Peter Greenaway e la “Sindrome di Casablanca”
«Forse un giorno si dirà che la storia del XX secolo è stata imperniata all’uranio, primo carburante nucleare e motivo letterale e metaforico alla base di tanta parte degli eventi del XX secolo
[…] L’uranio è il vero tesoro americano, responsabile della supremazia dell’America nel mondo dal 1945. L’impero spagnolo aveva l’oro. L’impero americano ha l’uranio. L’uranio è il materiale alchimistico per eccellenza […] Ha trasformato la sporcizia in potere, e di un genere inimmaginabile. Una bomba lanciata su Hiroshima, un cambiamento epocale. Improvvisamente ci ha resi tutti ironici. Chi mai potrebbe avere una mente a senso unico dopo questo evento? E dopo Hiroshima l’uranio ha creato la Guerra Fredda, durata dal 1945 fino, così sostengono alcuni, al 1989, quando il potere sovietico è imploso e il muro di Berlino, sia come simbolo sia come stanca pila di cemento, è crollato. Quarantaquattro anni di Guerra Fredda. E il Pakistan e l’India ancora si sfidano con un pugno di uranio. L’uranioè la storia del XX secolo di ognuno. Perché la mia? […] C’è chi sostiene che nell’aprile del 1942, proprio quel mese e anno, l’Inghilterra si sia trovata al punto più basso dopo il 1066[1]. A fronteggiare un’invasione che, se fosse riuscita, avrebbe avuto conseguenza spaventose. A corto di risorse, isolata e con tutti gli alleati capitolati davanti al nemico. A terra. Toccato il fondo. Vuota. Nera. Io nacqui il 5 aprile 1942, un Venerdì Santo. Più o meno all’ora della crocifissione. L’arcivescovo Ussher[2], uomo patito delle date, che ha calcolato che il mondo ebbe inizio il 27 settembre 4004 a.C.[3], sostiene che la crocifissione ebbe luogo alle tre del pomeriggio del Venerdì Santo, nell’anno 33 d.C. Io sono arrivato proprio in orario».
«Il mio secondo nome di battesimo è John (Giovanni). Un nome cristiano, borghese, buono e solido. Proprio come il mio primo nome, Peter (Pietro), roccia, minerali. Costruisci sulla pietra, sulle pietre, sull’uranio. Pietro e Giovanni erano due dei dodici apostoli, probabilmente – opinabile – i più importanti.I miei genitori stavano forse tenendo il piede in due staffe? John era il nome di mio padre. Mia madre era convinta che il suo amore, suo marito, mio padre, non sarebbe tornato dalla guerra. Prima in Estremo Oriente, poi in Europa. Il mio secondo nome rappresentava un pegno, una garanzia, un tentativo di continuità, un sostituto. Pegni e promesse, nomi e firme. Quando avevo tre anni, età che si ritiene essere la prima fonte di ricordi identificabili, sebbene io non rammenti nulla della guerra se non degli aerei che, a notte fonda, volavano sopra Londra mentre io e i miei nonni riparavamo in un rifugio Anderson realizzato per conservare le patate da semina, fu lanciata la bomba atomica su Hiroshima. Accostamenti inadeguati? Patate e uranio? L’uranio diventò maggiorenne molto in fretta. Io divenni, e come me moltissimi altri, un figlio dell’uranio».
«Ho dieci anni e faccio la mia prima esperienza con la pittura. Da una lavagna. Un insegnante di matematica tiene alla classe una lezione di prospettiva e io ne vengo preso. Le lavagne diventano importanti, delle arene per il gioco associato alle regole. Nero, colore nero, gesso, polvere di gesso, linee, grafici, cancellature, pedagogia. Diagrammi. Lezioni di prospettiva, pittura e regole. Pittura e convenzioni. Ho 15 anni e penso che sto cominciando a pensare da solo. Penso di poter cominciare a capire l’enormità del sacrificio di Hiroshima […] Immagini nell’ombra dell’esplosione della bomba che rivela la sagoma di un corpo rannicchiato su una scala di sasso. Immagini di ustioni da radiazione. Terra bruciata e irradiata. Vedo il film di Resnais Notte e nebbia, il primo forte grido in un film sui campi di concentramento. Vedo e rivedo le sequenze con i corpi emaciati e laceri – che, ho il sospetto, non furono totalmente estranee a un desiderio di scalpore nel guardare la morte – al Museo della Guerra di Londra. Il Museo della Guerra di Londra veniva chiamato Bedlam, deformazione di Bethlehem, nome di un manicomio del XVIII secolo aperto al pubblico, ai guardoni. Io vivo da quelle parti, a Chiswick, Londra, non lontano dalla casa di Hogarth[4]. Hogarth dipingeva scene di Bedlam e io cerco di copiare i suoi Rake’s Progress[5]».
