Vittoria gli aveva detto che non importava se lui non la amava. Erano seguite le solite frasi, che lei lo avrebbe amato il doppio e lui si sarebbe infine convinto. Ma il doppio rispetto a che? Dipende infine dalla capacità totale di amare del soggetto in questione. Duplicare il poco fa come somma ancora una poca cosa. Purtroppo Vittoria era capace di sentimenti non minori, e ciò aveva costretto Alessio, dopo due settimane meravigliose, a rispedirla a casa senza possibilità di ritorno. Quando la accompagnò alla stazione, non sentì di essersi privato di un affetto, ma di una complicazione. Rimosse anche lei, e continuò a studiare e a diventare ricco. Iniziò a esportare il sale e poi gli vennero in mente i cosmetici a base di sale. Attraverso i professionisti che lo consigliavano già da un po’ di tempo, iniziò ad acquistare immobili, ad acquisire proprietà. Vittoria si presentò alla sua porta il giorno del suo diciottesimo compleanno. Doveva essere una sorpresa, ma Alamaro era già Alessio e non aveva tempo per nessuno. La portò a pranzo in un ristorante costoso e le consegnò con buon garbo un assegno che lei intascò – confortandolo – per poi rispedirglielo ricoperto di insulti e stropicciato dalle lacrime – sconfortandolo.
Quel pomeriggio a Venezia Alamaro era andato a cercarla a casa sua. Ma lei non c’era e, se anche ci fosse stata, non avrebbe più avuto ventinove anni, ma cinquanta, e già da giovane non era stata una gran bellezza. Meglio non averla trovata. Al posto di recuperare la sua più antica spasimante, aveva scoperto la più recente, di cui fino a quel giorno aveva conosciuto i capelli e la nuca e quella era tutta la conoscenza che in effetti gli importava. Costanza. Ci vuole sempre la costanza, dopo la vittoria, ma lui non aveva mai voluto nessuna delle due. Le donne avevano rivestito un ruolo minore, nella sua vita. Dopo Vittoria le aveva scelte oculatamente tra quelle che non cercano mete ulteriori e che preferiscono indossare brillanti piuttosto che esserlo, brillanti. Era attratto dall’intelligenza, naturalmente, ma essa non rientrava nei suoi parametri di scelta. Non si era mai chiesto quale fosse il Q.I. di Galimberti e comunque aveva sonno. E Galimberti con quante donne l’aveva visto? Nessuna, perché lui teneva separate le questioni sentimentali dal resto, e di solito quando usciva con qualcuna o guidava lui o chiamava il taxi.
Pure se Galimberti lo avesse visto amoreggiare – difficile, visto che lui non era un tipo incline a manifestazioni d’affetto pubbliche – a lui che gli cambiava? Niente.
Ora era concentrato sull’ottobre remoto al quale era stato rispedito da una stupida cartella rossa. Era in una plica della sua esistenza nella quale giungeva alfine a farsi domande che non aveva mai voluto porsi. Si faceva domande. Ma perché, se queste lo portavano a ricordare quei ricordi inutili e fastidiosi? Comunque dopo Vittoria non aveva più amato nessuno, e questo era stato un gran bel vantaggio.
A ventuno anni Alessio si trasferì a Parigi. In tre anni di Parigi non vide l’aria aperta, ma edificò le fondamenta di un impero. Comprò un palazzo in centro e si circondò di collaboratori con il doppio dei suoi anni, in primis per non sembrare lo sprovveduto che non era e poi per sembrare uno che era ancora abbastanza ingenuo da aver bisogno dell’aiuto di un gruppo si saggi. L’ingenuità l’aveva persa da decenni, e invece capiva con l’istinto la volontà e i desideri dei suoi simili, e questo era un non piccolo vantaggio quando affrontava una trattativa. Riusciva a cogliere l’anima delle persone, ma non apriva mai la sua. Peraltro l’avere vicinanza di anime non rientrava nelle sue priorità.
Durante la lunghissima doccia Alessio pensò a come la sua vita scorresse benevola, ma lui sapeva che tutto può cambiare da un momento all’altro, nella benevolenza della vita.
Dormì sereno, gelando le angosce a metà, che è come le aveva sempre lasciate durante la notte. La mattina dopo si svegliò, si analizzò e si scoprì anormale come il giorno prima, perché la prima cosa che lo colse fu il ricordo di Gunther. Gunther era un fisico che aveva conosciuto per via di una consulenza circa un affare. Una creatura anomala, corrispondente all’immagine del genio bello e dannato. Alessio era rimasto folgorato da Gunther, e in quell’occasione aveva scoperto una propensione che non aveva mai sospettato di se stesso. Chissà perché.
