Capitolo 5 – Sibilla

Pubblicato il 19 Maggio 2014 in

Alamaro dormiva all’aperto, in un sacco a pelo gettato su una spiaggia vicino al porto, con Didier e Zip. Non tornava quasi mai in albergo, ma non rinunciava alla camera perché non riusciva a distaccarsi dalle sue certezze. Il personale dell’Hotel Pierre lo considerava un eccentrico, e forse anche lui iniziava a pensarsi tale. Una base gli serviva, perché non voleva gestire i suoi affari davanti ai nuovi amici.

Una sera, a un paio di settimane dal suo arrivo, chiamò Arnaldo.

“Meno male che hai chiamato, Alessio. Ero preoccupato. Come stai?”

“Ansia? E perché?”

“Perché? Non ti sembra di agire in modo un po’ strano? Cosa stai combinando? Quando torni?”

“Ti ha chiamato Costanza?” Era l’unica cosa che gli interessava.

“Sì, era arrabbiata perché te nei andato in questo modo assurdo. Non è stata una grande idea.”

“È venuta da te?”

“Perché non lo chiedi a lei?”

“È venuta sì o no?”

“No. E non ha preso i soldi, se è questo che vuoi sapere.”

Era quello che voleva sapere.

“Quando torni, Alessio?”

“Non lo so. Ciao, Arnaldo, e grazie.”

Pensò di chiamare Costanza, ma uscì.

Andò dagli amici barboni al porto, ma c’era una persona soltanto, che scaldava qualcosa su un fornellino da campeggio. Alamaro non la conosceva, ma si avvicinò perché quella povera creatura non sembrava pericolosa.

“Vuoi favorire?” gli chiese lei. “Sei quello nuovo, vero? L’italiano.”

“Sì, grazie, ne prendo un po’.” Prese posto vicino a lei.

Candida e fuori di testa, come la stirpe di profetesse di cui portava il nome. Si chiamava Sibilla e aveva un sorriso bellissimo, anche se le mancava qualche dente. Alamaro passò la notte a parlare con lei.

Costanza non riusciva a dormire bene. Crollava verso le undici per la stanchezza e poi alle tre si svegliava per la mancanza che sentiva. Anche quella notte andò così. Andò come al solito a controllare che suo figlio fosse tranquillo nel suo letto e lo trovò tranquillo nel suo letto. Lo sapeva anche senza andare, ma doveva. Non trovare Alessio quella mattina le aveva tolto il sonno. Gli scriveva montagne di lettere, che cancellava. Era un ingegnere e scrivere per lei non era un mezzo espressivo, ma di trasporto, e doveva portarle indietro Alessio, nelle intenzioni. Ma nei fatti le dita sulla tastiera erano sempre più stanche, e la testa sempre più reclinata su quello che considerava uno sbaglio. Accese il computer e gli scrisse ancora.

Sono innamorata di te dalla prima volta che ti ho guardato nello specchietto retrovisore, e fin dal principio è stato un amore retroverso. Ti amavo. Tutto il resto sono formalità per anime banali, alle quali con piacere mi sarei adeguata, avendone l’occasione. Non mi è stato possibile rendermi attendibile né gradita ai tuoi occhi, e sono passata ignorata. Mi arrendo.

C’erano due versi di una poesia di Catullo che si ricordava dal liceo.

Miser Catulle, desinas ineptire,

et quod vides perisse perditum ducas.

‘Povero Catullo, smettila di illuderti,

e ciò che se n’è andato, consideralo perso.’

Li recitò a se stessa, cancellò tutto e se ne tornò a dormire. Dormire. Se ne tornò a guardare il soffitto al buio. Stupida attività quanto amare chi non ti pensa. Serve di più l’osservazione del soffitto. L’oblio riesce meglio di giorno e all’aperto.  Il disastro non si deve vedere in pubblico, o almeno lei la pensava così. Giocava alla totale dimenticanza, soffrendo la perfetta nostalgia.

Alamaro ascoltò la vicenda di Sibilla, che era più credibile della sua, in fondo. Una banale storia di disperazione, senza picchi né cadute. Una pedissequa discesa nell’abisso. I più la operano senza conseguenze visibili e ne escono devastati solo alcuni soggetti, i quali vengono opportunamente messi ai margini del mondo affinché su di loro ricada tutta la stranezza e la sporcizia. Anche Alamaro era un reietto, solo che era stato reiettato dalla parte opposta di Sibilla, verso l’alto.