«Ho 17 anni e visito Pompei. Vedo i calchi dei corpi rannicchiati, bruciati in una catastrofe naturale quasi duemila anni fa. Provo empatia per i giapponesi di Hiroshima e poi vedo film di campi di prigionieri di guerra giapponesi e leggo delle “donne di conforto” cinesi e coreane[6]. Incappo nel nome di Oppenheimer e scopro della sua caduta in disgrazia per aver espresso i propri dubbi in un’America maccartista. Comincio a riflettere sul rimorso di guerra e poi sul rimorso di sopravvivenza. Vedo il film Rashomon, storie multiple di un solo stupro. Comincio a capire un po’ del codice d’onore giapponese, ma ho la necessità di vederlo da altre angolazioni. Non compresi mai la nozione di sacrificio – e vi includo anche la crocifissione biblica – fino a quando vidi la giustificazione del bombardamento di Hiroshima: i giapponesi non si sarebbero mai arresi altrimenti. Il sacrificio di Hiroshima ferma la guerra in Oriente. In Occidente ci si vergogna per aver lanciato la bomba, in Oriente per essersi arresi di fronte alla bomba, ma non c’è sentimento di vergogna in Oriente per le atrocità da essi stessi perpetrate».
«L’uranio è potente. Marcio su Aldermaston[7] partecipando a dimostrazioni anti-nucleare. Mi unisco a dimostrazioni in Grosvenor Square, all’esterno dell’ambasciata americana. Leggo Primo Levi. E sono di nuovo, completamente sgomento. Lui è un chimico e le sue esperienze in un campo di concentramento si collegano con il fascino della Tavola Periodica. Nel suo dolore e nelle sue atroci memorie viene confortato dalle astrazioni della fisica, dei numeri, dal fatto che l’oro è sempre fisso al numero atomico 79. Mi imbatto di nuovo nel fenomeno del rimorso di sopravvivenza, portato a casa alcuni anni dopo, quando vengo a sapere che Primo Levi si è gettato dalla tromba delle scale, a Torino. Subito dopo che è passato il postino. Postino, lettere, buste, indirizzi, pagine e pagine di lettere manoscritte degli anni ’20 e ’30 incrociano la mia strada. Cosa portò il postino a Primo Levi che lo fece buttare dalle scale nel 1987, dopo che aveva resistito alla morte per 40 anni? Fu il postino o l’angelo Moroni[8]?»
«A 19 anni sono disturbato da scene isteriche di persone che guardano gli schermi televisivi nelle vetrine dei negozi e dall’immaginare il peggio ai tempi dalla crisi fra Kennedy, Castro e Chruščëv. Guardo una ragazza piangere al pensiero che potrebbe non arrivare al suo ventunesimo compleanno a causa di una nube proveniente da ovest. Vento, nubi oscure. Vado a Berlino e guardo uno studente americano di storia dell’arte tirare pietre avvolte nella neve alle sentinelle della Germania Est, al di là del muro. Sono affascinato dalla teoria della fine del mondo. Che cosa abbiamo? Tutti questi collegamenti. Perché 92[9]. Perché l’uranio? E perché, poi, la pittura?»[10]
Anche se è sempre difficile capire, nelle parole di un artista, se l’enunciato sia effettivamente lo specchio dei momenti formativi dell’infanzia e della giovinezza, o non piuttosto la proiezione retrospettiva della personalità adulta, bisogna riconoscere che, in queste righe che Greenaway scrive a 58 anni, è rappresentata in pieno la sua estetica e la sua poetica di cineasta, pittore e performer. C’è, per esempio, il gusto della numerazione, degli elenchi, della sistematicità scientifica che scientifica non è, ma totalmente arbitraria e riconducibile a un universo personale piuttosto che a tavole, regole o formule universali. In Giochi nell’acqua, per esempio, la bambina che salta con la corda e che ricorre a più riprese nel film, elenca i nomi di cento stelle. Una tavola astronomica, si direbbe: «Uno: Antares. Due: Capella. Tre: Canopo. Quattro: Arturo…» eppure non è così. Ad autentici corpi celesti, come quelli appena citati, se ne aggiungono altri che appartengono al personale firmamento di Greenaway. Come Spica, che è sì una stella della Vergine, ma anche un personaggio di Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, o Kracklite, nome del protagonista di Il ventre dell’architetto o, ancora, Bosch e Fabritius: due pittori fiamminghi[11].
