sonno. Alessio era corso al cestino, ma era già stato svuotato, e così si era incenerito anche quel ricordo.

Era andato al funerale, perché era suo dovere, e aveva sofferto per i due giorni successivi, durante i quali era rimasto chiuso in stanza senza mangiare. Non si ricordava di avere mai sofferto così tanto prima, e si sentiva male per l’assenza di Hope non dalla sua vita, ma dalla vita.

Il terzo giorno c’era stata la sua risurrezione, che coincideva con il ritorno in ufficio. Per lui la resurrezione era quella. Accese il computer, controllò la posta elettronica e trovò una mail di Hope. Alessio la selezionò per la cancellazione, ma poi pensò di leggerla. Era del tutto diversa dalla lettera cartacea del giorno della sua morte.

Caro Alessio,

il fatto che tu te vada senza invitarmi a partire con te ha incrinato la mia saldezza. Sicché prima non l’avrei detto, ma adesso sì. Tu non sai quante mail ti ho scritto, ma le ho cancellate. Ascoltarti mi incanta, e l’incantamento non è una mia prerogativa. Ti amo, ma non mi uccido perché so di non essere corrisposta, non preoccuparti. Lo faccio per altri motivi. Sto morendo e questi mesi che mi restano non mi interessano, soprattutto senza di te. Se te l’avessi detto, non ti saresti tirato indietro. Non voglio che tu ti senta costretto a sopportarmi. Non un uomo come te. Io vado dove devo. Ricordati di diventare ciò che devi essere.

Tua Hope.

Perché dirlo ora che lui non poteva farci niente? Non poteva confessarlo per tempo e prendersi i giorni che lui per senso del dovere le avrebbe dedicato? Orgoglio e morte. Due cose inspiegabili, per lui.

Alessio accelerò il più possibile la propria partenza. Fu meticoloso come al solito, ma con un’impercettibile svolta isterica. Hope se ne sarebbe accorta, ma nessun altro se ne avvide. L’ultimo giorno a Londra Alessio lo passò tutto alla National Gallery, a guardare e riguardare ciò che aveva visto e rivisto, per ricordare. Hope l’aveva vista e rivista, e ora la poteva solo ricordare, ma non ci riusciva. Avrebbe ricordato i dipinti insieme a Hope, un giorno o l’altro. Il giorno dopo partì e quella donna insieme a quell’arte finirono in un dimenticatoio a parte. Solo il Van Gogh l’avrebbe seguito: il resto sarebbe rimasto lì, inchiodato a un muro.

Mentre ricordava sdraiato a letto, squillò il telefono. Era Gunther. Sapeva che Alessio non perdeva troppo tempo nel sonno.

“Sei cambiato, Alessio.” Esordì.

“Anche tu, cosa credi? Che c’è di strano?”

“Ho avuto come l’impressione che tu stessi sviluppando una tua anima.”

Alessio si ricordò del motivo per cui non aveva seguito Gunther a Venezia. Venezia è una città decadente, che ispira pensieri troppo densi. E Gunther partiva già da una certa sua intrinseca pesantezza. Tanto valeva dire la verità. “Sto ricordando il mio passato, cosa che non avevo mai fatto.”

Gunther invitò Alessio a pranzo per la domenica successiva. “Porta qualcuno, se vuoi.”

“Chi?”

“Che ne so? Qualcuno. Qualcuna. Non hai nessuno? Un cane? Comunque sia, prenotiamo per quattro. Non c’è nessuno a cui ti capita di pensare?”

Alessio non pensava mai a niente, eccetto che a ciò che doveva fare. E a nessuno. In effetti non aveva mai pensato neppure a Hope, fino a qualche minuto prima. Alle implicazioni della sua morte sì, ma a lei in quanto persona mai, nemmeno per distrazione. Salutò Gunther e in fretta cercò di ricordare Hope, di immaginarla con un qualsiasi abito in un qualsiasi momento dire una frase qualsiasi. Vuoto. Il vuoto si propagò per tutta l’ampiezza della notte e gli impedì di dormire. Non ricordando Hope, cercò di pensare a Costanza, ma anche lei non aveva tratti che lui rammentasse con certezza. Com’era possibile? La vedeva tutti i giorni e non ricordava nemmeno il colore dei suoi capelli. Era mai possibile che chiunque passasse nella sua vita non entrasse nei suoi pensieri nemmeno con un tratto nel volto, con un’immagine di sé? L’unico tratto indelebile nella mente di Alessio era un segno di abrasione che grattava tutto.

Qualcuno di preciso non c’era, e nemmeno di impreciso né di vago. Che strano.

