Il bambino di Mâcon / analisi del film
Tra le opere più controverse di Greenaway figura sicuramente questo film che ha avuto anche il raro merito di mettere d’accordo tutta la critica su posizioni di netta stroncatura. Certamente si tratta di uno dei film più ostici e «irritanti» dell’autore inglese, ma questa sua caratteristica dovrebbe semmai spingere a un’analisi particolarmente accurata. Nel gennaio del 1992 Greenaway cura una mostra, al Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, intitolata The Physical Self (L’identità corporea), in cui sono esposti quadri, stampe e disegni dal rinascimento all’età moderna che «celebrano il corpo umano senza sensi di colpa e senza edonismo». L’intero percorso della mostra è sovrastato da un gigantesco poster con la fotografia di Oliviero Toscani della neonata, utilizzata all’epoca per la pubblicità Benetton: un corpo umano appena venuto alla luce e già in bilico tra idealismo e sfruttamento merceologico.
IL CONTESTO
Greenaway sostiene di aver tratto ispirazione per Il bambino di Mâcon dalle immagini di Toscani. in particolare da tre scatti: la neonata, inserita nella mostra olandese, la giovane donna nera con un bambino bianchissimo al seno e il malato di Aids sul letto di morte. Tre foto emblematiche del nostro tempo, tre foto provocatorie, tre foto che hanno suscitato polemiche, tre foto che si prestano a significati volutamente ambigui. Tre foto che alimentano il mercato, ma anche tre immagini che inquadrano situazioni con le quali oggi la scienza e la filosofia si confrontano con risultati altrettanto dubbi, ambigui e contraddittori. Problemi etici in un contesto storico che, se da un lato rifiuta la morale assoluta di origine divina e basata sulla fede (Aristotele), dall’altro non è ancora riuscita a darsi un’etica laica universale e universalmente accettata.
Prima foto: la nascita. Quanti modi esistono oggi per concepire un essere umano oltre a quello naturale? Sicuramente qualche decina tra inseminazione artificiale, fecondazione in vitro, uteri in affitto, banche del seme ecc. Una notizia ripresa dai giornali, lunedì 3 gennaio 1994, proveniente da Edimburgo, Regno Unito: alcuni ricercatori hanno stabilito che è possibile prelevare gli ovociti dai feti abortiti di sesso femminile e utilizzarli per la fecondazione in vitro. La violenza della realtà supera sempre qualsiasi, provocatoria violenza artistica.
Seconda foto: la procreazione. Alcune donne in età biologicamente non più feconda, hanno generato figli. Una donna di colore di nazionalità britannica ha deciso di partorire un figlio dalla pelle bianca per evitargli, in futuro, possibili forme di discriminazione razziale. Ovviamente il bambino è stato concepito in vitro con materiale genetico estraneo a quello della “madre”.
Terza foto: la morte. Anche un corpo inanimato può essere utile. Utile e lucroso. Organi trapiantati, perfino cadaveri usati per i test di sicurezza delle automobili e, sul piano della fede, luoghi di sepoltura che attraggono migliaia di devoti. Non tanto diversamente da quanto avveniva nel medioevo con il relativo, floridissimo commercio delle reliquie. Quelle vere e, ben più numerose, quelle false.
LA STRUTTURA
Il film si struttura come dramma in musica in tre atti rappresentato su un palcoscenico davanti a un pubblico di nobili e popolani, a Mâcon, nel 1659. Tra gli ospiti di riguardo, fatti accomodare sul proscenio ed essi stessi in qualche modo attori, il diciassettenne duca Cosimo de’ Medici e il suo seguito. Circostanze precise, date e personaggi storici per un racconto fuori dal luogo e dal tempo, teatrale, appunto. Ma il ’600 è il secolo del barocco, stile anticlassico e «postmoderno», e dei filosofi empiristi inglesi (Hobbes, Locke, Berkeley e, più avanti, Hume), fondatori del razionalismo nonché affossatori dell’etica aristotelica.