Altro elemento: il senso del disfacimento fisico, quasi il puzzo di morte nelle sue forme più varie e complesse. Una morte concreta, palpabile e plasmabile, della stessa sostanza corporea a cui si rapprende: i calchi di Pompei e le ombre di Hiroshima. Infine gli eventi traumatici: incidenti, cadute (falls, in inglese) e The Falls è proprio il titolo di un film sperimentale del regista.
E qui arriviamo al cuore del problema, ossia allo stile cinematografico di Greenaway. Definire barocco il suo modo di fare film può ingenerare equivoci. Il termine va infatti preso nel suo significato storico di opposizione e superamento del classicismo. Per analogia, ma anche con notevole approssimazione, possiamo definire con il termine di «barocco» il superamento, attualmente in corso, della modernità. Il barocco è uno stile onnicomprensivo, pervasivo, «multimediale» e Greenaway si muove esattamente in questa direzione. «Chiunque crea ha il dovere di allargare i confini della propria arte» ha affermato il regista[12] e il suo cinema supera il «classicismo» della struttura filmica narrativa estendendo il solco tracciato, soprattutto a partire dagli anni ’60, da autori come Godard, Antonioni, Bergman. Con il montaggio all’interno dell’inquadratura come elemento costitutivo del linguaggio filmico. Greenaway «monta» le sue storie con continui rimandi tra «rappresentazione» e «realtà all’interno della rappresentazione», tra oggettività dello sguardo (una macchina da presa fredda, asettica, quasi documentaristica) e «artificiosità» della messa in scena. Al punto che molto spesso (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, L’ultima tempesta, Il bambino di Mâcon, La ronda di notte solo per citarne alcuni) il set è strutturato come un palcoscenico teatrale. Oppure, attraverso l’uso delle tecniche digitali, combinando e componendo tra loro simultaneamente differenti fotogrammi (Dante’s Inferno, I racconti del cuscino). Altro «artificio» messo in opera dal regista (per esempio in A Walk through H e A Walk through Prospero’s Library) è l’iteratività di lunghissimi pianisequenza ad andamento circolare al cui interno si sviluppa una serie (tendenzialmente illimitata) di variazioni per brevi frammenti. Esattamente come avviene per le partiture musicali che li accompagnano[13].
Nella categoria del barocco rientra anche una delle principali attività artistiche di Greenaway. Anzi: la sua principale degli ultimi anni, quella di vj (visual jockey) performer nelle piazze o in luoghi-simbolo delle principali città del mondo. Barocca proprio per il suo carattere effimero e per la contaminazione dei generi, esattamente come gli apparati scenografici di corte del ’6-700.
Altra caratteristica del barocco (in senso storico e relativamente a Greenaway) è, appunto, la mescolanza tra le varie forme espressive. Cinema e pittura, innanzitutto, né potrebbe essere diversamente, ma anche cinema e letteratura. «Talvolta ho anche fatto cinema non da un libro, ma come un libro. Non è un caso che nella mia filmografia compaiano pellicole intitolate Prospero’s Books (L’ultima tempesta, lett. I libri di Prospero), e The Pillow Book (I racconti del cuscino, lett. Il libro del cuscino)».
Ma da dove viene questo interesse per il libro e per la sua «traduzione» nel linguaggio del cinema?