Verso le tre del mattino, Sibilla gli comunicò che sapeva chi era.

Alamaro non era uno che si stupiva facilmente, però si chiese come faceva quella donna a sapere chi fosse lui in realtà.

“Credevi che i tuoi nuovi amici ignorassero che sei ricco?”

“Sì, lo credevo.”

“Forse perché pensi che, se l’avessero saputo, ti avrebbero chiesto dei soldi. Dì la verità.”

“Sì, hai ragione.” Confessò Alamaro un po’ scontento di sé. Quello che aveva parlato non era Alamaro, però, ma Alessio.

“Sanno che sei ricco, e lo so anch’io. Non sappiamo perché sei qui, ma nemmeno vogliamo saperlo. Il giudizio non ci attrae. Sarà anche per questo disinteresse che siamo ridotti così. Alla fine si viene emarginati in molte direzioni.” Sibilla pronunciava le parole con il tono della rivelazione, giocando sopra il suo nome.

“Non so perché l’ho fatto, di andarmene, né perché sono venuto da voi.”

“Non giustificarti. Sei venuto qui, punto e basta.”

Alamaro non si era mai sentito così fragile. Fragile? Lui non era mai stato fragile, mai un giorno in vita sua. Perché si sentiva così?

“Non so nemmeno cosa ho fatto finora, Sibilla. Ho vissuto metà della mia vita applicando tattiche, ponderando le scelte, soppesando questioni, e l’altra metà buttandomi a caso.”

“Non ho mai applicato una tattica in vita mia, e i risultati si vedono. Un tempo mi dicevo che almeno avevo la consolazione di aver sbagliato da sola. La gloria di sbagliare da soli non porta a nulla. Forse avrei dovuto trovare qualcuno insieme a cui sbagliare. Magari avrei combinato qualcosa di meglio. Tu sei solo, vero?”

 “Sei una vera Sibilla, questo è certo. Sì, sono solo. Credi che abbia fatto bene a lasciare per un po’ la mia vita?”

“Hai davvero intenzione di tornare alle cose di prima?”

“Non lo so.”

“Sei davvero solo?”

“Non so nemmeno questo. Cosa devo fare?”

 “Purtroppo non ho grandi risposte, e come se non bastasse non ho nemmeno le domande. Sono solo una vecchia barbona. Ti dico solo questo: impara a voltarti indietro, perché il futuro non ci precede, ma ci segue. Ti seguirà molto lontano da qui.”

Era una profezia degna del suo nome, ma Alamaro non era attrezzato alla comprensione delle profezie, e la mattina dopo partì per Cannes.

Scese al Carlton e uscì a dormire sotto le stelle e a cercare qualche disperato come lui. Ma non trovò nessuno e non riuscì a prendere sonno perché la panchina era scomoda e gli mancava Sibilla. Alle dieci di sera rientrò in albergo e il suo umore crollò definitivamente quando, nella hall, incrociò una persona che non si aspettava di incontrare, anche se non era la persona che meno voleva vedere al mondo.

“Alessio, da quanto tempo!”

“Sven, cosa ci fai qui?” Sven Henricksen, uno dei più brillanti direttori che avesse mai assunto. Uno che non si muoveva dal luogo di lavoro nemmeno se si prospettava la fine del mondo. Cosa ci faceva in quell’albergo in Costa Azzurra uno che viveva come un monaco trappista?

“Mia moglia sai chi è francisa, sì? Lei fa costume per cinema di attori, e viene qui per premio. Allora io qui.”

Sven in fondo parlava l’italiano meglio di quanto lui parlasse lo svedese, e in fondo, vivendo a Parigi, non se la cavava male. “Ah, che meraviglia! Complimenti.” Non sapeva cosa dire e non vedeva l’ora di andarsene in stanza.

“Possa offrire un drink? Prima vuoi andare in stanza per doccia?”

Sven si era accorto che Alessio era macilento e gli aveva chiesto se voleva andarsi a deodorarsi e a cambiarsi. Impagabile candore nordico. Non poteva essere scortese.

“Con piacere. Salgo un attimo in stanza a rinfrescarmi e torno.”

“Io aspetta.”

Alamaro si lavò, si vestì in modo adatto a signora che fa costume per cinema e scese al bar dell’albergo. La signora lo aveva salutato, poi si era scusata e si era ritirata per la notte.