La mattina dopo cercò di guardare meglio Galimberti, per imprimerla nella memoria. Era piuttosto soddisfatto della bellezza del suo autista. Forse era a lei che avrebbe dovuto pensare. Era lì, era comoda, e lo amava. Come Hope. Però Hope si era uccisa. Alessio fissava Costanza nello specchietto chiedendosi se una come lei avrebbe fatto una cosa analoga a quella che aveva fatto Hope.

“Ha fatto il check-up, Galimberti?” chiese Alessio. Dopo la morte di Hope, dava per contratto a ogni dipendente che ne facesse richiesta la possibilità di fare un controllo annuale per accertare le proprie condizioni di salute. La cosa lo tranquillizzava, e ora poteva sapere per certo se Costanza era sana.

“Certo. Tutto a posto. Colgo l’occasione per ringraziarla per la cura verso i suoi dipendenti.”  Tra sé Costanza pensò che stava bene, a parte un non trascurabile ingrossamento epatico causato da quella situazione ostile alla sua psiche. Prima o poi comunque le sarebbe scoppiato il fegato, a furia di vedere Alessio, soprattutto dopo quel giorno a Venezia.

“Costanza, volevo chiederle una cosa.” Alessio aveva la voce ferma come al solito.

“Dica.” Le faceva domande sulla salute, la chiamava per nome. Cosa diavolo succedeva?

“Se non ha impegni per domenica prossima, mi accompagnerebbe a Venezia, per favore?”

Non poteva essere un invito. Era una richiesta di straordinario. Costanza sentì il proprio fegato patire una nuova sofferenza, ma abbozzò. “Non c’è problema. La porto volentieri.” Era la prima volta che le chiedeva un favore, non poteva dire di no. E poi presto se ne sarebbe andata, perché aveva quasi trovato un altro lavoro.

Durante il lungo consiglio d’amministrazione che occupò gran parte della giornata, Alessio ripercorse il suo arrivo a Milano. Lo esaltava moltissimo sapere di essere lo stesso individuo che aveva donato un Van Gogh e che viaggiava in classe economica. Lo faceva sentire nobile e santo e questo era l’unico motivo per cui gli piaceva stare scomodo. Tutti gli altri lo ritenevano eccentrico. Ma lui non era affatto eccentrico. Per tutta la durata del volo aveva pensato che la prima cosa che desiderava fare dopo essere sbarcato era correre a Brera a vedere il suo quadro. Era atterrato, ma non aveva mai varcato la soglia del museo. Gli Iris erano finiti nella stessa plica buia in cui stavano Hope e altro.

Purtroppo i presenti continuavano a interrompere i suoi pensieri rivolgendogli domande e chiedendo il suo parere. Non ricordava niente dei primi mesi a Milano, a parte una fittissima rete di impegni, colloqui, azioni, decisioni, ma tutto era più sfocato della morte di Hope. Anche la rimozione ha i suoi gradi. Rifletté sul fatto che uno strascico degli esseri umani che aveva conosciuto alla fine, in fondo, gli rimaneva, mentre la sua ascesa era stata inglobata come un impasto informe in un pensiero unico, ininfluente. Questo doveva voler dire qualcosa, no?

Voleva dire che quagli anni intercorsi tra l’atterraggio e il non ingresso al museo erano stati inutili, persi. E anche quell’interminabile riunione era una perdita di tempo. Ma quando finiva?

Quando finisce il tempo che si perde nelle questioni di secondaria importanza su cui fondiamo la nostra vita?

Quella sera stabilì che era troppo stanco per chiarire a Costanza la natura dell’invito a Venezia. E anche la sera successiva si raccontò la stessa identica scusa, perché preferiva lasciare la cosa nell’ambiguità.

Venerdì sera lei chiese come doveva regolarsi per domenica e lui rispose che la aspettava alle otto precise davanti all’albergo.

Pensò che non era stato carino chiedere a Costanza di venirlo a prendere, ma non la chiamò per avvertirla che sarebbe passato lui. La mattina della domenica alle sette e venticinque Alessio aspettava impalato davanti all’albergo. Lei arrivò alle sette e mezzo, convinta di avere un impegno di lavoro.

Alessio aprì la portiera di Costanza e le sorrise. “Le dispiace se guido io?”

Costanza si spostò sul sedile di fianco senza nemmeno uscire dalla macchina. Non sapeva come comportarsi e faceva fatica a stare seduta di fianco ad Alessio. Lui non parlava, guidava tranquillo. Lei invece era pietrificata dall’imbarazzo.

Alessio non ricordò niente per tutto il viaggio, e non aprì bocca, ma sentì che non stava sprecando tempo. Non era proprio come guardare un Van Gogh, ma neppure come un consiglio d’amministrazione. Forse doveva guidare più spesso.

Parcheggiarono. “Andiamo, siamo in ritardo. Ci aspettano.” disse lui.