«Voglio vedere il testo come immagine, come soggetto. Sono interessato ai testi occulti dei Mormoni, abitanti dello Utah, divenuto poi scenario di scoperte di uranio e di cacce al tesoro di uranio, di miniere d’uranio. In principio fu il verbo. L’uranio c’era al principio. Quale fu il verbo di Mormon al principio, trascritto da Joseph Smith e tradotto dall’angelo Moroni che consegnò le tavole d’oro di una nuova religione vestito da postino? Il racconto di un folle? Ma allora si pensi agli altri racconti di folli. Nascita virginale per volontà di Dio. Resurrezione per volontà di Dio. Le tavole infuocate di Mosè. La stele di Rosetta? I manoscritti del Mar Morto? La Magna Charta? La Dichiarazione d’Indipendenza. Testi sacri per alcuni, blateramenti arcani e irrilevanti per altri»[14].
Come un perfetto autore letterario barocco, Greenaway preferisce esplorare le biblioteche piuttosto che i mondi reali. Non per nulla i suoi personaggi collezionano insetti (Giochi nell’acqua) o registrano fotograficamente la decomposizione dei cadaveri (Lo zoo di Venere). In questo, il riferimento diretto è l’erudito inglese del ’600 Robert Burton, autore della monumentale Anatomia della malinconia che contiene migliaia di citazioni di altri autori. Il barocco come epoca (e stile) in cui la casistica prevale sull’improvvisazione, sull’estro, sull’afflato romantico.
Continuando nella ricerca delle fonti di ispirazione del cinema di Greenaway, ci imbattiamo in altre pellicole estremamente significative proprio in relazione allo stile e all’estetica del regista inglese.
«Il settimo sigillo cambiò tutto, per me. Da giovane non mi interessavo molto al cinema. Andavo come tutti a vedere film commerciali, ma niente più. Quel film, invece, tornai a vederlo almeno due volte al giorno per cinque giorni di fila […] Ci ritrovavo qualcosa che conoscevo sia dalla letteratura che dal cinema. C’erano la metafora, il significato letterale e simbolico, le assurde regole di una partita a scacchi con la morte, nozioni di storia e di mitologia. Era un film in costume come fino allora non ne avevo mai visti, con un’azione drammatica che avresti voluto non finisse mai»[15].
Dunque, dopo Alain Resnais e Akira Kurosawa: Ingmar Bergman. Ma The Falls, ci rimanda all’Antonioni inglese di Blow up, altro autore che ha fortemente influenzato Greenaway[16]. Ecco comporsi così un firmamento di nomi di grande spessore cui bisogna senz’altro aggiungere forse il più grande. Sicuramente quello da cui Greenaway ha attinto più di ogni altro sul piano formale: Sergej Ejzenštejn[17]. Del grande autore russo sono recuperate le teorie del montaggio e l’uso del colore (per esempio in Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante e Il bambino di Mâcon), ma anche la concezione dell’inquadratura cinematografica come sintesi fra «immagine» e «testo» esattamente come avviene nelle scritture ideogrammatiche orientali[18].
Da tutti questi autori, elementi, suggestioni, Greenaway trae la linfa per il proprio cinema, orientato in primo luogo alla guarigione di quella che lo stesso regista definisce come la sindrome di Casablanca, ossia il cineromanzo, l’eccesso di «inguaribile narratività» che soffoca la produzione cinematografica corrente[19]. Per altro verso, sostiene ancora Greenaway, «io non mi prendo troppo sul serio. I miei film sono volutamente ironici e paradossali. Non offrono alcuna soluzione. L’eroe e l’eroina non si allontanano, uniti, al tramonto»[20]. Da qui anche l’altra provocatoria dichiarazione che Greenaway ripete ormai da anni come un mantra tibetano: «Il cinema come lo conosciamo sta morendo»[21], arrivando talvolta a stabilire persino la data precisa del decesso (come il reverendo Ussher quella della creazione del mondo) nel 30 settembre 1983, giorno della commercializzazione del telecomando. Non a caso Greenaway ritiene che «l’ultimo tentativo di reinventare il cinema risalga agli anni ’70, in Germania»[22] ossia con gli autori del cosiddetto Nuovo Cinema Tedesco: Herzog, Fassbinder, Schlöndorf, Wenders, Von Trotta, Reitz… Da ultimo va anche rilevato come nel barocchismo di Greenaway, ossia nel suo cinema «ideogrammatico» e antinaturalistico, il tempo venga di fatto abolito e il prima e il dopo non esistano, così come il nesso di causalità[23]. «Si tratta sempre e soltanto di creare immagini, che siano su schermo, su tela o su un palcoscenico. Ma la cosa che mi interessa di più, quale che sia il mio mezzo, è il tradurre idee in immagini, in termini visivi […] Sono un image-maker» scrive ancora il regista.