Insieme erano stati per così dire felici, poi Gunther all’improvviso aveva acquistato una casa a Venezia sul Canal Grande. Aveva detto che ci sarebbe andato nei week end, ma non escludeva un trasferimento definitivo. Dava per scontato che Alessio non vedesse l’ora di tornare a casa. Casa, come se quella parola per Alessio avesse un qualche significato geografico o morale. Alessio non era tipo da incanti, e a Venezia non ci andò per nessun week end. Una volta fu colto da un’infinitesima tentazione, ma vi fece fronte e rimase a Parigi. La giovinezza fece il resto e Gunther si innamorò di qualcun altro, e non tornò più da Venezia. Tanto meglio, perché stava diventando un peso. Come al solito, Alessio non ne fece un dramma, anche perché tutto si svolse in somma cordialità. L’ultima volta che aveva visto Gunther, alla stazione, si erano abbracciati e lui aveva pensato che ben vengano quelli che partono per sempre sorridendo.
Alessio si vestì, fece colazione e decise che doveva rivedere Gunther. Chiamò al cellulare Colombo e, per il secondo giorno consecutivo, le chiese di annullare tutti gli appuntamenti. Colombo rimase interdetta al limite dello sconvolgimento, ma non eccepì. Colombo non eccepiva mai perché ciò non rientrava nelle sua mansioni, e lei era il mansionario vivente della perfetta segretaria.
Alessio scese e salì sulla macchina.
“Buongiorno, Accardi.”
“Buongiorno, Galimberti. Oggi vorrei tornare a Venezia.”
“Certo.” Galimberti lo avrebbe volentieri strozzato. Non poteva restarsene a dormire a Venezia, invece di continuare ad andare avanti e indietro?
“Mi deve perdonare, ma ieri non sapevo di avere impegni laggiù anche oggi.” Bisognava sempre giustificarsi con il personale, per dare l’idea della correttezza e non sembrare arroganti.
Galimberti fece nello specchietto un sorriso preagonico e partì, pensando che almeno non pioveva. Erano a Venezia prima di mezzogiorno. “Torno tra cinque ore.” Disse lui. Trecento normali minuti da passare aspettando. Galimberti non avrebbe più fatto l’errore di andare in Piazza San Marco. Avrebbe percorso calli le più traverse possibili, quelle che un uomo di successo come Accardi non può per sua natura percorrere. Così non avrebbe rischiato di incontrare quel maledetto.
Alessio comprò una cartina e cercò la casa di Gunther, che trovò senza difficoltà. Era vicino all’Arsenale. Citofonò e lo vide arrivare al cancello di persona.
“Sempre bello come il sole. Non sei invecchiato di un giorno.” Commentò Gunther con un sorriso. Pareva che si fossero visti il giorno prima e Gunther non aveva perso nulla della sua spontaneità.
“Ti ringrazio.” Disse Alessio.
“Ho sentito molto parlare di te negli scorsi quindici anni. Pare che tu sia ricco.”
“Anch’io di te. Pare che tu sia un genio.”
“Entra, Alessio, che ti faccio vedere la casa.”
Un giardinetto incantevole preparava l’ingresso a una casa accogliente e affettuosa come il suo proprietario.
“Non ho mai visto case così, a Venezia.” Disse Alessio.
“Era per questo che avresti dovuto seguirmi, tanti anni fa.” Commentò Gunther. “Sono contento di vederti. Cosa sei venuto a cercare in questi isolotti di palafitte? Te stesso?”
“Pressappoco.” Disse Alessio. “Come te la passi?”
“Bene. Vivo con un tedesco che si chiama Werner e insegna letteratura orientale all’università. Fa molto Thomas Mann, lo so, ma io sono un po’ demodé.”
Alessio rise.
“Riguardo alla ricerca di te stesso, posso aiutarti poco o niente. Non ho mai capito se hai intorno una corazza compatta su cui scivola tutto o se è porosa e tutto ci si calcifica sopra. L’unica cosa che so per certo è che nulla l’ha mai attraversata tanto da corroderti una singola cellula.”
“E questo che significa?” chiese Alessio.
“Non ne ho la minima idea. Mi esprimo così perché mi trovi in una fase letteraria. Comunque prima o poi doveva arrivare anche per te il momento di affrontare il passato.”
In quel momento esatto entrò Werner, che trascinò Alessio e Gunther al ristorante e Alessio non si sentì preso in ostaggio, come sempre gli accadeva quando gli facevano perdere ore che egli riteneva di impiegare in altro modo. Era contento. Lui e Gunther raccontarono a Werner dei bei tempi di Parigi, ridendo.
Si perse via amenamente e, quando si accorse di che ora si era fatta, Alessio si congedò in tutta fretta e si precipitò alla macchina, che non era vicinissima.
Gli sembrò così strano sentire le sue gambe correre in un posto diverso dalla palestra o dal tapis roulant. L’ultima volta che l’aveva fatto era stato in Camargue. Si ricordò delle belle uscite da scuola in primavera, quando si scapicollava alla salina. Nel frattempo aveva iniziato a piovigginare e quando si ritrovò davanti a Galimberti era zuppo e ansimante ed erano passati trecentoventisette minuti.
