La filmografia di Francesco Rosi (1020-2015) può essere vista come una lunga indagine sulla storia recente del nostro paese: «se c’è un filo che unisce idealmente tutti i miei film, questo è senz’altro un discorso articolato sul potere. È quello, almeno credo, che viene fuori con maggior continuità e che indaga sui rapporti tra sfruttato e sfruttatore».
Dopo l’interessante esordio La sfida (1958), parabola di un faccendiere che, per uno sgarbo alla Camorra, viene ucciso, e dopo I magliari (1959, col quale conclude l’apprendistato iniziato come aiuto di Visconti per La terra trema e Senso), Rosi realizza Salvatore Giuliano (1962) opera che sacrifica la linearità narrativa e strutturale in nome della rigorosa documentazione, della serrata analisi dei fatti e dei miti, della costruzione “rivoluzionaria” e difficile che procede per stacchi, flash back, anticipazioni e contamina film di finzione, reportage giornalistico e inchiesta, come nel successivo Il caso Mattei (1972, foto in basso) sulla misteriosa morte del presidente dell’Eni.
Da Salvatore Giuliano emerge il significato che ha per Rosi l’idea di “vero” al cinema: un vero problematico, carico di dubbi e incertezze, che individua nella storia del bandito l’esempio migliore di impunità, connivenze, collusioni tra i vari poteri: il realismo si allea all’esemplarità in nome della Storia.
Nel successivo Le mani sulla città (1963, foto a sinistra) la sintesi avviene sul piano del dibatito ideologico, della teoria e della prassi politica […] Il film è un duro atto d’accusa contro un certo modo di gestire la cosa pubblica, mescolando politica e affari. “I fatti narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce” recita la didascalia finale. Come in Salvatore Giuliano, anche qui si procede dall’ambiente all’invenzione: quante Napoli ci sono in Italia? sembra insinuare il regista. In seguito l’urgenza civile sembra venir meno.
Prevale il ricorso a una dimensione latamente simbolica o allegorica come nel Momento della verità (1965) sulla vita e la morte del torero Miguelin, e in C’era una volta (1967), per poi divenire volontà demistificatrice con Uomini contro (1970), da Lussu, che racconta la follia, la retorica e le ingiustizie della Prima Guerra Mondiale. A temi più attuali sembra tornare con Lucky Luciano (1973) in cui tenta di rinnovare l’impianti strutturale e stilistico del precedente Mattei con riferimento al filone gangsteristico. Ancora una volta la ricostruzione di una vicenda vera, la vita di Luciano, condannato dagli americani e poi graziato in virtù di misteriosi servigi. Siamo in qualche modo già sulla strada della migliore “favola nera” Cadaveri eccellenti (1975), da Sciascia, in cui l’indagine del poliziotto sugli omicidi dei magistrati serve da prestesto per scoprire gli intrecci tra i poteri deviati dello stato. Sotto il segno del viaggio le due successive opere, Cristo si è fermato a Eboli (1979, da Carlo Levi), e Tre fratelli (1981). viaggi che raggrumano emozioni, nostalgie e dubbi attorno al tema delle origini. Origini di una civiltà e della sua estraneità alla storia, nel primo caso, origini familiari ed esistenziali nel secondo. Di sicuro mestiere, ma di minore interesse, i successivi Carmen (1984), ripresa filmata dell’opera di Bizet, Cronaca di una morte annunciata (1987) da Marquez e Dimenticare Palermo (1989) con cui Rosi torna alla sua antica vocazione del cinema “politico”. Più meditativo l’ultimo, assai discusso, La tregua (1996) dal romanzo di Primo Levi. Testo tratto da: Maurizio Regosa, Breve storia del cinema, Bcm editrice, Milano 1998.
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