A questo punto bisogna capire dove porta il cinema di Greenaway e, più in generale, l’intera sua attività artistica che, come abbiamo visto, non si esaurisce nella realizzazione di film. Capire qual è il senso ultimo del suo barocchismo postmoderno. Ci sembra di poter dire che tutte le pellicole del regista inglese, documentari o fiction, astratte o con un fondamento realistico, pongono in primo luogo il problema della conoscenza. Conoscenza fisica attraverso gli strumenti scientifici e conoscenza metafisica attraverso l’arte. Con la consapevolezza che entrambe, la scienza e l’arte, non sono in grado di contenere tutto il sapere. Come la biblioteca di Prospero. Tuttavia entrambe rimangono sempre, costantemente protese a questo scopo. Conoscenza come summa dei saperi stratificati da secoli nelle diverse culture e nei diversi codici che si possono perciò indagare solo per citazioni e rimandi. Conoscenza che può contenere in sé anche la morte, come l’albero dell’Eden perduto. Conoscenza numerica, perciò infinita, e conoscenza tanto circoscritta e frammentata da ridursi a un singolo volume, a un foglio, a una frase, a un ideogramma. Conoscenza che affronta in primo luogo i nuovi quesiti posti oggi alla riflessione filosofica: bioetica, biogenetica, bioingegneria, eutanasia, procreazione assistita, ossia le questioni ancora totalmente aperte che riguardano soprattutto l’inizio e la fine della vita biologica e che l’arte riceve di riflesso da un’etica ormai sgombrata da ipoteche dogmatiche e dottrinali.
Senza questi riferimenti non si spiegherebbe, non solo la costante commistione di amore e morte diffusa in tutta l’opera di Greenaway, ma neppure l’ambizioso progetto multimediale che va sotto il nome di Le valigie di Tulse Luper: il tentativo di condensare il «secolo breve» in 92 oggetti dove, guarda caso, la chiave di volta della conoscenza enciclopedica, la sintesi (totalmente arbitraria) del tutto è sempre il numero atomico dell’uranio[24].
Da quanto abbiamo detto si capisce, infine, perché il cinema di Greenaway, sin dal suo apparire, nel 1982, con I misteri del giardino di Compton House, ma soprattutto con i film degli anni ’90, abbia suscitato opinioni controverse, con fraintendimenti e incensamenti acritici, rifiuti isterici e osanna privi di una seria analisi delle opere. Con casi limite, come quello di Irene Bignardi, firma del quotidiano “La Repubblica”, che dal festival di Cannes stroncò senza appello (definendolo «odioso») Il bambino di Mâcon ammettendo, allo stesso tempo, di essersi allontanata a metà proiezione «per la sgradevolezza» del film («Ma la reazione non è cambiata dopo che ho rivisto diligentemente e masochisticamente l’edizione italiana»). Oppure, come riporta lo stesso Greenaway: «Una critica americana ha scritto che preferirebbe essere costretta a leggersi tre volte l’intero elenco telefonico di New York piuttosto che dover guardare il film Lo zoo di Venere […] Probabilmente, se siete dei fan degli elenchi come me, la rubrica telefonica di New York può risultare affascinante […], ma sono certo che non voleva essere un complimento»[25].
Forse, contagiati a loro volta dalla sindrome di Casablanca, molti critici non si sono accorti che «quel» cinema è davvero morto. Per fortuna i film di Greenaway (e di pochi altri autori) contengono i necessari anticorpi perché un altro cinema sopravviva.
===================================================================================
[1] Il 1066 è l’anno dell’invasione dell’Inghilterra da parte dei Normanni, guidati da Guglielmo il Conquistatore. Per gli inglesi è un grande vanto che, dopo quella data, il loro paese non sia mai più stato occupato da eserciti stranieri.
[2] James Ussher (1581-1656), arcivescovo anglicano di Armagh, nell’Irlanda del Nord, è celebre come autore degli Annali dell’Antico Testamento, a partire dalla prima origine del mondo, pubblicati nel 1650. Sulla scorta di precise citazioni bibliche Ussher elabora un’accurata cronologia dell’universo fissando la data della creazione del mondo al 23 ottobre 4004 a.C. Nonostante i progressi scientifici, ancora oggi alcuni esponenti dei cosiddetti creazionisti, si rifanno alle interpretazioni bibliche e alla cronologia di Ussher.