Galimberti, che si era chiesta per ventisette minuti se Alessio fosse per caso morto, fece un mezzo saluto e salì in macchina – Accardi non voleva assolutamente che gli venisse aperta la portiera. Quell’uomo doveva essere impazzito.
In effetti Alessio non era del tutto in sé, aveva bevuto e si addormentò quasi subito. Galimberti lo svegliò che erano davanti albergo. “Siamo arrivati.” Gli disse, e, mentre scendeva. “Buona serata, Accardi.”
“Ci vediamo domani alle otto e trenta.” Disse lui ricomponendo la voce. “Buonanotte, Costanza.”
Galimberti si voltò a guardarlo esterrefatta e non gli rispose nemmeno.
La mattina dopo si vestì perfetto, riconsegnò se stesso a ciò che doveva essere e uscì per andare al lavoro.
Galimberti, che si aspettava la terza gita a Venezia consecutiva con conseguente perdita di tutta la giornata, si sollevò dopo aver scaricato il capo davanti all’ufficio. Certo, i viaggi dei due giorni precedenti le avevano consentito di stare a lungo con lui, ma l’avevano anche spinta a dirgli quelle cose assurde che avrebbe dovuto a tutti costi tenersi per sé. In ogni caso non era cambiato niente e lei doveva ritenersi fortunata di non era stata rimossa dall’incarico.
Finalmente poteva andare in garage a sistemare delle macchine aziendali che doveva consegnare già da due giorni. Accardi aveva avuto il ghiribizzo di Venezia, ma lei aveva anche altro da fare. Non avrebbe potuto trovare un miglior trattamento economico di quello che aveva attualmente, ma doveva cambiare lavoro. Non era capace di dissimulare come faceva lui e quello che aveva scritto era scritto, anche se su un fogliettino usa e getta. Aspettare Alessio il giorno prima l’aveva sconvolta, soprattutto negli ultimi ventisette minuti. Era certa che lui avesse qualcuno a Venezia, qualcuno di cui si era invaghito. Ecco perché era diventato così strano e si comportava come mai aveva fatto.
Alessio entrò in ufficio e si ricordò la prima volta che era entrato nel suo ufficio di Londra. Era inevitabile finire lì, dopo Parigi. Aveva ventisei anni ed era già un mago della finanza.
Non si sentiva solo, non si sentiva triste, non si guardava indietro. Badava alla sostanza del presente, unico tempo che sia dotato di tangibilità. La sua segretaria si chiamava Hope, e lui in quel periodo era pieno di speranza. La speranza in lui non si manifestava come pienezza di spirito forgiata nella sofferenza, come slancio profondo verso un desiderio. No, lui sperava in modo molto tecnico, asettico, e corredava la sua speranza con la totale dedizione.
Gli venne in mente di partire immediatamente per Londra, ma aveva una lista di appuntamenti senza precedenti e non riuscì a muoversi fino alle dieci di sera.
Procurò per tempo di far avvertire Galimberti che sarebbe tornato a casa in taxi, e così alle ore diciotto Costanza riuscì a presentarsi al colloquio nell’agenzia che le avrebbe trovato una nuova occupazione.
I quattro anni passati a Londra erano stati eccezionali, per il lavoro e per tutto il resto, considerato che per Alessio tutto il resto era ancora il lavoro. Unico spasso la National Gallery, dove passava le poche ore libere in cerca di non si sa cosa. E poi, in fondo alla lista degli interessi, c’era Hope.
Hope andava bene perché era lì in ufficio, comoda, e lui non aveva tempo da perdere e neppure la necessità di tenere separata la vita affettiva da quella lavorativa, perché la sua struttura mentale non concepiva tale limite. I problemi erano sempre derivati dai limiti degli altri, ma lui li aveva ogni volta risolti con discrezione.
Passava ore nella National Gallery perché quel posto lo rilassava, lo liberava, lo rassicurava. Aveva studiato molto i dipinti e aveva dato vita ad alcune attività collegate all’arte, senza mai mettersi a commerciare in opere più vecchie di un secolo, perché la cosa lo infastidiva. Una volta, a causa di un piccolo cedimento, si era comprato un Van Gogh. Raffigurava un vaso con cinque iris blu.
Non l’aveva acquistato per il dipinto in sé, ma perché si era all’improvviso innamorato dell’idea di potersi permettere una cosa così preziosa a meno di trent’anni. Non avendo grande propensione all’innamoramento, ma sapendo che essere innamorati è necessario, trovava dei sostituti. Molti vivono di sostituti dell’innamoramento e lui aveva vissuto di sostituzioni, felicemente.
Tenne il quadro in stanza per una settimana e poi lo donò anonimamente alla Pinacoteca di Brera, perché aveva deciso di trasferirsi a Milano e voleva ogni tanto andarselo a vedere.
Uscì dall’ufficio che era mezzanotte, con i fiori di Van Gogh negli occhi. Mentre saliva sul taxi, Alessio pensò alla borsa rossa di Costanza e alla cartella di prima elementare di Alamaro.
Voleva indietro il suo nome.
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