“Allora era un invito?” Costanza finalmente aveva capito.

“Sì, diciamo di sì.”

Gunther e Werner si trovarono subito bene con Costanza, e Alessio notò subito che entrambi erano molto più femminili di lei. “Meglio così.” Pensò. Poi si stupì di aver espresso un giudizio del genere. Non per la qualità dell’osservazione, che non era granché, ma perché lui non esprimeva quasi mai giudizi, soprattutto comparativi. Erano il risultato di un’osservazione, e lui non era uso soffermare lo sguardo su nessuno. Nessuno.

Pranzarono alla Trattoria della Marisa, che aveva il suo corredo di gondolieri. Costanza era di una piacevolezza tenera, imprevista in una creatura tanto spartana. Alessio si trovò di fronte a questo altro pensiero, che gli diede quasi fastidio per come si era formulato senza preavviso. Il cibo, il vino frizzante, le tovaglie a quadretti, i commensali che ridevano: cose che Alessio aveva già visto e provato. Non a Venezia, di certo, ma in Camargue, vent’anni prima. Alessio allora non si sarebbe lasciato andare alla conversazione. Allora? Alessio non si era mai abbandonato a una frase improvvisa in vita sua, ma in quel momento lo fece. Gli altri parlavano del successo e della determinazione per raggiungerlo.

“Uno può essere una persona forte quanto vuole, seguire regole auree, e poi però ci sono le debolezze. Penso a me stesso. Uno inizia a realizzare i suoi sogni più grandi e, al posto di festeggiare, guarda le incertezze che emergono. E ha sempre più paura, si sente sempre più inadeguato.”

Ma cosa diceva? Lui non esprimeva mai pareri non premeditati. Ma quanti ricordi doveva ancora rimuovere dalla rimozione? Non doveva più servirsi da bere.

Gunther e Costanza guardavano Alessio. Non l’avevano mai sentito parlare in quel modo. Quella frase fece su Alessio l’effetto di una bottiglia di champagne che si stappa. Sentì una decompressione interiore, minima ma irreversibile. Si versò un altro bicchiere e continuò a parlare, e, stranamente, ad ascoltare. Era in pace.

Mentre camminavano verso il parcheggio, dopo aver salutato Gunther e Werner, Costanza e Alessio ridevano.

“Grazie per questa giornata meravigliosa.” Disse Costanza senza guardarlo.

“Grazie a te. Sei una persona incantevole.” Alessio si pentì subito di averle dato del tu. “Oh, scusa se ti ho dato del tu.”

“Non si preoccupi, possiamo tornare al lei quando vuole.”

“Non voglio.” Ma sì, chissenefrega.

Arrivarono alla macchina.

“Qual è il mio posto?” chiese Costanza. Questione logistica con risvolto esistenziale.

“Guido io.” Rispose Alessio. Aveva bevuto solo due mezzi bicchieri di vino, anche se gli erano sembrati molto di più. In ogni caso il posto di Costanza era sul sedile di fianco.

“Mi dispiace di aver ignorato quello che mi hai detto al Florian. So che ti ho fatto male.” Disse lui.

Costanza si voltò a guardarlo, allibita. “No, figurati.” Era nel panico.

“Ti chiedo scusa. Non dovevo far finta di niente.” Era la prima volta in vita sua che Alessio si pentiva di una rimozione. Forse Costanza avrebbe dovuto glissare a cambiare argomento, ma tanto non aveva nulla da perdere.

“Forse non hai fatto così male. Purtroppo io sono negata. Per dimenticarti ho provato tutto. Ho fatto torte per dimenticarti, ho viaggiato per dimenticarti, cercato un nuovo lavoro per dimenticarti, guardato film per dimenticarti. Stanotte mi sono dimenticata di dimenticarti, e ti ho sognato. Però ho trovato un nuovo lavoro.”

Alessio ascoltava tranquillo. Per quanto qualcosa in lui stesse cambiando, non è che le modifiche radicali si completino in poche ore. Era abituato a sentire le cose più assurde senza contrarre un muscolo. “Ah, bene, hai trovato un incarico migliore?”

“Migliore? Non saprei. È una valutazione che non ho fatto, sinceramente.”

“Capisco.” Disse Alessio sorridendo.

E così lui capiva. Ma che bravo. Costanza pensò che lui sarebbe stato sempre lo stesso maledetto cyborg che era stato fino a quella domenica. Non c’era speranza. Doveva essere più chiara. “Ma cosa vuoi capire, tu? Tu sei un’anima fredda, Alessio. Invece le mie mani sono sudate e stanche per questa lunga attesa e per il terrore di perderti. Amami solo per un giorno, ma amami. Dimmelo, poi rinuncerò. Ma dimmelo, così so a cosa devo rinunciare.”

 

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