Il dramma è introdotto da un personaggio che rappresenta la carestia, appollaiato su una sorta di trespolo, nudo, ma con un grottesco cappello cardinalizio in testa. Dice che il paese è desolato e nessuna donna genera più figli. Una vecchia però è nell’imminenza del parto. Sulla scena e nei costumi domina il rosso, colore del sangue, ossia della vita, ma anche della violenza. Dopo 13 contrazioni il bambino nasce ed è una creatura stupenda. L’anziano genitore spaccia medicamenti portentosi che ridanno agli uomini la virilità perduta. È però la sorella maggiore, poco più che adolescente e vergine, che si impossessa del piccolo, lo fa passare per suo, rinchiude la madre nel sotterranei del teatro e avvia un proficuo commercio di grazie dispensate dal bambino, che diventa così simbolo vivente di fertilità e abbondanza nel paese desolato. Il figlio dell’arcivescovo, probabilmente un seguace di Locke, le contesta tale diritto, ma la maternità virginale ha un antecedente nella storia e oggi, con tecniche appropriate, potrebbe avere infinite repliche. Il pubblico del teatro partecipa, rumoreggia, anticipa le battute o le ripete. Cosimo e la sua corte si appassionano, dettano variazioni, divagano sul tema. Il giovane duca regala al bambino una vacca perché abbia sempre in abbondanza il latte di cui nutrirsi.
IL VALORE DELLA GRAZIA
Il secondo atto si apre con un cambiamento a vista dei costumi e quindi della dominante cromatica che dal rosso passa al bianco e all’oro, simboli della luce e del potere. Il bambino è cresciuto, ha tre o quattro anni, e con lui è cresciuta la fede del popolo nelle sue facoltà taumaturgiche nonché il suo sfruttamento da parte della sorella. Il bambino viene rivestito di paramenti sacri. Ciascuno con un ben preciso valore economico: «La stola dell’umiltà, ricavata da un sudario; con 200mila fili d’argento, 72 perle, 12 diamanti e 32 denari d’argento. Valore: 10mila corone» ecc.
Così acconciato, al centro di un polittico gotico e in braccio alla sorella, il bambino dispensa grazie a una processione inesauribile di questuanti che, su richiesta della giovane, gli offrono in cambio doni sempre più ricchi. Il barocco è l’età della casistica e la dottrina morale non fa certo eccezione. E Greenaway opera sul doppio registro dell’ordine e del disordine per indagare l’uomo e l’universo. La sua maniacale contabilità, qui e altrove, significa in buona sostanza che l’uomo è sempre più spesso ridotto a «numero» anziché valutato come «persona».
Il paese comunque prospera. I campi e gli alberi traboccano di messi e frutti. Gli armenti prolificano e le donne, che prima erano sterili, generano nuove vite. Il figlio del vescovo mantiene il suo scetticismo. Alla sorella del bambino però non basta la maternità virginale: vuole sedurre proprio il figlio del vescovo e, in una simbolica stalla, gli si offre perché la renda «Da santa vergine a santa donna». Sempre attraverso la voce del capocomico il bambino le impone però una scelta poiché non si può disgiungere il potere dalla verginità. Per mantenere il favore (la grazia) del bambino «la purezza è il sacrificio richiesto. Perché hai unito la tua verginità al mio successo». La ragazza rifiuta sicché, per impedire l’amplesso, il bambino fa in modo che la mucca donatagli da Cosimo uccida il figlio del vescovo. L’animale è a sua volta ucciso dalla giovane.
UN DESTINO DI MORTE
Un nuovo cambio di dominante cromatica apre il terzo atto. Dal bianco e dall’oro si passa al nero, il colore del lutto. La sorella è stata imprigionata, il bambino affidato alle cure della Chiesa che peraltro ne continua lo sfruttamento. Sotto lo sguardo vigile del vescovo si allestisce l’asta dei suoi umori corporei: le lacrime, l’urina, la saliva, il sangue. «Tanta bellezza» è però destinata a «sbiadire nella morte» quando la ragazza uccide il fratello soffocandolo con un cuscino. Scoperta, viene processata, ma la legge vieta di dare la morte a una vergine. Cosimo suggerisce allora la condanna: sia data alla soldataglia. E il vescovo quantifica la pena citando i classici e i martirologi: «Tredici volte per l’infanticidio. Tredici volte più tredici volte per lo sfruttamento del bambino. Tredici volte tredici per l’avidità». L’attrice che impersona la sorella subisce perciò dietro le quinte 208 stupri, fino a morirne, mentre sulla scena Cosimo e i cortigiani calcolano diligentemente gli atti di violenza con l’aiuto di birilli su una sorta di scacchiera formata dai mattoni del pavimento. Nelle due ante estreme del polittico i genitori naturali del bambino giacciono uccisi perché «i peccati dei figli hanno sempre origine nel padre e nella madre».