[3] Citando forse a memoria, Greenaway incorre in un piccolo errore di data.
[4] William Hogarth (1697-1764), pittore, disegnatore e incisore inglese noto soprattutto per le sue opere a sfondo satirico e caricaturale, fortemente corrosive nei confronti delle società dell’epoca.
[5] Serie di otto dipinti di Hogarth del 1732-33 (poi stampati nel 1735) in cui il pittore riassume la vita dissoluta e l’internamento a Bedlam di Tom Rakewell, rampollo di una ricca famiglia londinese. I quadri di Hogarth ispireranno, nel 1951, l’opera lirica La carriera di un libertino di Igor Strawinskj su libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman.
[6] Così erano chiamate le donne dei paesi occupati obbligate a prostituirsi per i militari giapponesi.
[7] Sito nucleare inglese, 70 km a sudovest di Londra.
[8] Era l’intermediario tra Dio e Joseph Smith, il fondatore della setta religiosa dei Mormoni.
[9] Numero atomico dell’uranio.
[10] Peter Greenaway, Artworks [catalogo a c. di Paul Melia], Lindau, Torino 2000, s.i.pag.
[11] Per l’elenco completo cfr. Peter Greenaway, Paura dei numeri – 100 pensieri sul cinema, Il castoro, Milano 1996, pp. 21-23.
[12] Nel corso di un seminario all’Università di Münster (Germania), maggio 1991.
[13] «Tra comporre immagini e comporre musica non c’è differenza». Intervista a «La repubblica», 17 ottobre 2005.
[14] Peter Greenaway, Artworks, cit., s.i.pag.
[15] Alessandro Bencivenni, Anna Samueli, Peter Greenaway – Il cinema delle idee, Le Mani, Genova 1996, p. 11.
[16] «Il cinema italiano, soprattutto quello degli anni ’60, mi ha influenzato parecchio». Intervista a «La stampa», 20 dicembre 1997.
[17] «C’è un solo regista veramente grande che ha creato dei punti di riferimento culturali fondamentali in questa società: Ejzenštejn» Jonathan Hacker, David Price, Il cinema secondo Greenaway, Pratiche, Milano 1996, p. 40.
[18] «L’ideogramma è un singolo, meraviglioso oggetto simbolico, un’opportunità estetica per applicare la sintesi tra immagine e testo. Capacità che in occidente sembriamo aver dimenticato» Alessandro Bencivenni, Anna Samueli, Peter Greenaway, cit., p. 70
[19] «Si continuano a raccontare storie in un contesto cronologico preciso, sempre con le stesse vicende umane, con gli stessi caratteri psicologici […] A differenza di altre arti [il cinema] si è evoluto ben poco in cento anni e non è più in grado di soddisfare l’immaginazione umana. È un mezzo passivo e dittatoriale, perdente nel confronto con le nuove tecnologie che permettono la ricreazione di ciò che si vede» Intervista a «La stampa», cit. «La pittura nel ’900 ha conosciuto molte sperimentazioni. Il cinema non è ancora arrivato al suo periodo cubista». Seminario all’Università di Münster, cit.
[20] Seminario all’Università di Münster, cit.
[21] Seminario all’Università di Münster, cit.
[22] Intervista a «Il Corriere della sera», 3 marzo 1995.
[23] «[Un film] non è una finestra sul mondo o un frammento di realtà, obiettivi ambigui e di impossibile realizzazione, nel migliore dei casi […] Un film è una costruzione artificiale regolata dall’uso che il regista fa del tempo» Peter Greenaway, Paura dei numeri, cit., pp. 16 e 30.
[24] Il progetto si articola in tre film, 92 Dvd, installazioni mobili, libri e videogame. Il personaggio-guida, nonché alter ego di Greenaway, è appunto l’ornitologo Tulse Luper che, dalle miniere di uranio dello Utah, nel 1928, al crollo del Muro di Berlino nel 1989 attraversa i luoghi fisici e i momenti storici più importanti del XX secolo.
[25] Peter Greenaway, Artworks, cit., s.i.pag.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.