Chiacchierarono come due amici, cosa che non avevano mai fatto. Glielo confessò Sven dopo quasi due ore, sempre per via del candore nordico.

“Tu sei diverso, Alessio, sa? Tu era molto pieno di durezza, prima. Ora sembri un’altra persona.”

L’ultima frase Sven la pronunciò in modo perfetto, come a voler sottolineare il concetto.

“Io non mi chiamo Alessio. Il mio vero nome è Alamaro.”

Sven lo guardò come se non avesse sentito. “Come dice?”

“Alamaro Maria Martini Bianco. È il mio vero nome. Non sono Alessio Accardi. O meglio non lo sono più.”

L’altro osservò qualche minuto di silenzio. “Questo non stupisce me di molto.”

Invece Alamaro si stupiva della confidenza che concedeva a un tizio che aveva sempre ritenuto un eccellente professionista ma niente più. Aveva sempre pensato la stessa cosa anche di Arnaldo. Lo aveva pensato anche di Costanza. Nell’ansia di rimuovere il male, Alessio aveva rimosso le brave persone. Ma lui era Alamaro, accidenti.

Andò nella sua suite e non fu capace di addormentarsi nemmeno lì. Pensava a Sibilla, a Sven e a Costanza. Soprattutto a Costanza. Gli venne in mente di chiamarla, ma erano le tre di notte e il buio accentua i melodrammi. Niente melodrammi. Rimase fino a tardi a farsi quattro risate con Sven.

Prima di partire, la mattina dopo, lo cercò per salutarlo.

“Tu parte, vero? Grazia per billa serata.”

“No, sono io che ringrazio te. Sì, qui non ho più niente da fare.”

“A presto, Alessio.” Sven non fece domande sulla destinazione, perché la sera prima aveva capito molto di Alessio. “Scusa, voleva dire Alamaro.”

Alamaro tornò da Sibilla. C’erano anche Didier e Zip, che gli sorrisero ma rimasero muti.

“Ti aspettavo.” Disse Sibilla.

Si mangiarono un paio di hot dog mezzi bruciacchiati cucinati sul fornellino di Sibilla e parlarono ancora una volta tutta la notte. Ma Alamaro sapeva che quella non era casa sua.

“Tu non puoi pretendere che tutti capiscano quello che capisci tu. E tu, per diritto di nascita, sei chiamato, anzi costretto, a capire di più. Perché hai avuto dalla vita un dono impareggiabile.”

“Quale dono, Sibilla?”

“La fede.”

“Ma va là.” Sorrise Alamaro. “Sono ateo come non mai. Ateo con gli dei, con gli uomini e con la vita. No, la fede non è un regalo che mi compete.”

“Ti ho già detto che sono solo una povera clochard. Ma tu no.”

Non era un’indovina, ma solo una disgraziata che beveva davvero troppo. Come Didier e Zip e tutti e tre insieme gli facevano una tenerezza infinita.

“Ci sono casi in cui il futuro precede l’individuo, e lo condanna. Noi siamo così, fottuti. Essere barbone non è una scelta. Scontiamo la condanna e non ci opponiamo a essa. Ci beviamo sopra. Tu che hai una scelta, cosa vuoi fare?”

“Ho davvero una scelta?” chiese Alamaroi.

Sibilla gli sorrise. “Ora che hai trovato il tuo nome, cerca la tua casa.”

“Tu bevi vino di cattiva qualità, Sibilla. Lo sai che fa venire le allucinazioni?” Disse Zip. “Vuoi che uno come lui non abbia una casa?”

No, non aveva una casa. Sibilla aveva capito tutto.

Alamaro rimase con i tre finché si addormentarono ubriachi. Era notte fonda. Poi si alzò, diede un’ultima carezza a quelle teste sporche e spelacchiate e ne andò. Sibilla aprì un occhio e gli fece un sorriso. Già sapeva che lo avrebbe rivisto, ma non subito. Lui prese la mano rugosa della donna, la baciò e le lasciò una busta con un po’ di soldi e un assegno.

D’accordo con Didier e Zip, Sibilla bevve i contanti e donò ai poveri della chiesa di San Michele la somma esagerata che era stata inutilmente lasciata a dei relitti come loro. Tutti ripresero la solita vita. Anche negli ineluttabili destini è data a volte la scelta, e il bene è solo un punto di vista.

Alle tre di quello stesso pomeriggio Alamaro, elegante, sbarbato e abbronzato, arrivava a Milano.

 

 

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