Il cadavere del bambino è composto su un catafalco d’oro, circondato di candele accese, su uno sfondo completamente buio. La macchina da presa compie una lunga panoramica circolare fino a inquadrarlo in scorcio, dai piedi, come il Cristo morto del Mantegna. Il popolo e i nobili vanno in processione a venerarlo, ma qualcuno comincia a impossessarsi dei suoi resti: prima i vestiti, poi il suo stesso corpo che viene alla fine smembrato in 13 parti. Il cerchio si chiude, la vita cede alla morte, ma la manipolazione dell’essere umano, cominciata prima della nascita, prosegue anche dopo la sua estinzione.
Nell’epilogo ricompare in scena la carestia, ora moltiplicata per tre: tre personaggi atteggiati e abbigliati allo stesso modo replicano le deprecazioni del prologo. Gli attori della compagnia che ha rappresentato il dramma si congedano dal pubblico portando sul proscenio anche i cadaveri del figlio del vescovo, della sorella e della vacca mentre la testa mozzata del bambino pende dal soffitto. Gli spettatori del teatro si congedano a loro volta dal pubblico della sala cinematografica nel corso di una lunga carrellata all’indietro che sottolinea la teatralità dell’azione scenica vista sullo schermo.
L’ARCHÈTIPO JUNGHIANO
La forma del film aderisce perfettamente al contenuto del racconto che non è la pièce teatrale rappresentata, ma lo sguardo «sulla vita, sul suo lato ottimistico, essenziale, non ironico, mai cinico», rappresentato dal bambino (e, in generale, dall’infanzia) che costituiva anche il filo conduttore di The Physical Self. Tale sguardo non può però evitare, oggi, di incrociarsi con le «provocazioni» di Oliviero Toscani, ovvero con quanto in realtà lo nega e lo contraddice. Perché la verginità degli atti estremi della vita – il concepimento, la procreazione, la morte – è ormai andata perduta. Contraddizioni che esplodono indifferentemente a tutti i livelli delle relazioni umane: tra individui, nella famiglia e nelle forme più complesse e articolate dell’organizzazione sociale rappresentate nel film dalla corte di Cosimo e dalla Chiesa.
Greenaway compone dunque un quadro barocco (ossia ridondante e granguignolesco) nel quale tali contraddizioni emergono con violenza inaudita, ma senza intenti moralistici o, peggio, moralizzatori. Se presa di posizione c’è, è contro la tendenza, anch’essa tipica della società postmoderna, all’uso strumentale dell’eccesso, dello sfarzo, delle risorse e delle potenzialità creative (nell’arte e nella vita), al solo scopo di sospendere nell’uomo l’unica facoltà che gli consentirebbe davvero di vivere «eticamente»: la capacità di dubitare.
Essenziale infine, per completare l’analisi del film, il riferimento al dettato biblico che sta alla base dell’opera: quei versetti del libro di Isaia (7, 14) che indicano nel concepimento e nella generazione virginale del Salvatore il «segno» dell’intervento di Dio a favore di Israele e, per traslato, dell’intera umanità: «Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele». Scrive il teologo Hans Küng: «Per Jung il “bambino divino”, nato dalla vergine, è un prototipo, una di quelle rappresentazioni, sedimentate nell’inconscio, che ci sono state tramandate geneticamente e sono comuni a tutti gli uomini fin dai tempi primordiali […] Nella terminologia di Jung, l’immagine del bambino divino, guaritore, salvatore, è un archètipo, un modello originario dell’anima. Esso si esprime in diverse immagini ed esperienze vissute, eventi e concezioni, e ciò, in particolare, in connessione con esperienze emotivamente forti della vita umana, come la nascita, la maturità, l’amore, il pericolo, la salvezza e la morte. Ma non è stato Jung a elaborare il concetto di “archètipo”. Jung lo ha desunto soprattutto dagli scritti di Dionigi Aeropagita (che nel V-VI sec. portò in Occidente la mistica orientale), e dall’opera di Agostino, che aveva ancorato all’intelletto divino le idee eterne di Platone. Mentre però i prototipi ideali di Platone e Agostino sono di altissima e luminosa perfezione, gli archetipi di Jung, che maturava le sue intuizioni nella pratica terapeutica e nello studio delle tradizioni religiose di popoli antichi, hanno una struttura bipolare, ambivalente; rivelano sia un lato luminoso, sia un lato oscuro. Qual è ora il significato dell’archetipo del “bambino divino nato da una vergine”, che in tutti i tempi e presso tutti i popoli, in favole e miti, nell’arte e nella religione, ha trovato le espressioni più varie? Secondo Jung il bambino divino è, per i nostri sogni e miti, il grande simbolo del non prodotto, del non fatto nella nostra psiche individuale o anche collettiva». Parole, quelle di Küng, che possono spiegare meglio di qualsiasi analisi critica la “sostanza” del film di Greenaway.
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