Ermanno Olmi (n. 1931) apre la sua carriera di cineasta cogliendo e trasferendo sullo schermo una condizione umana fatta soprattutto di disagio e spaesamento in un Paese visto sì in pieno sviluppo economico, ma ancora profondamente legato a principi tradizionali e a una morale cattolica diffusa. Il tempo si è fermato (1959), Il posto (1961), I fidanzati (1963), sono i titoli di questa prima stagione, seguiti nel decennio dal docufiction E venne un uomo (1965), sulla figura di papa Giovanni XXIII, e dal semidocumentaristico I recuperanti (1969), girato sull’altopiano di Asiago tra le persone che campano rischiando la vita per raccogliere e vendere sul mercato del ferro gli ordigni inesplosi della Prima Guerra Mondiale.
Nel decennio successivo il regista, cattolico osservante, si orienta su tematiche morali, con risultati non particolarmente memorabili – Un certo giorno (1968), Durante l’estate (1971), La circostanza (1974) – mentre con L’albero degli zoccoli (1978), affresco rurale sulla Lombardia dell’800, raggiunge sicuramente la sintesi più efficace tra impegno etico e orizzonte estetico.
Per Olmi civiltà e natura, storia e mito, fisico e metafisico, immanente e trascendente sono compresenti nell’esperienza umana e interagiscono secondo un disegno che, se pure è sconosciuto alle creature, è comunque ordinato al loro bene. Il male, l’infelicità, il dolore derivano perciò essenzialmente dall’ignoranza di questo disegno, dal fatto che le conoscenze e la stessa esistenza dell’umanità sono comunque limitate e condizionate. L’uomo può solo abbandonarsi, con la forza della fede, al trascendente. È questa la saggezza contadina che anima i braccianti della Bassa, che li aiuta a superare i rovesci della fortuna, ma anche a sopportare le angherie dei padroni. Non per debolezza o mancanza di coscienza sociale, ma per virtù cristiana, plasmata sull’esempio del crocifisso.
Le giornate dei contadini sono infatti scandite da una sorta di ritmo binario: il lavoro nei campi e la preghiera. A tavola, prima di mangiare; la sera, nella stalla, o in casa, appena prima di coricarsi. Talvolta i due momenti coincidono, come quando Batistì, durante la recita del rosario, fabbrica gli zoccoli per il figlio che deve andare a scuola. Per farli ha abbattuto un alberello che appartiene al padrone e per questo verrà licenziato. Ma lavoro e preghiera sono le due facce della stessa medaglia e il furto per necessità non viola i comandamenti divini.
La messa in scena delle Scritture
Il seguito la riflessione del regista si sposta verso un’analisi (e quindi una rappresentazione) ancora più diretta dei problemi della fede mediante la messa in scena di alcuni testi della Sacra Scrittura, ancorché sempre tradotta in vicende e storie di uomini contemporanei. È un lungo periodo che comprende titoli come Camminacammina (1982), La leggenda del santo bevitore (1988), il documentario Lungo il fiume (1992), Il segreto del bosco vecchio (1993), Genesi – La creazione e il diluvio (2000) e Centochiodi (2007).
La leggenda del santo bevitore è una vera e propria illustrazione della dottrina della grazia e, forse proprio per questo, il film risulta piuttosto freddo e accademico. Qui il regista afferma che la condizione umana è una specie di sogno a occhi aperti (l’alcolismo cronico del personaggio) il cui risveglio coincide con l’abbandono della vita. L’uomo riceve più volte del denaro (un dono gratuito e rinnovato, come la grazia di Dio) che, per un motivo o per l’altro, non riesce mai a rendere. Eppure egli riceve ancora, dopo ogni appuntamento mancato e a dispetto della sua debolezza sempre più forte. Quando finalmente raggiunge la meta, non gli resta che morire.
Identico anche il significato dell’immagine che chiude Camminacammina: un agnello, solo e sperduto, nella casupola della Natività mentre intorno infuria la Strage degli Innocenti. Il Bambinello si è sottratto alla morte, ma solo per morire in un altro modo e in un altro momento, vittima comunque designata.
Il Genesi è sicuramente il capitolo più originale della Bibbia televisiva prodotta dalla LuxVide di Franco Bernabei. Mito cristiano e società tribale si fondono in una riflessione antropologica sull’origine del cosmo. Il testo sacro si trasforma in un mito narrato da un vecchio ai suoi discendenti, accanto al fuoco, in un bivacco di nomadi dei giorni nostri. L’origine del cosmo diventa così l’alba di un giorno qualunque. Adamo ed Eva sono due adolescenti che sperimentano per la prima volta il sentimento amoroso, l’Arca di Noè una grande fattoria dove uomini e animali vivono senza infrangere il delicato equilibrio ecologico esistente in natura. Così facendo Olmi riversa il respiro universale nella quotidianità. Non si pone (e non pone allo spettatore) in astratto il quesito sull’origine del mondo. Lo accetta così com’è, lo descrive minutamente e con grande affetto, ma sempre sottolineandone la dimensione metafisica. Le risposte alle domande radicali sull’esistenza vanno dunque cercate nello strettissimo legame che unisce uomo e natura, entrambi provenienti dallo stesso soffio generatore.
Centochiodi rievoca invece alcuni episodi della vita di Gesù attraverso la crisi esistenziale di un docente di filosofia che abbandona tutto, mette in scena un finto suicidio e trascorre un’estate ai bordi del Po, in una vecchia casa diroccata e in compagnia di alcuni abitanti del luogo. Il professore si era congedato dagli studenti con un pensiero di Karl Jaspers, uno dei padri dell’esistenzialismo: «Viviamo in un’epoca in cui ogni spiritualità si converte in profitto. Tutto viene fatto in vista di un guadagno. Un’epoca in cui la vita stessa è una mascherata e la felicità del vivere è falsa, come l’arte che la esprime. In una simile epoca, di perduta genuinità, è forse la follia la soluzione per la nostra esistenza?» Per Olmi lo è sicuramente la “follia” del Vangelo.
Il dissidio tra spiritualità e profitto sta alla base anche del film più “politico” del regista bergamasco: Il mestiere delle armi (2001). Qui Olmi riflette sulla nascita della modernità attraverso la messa in scena di un episodio piuttosto marginale della storia d’Italia, avvenuto a inizio ’500: gli ultimi giorni di vita e la morte del capitano di ventura Giovanni de’ Medici, detto Delle Bande Nere. Per Olmi il contrassegno della modernità non è la fine degli ideali cavallereschi impersonati dal Medici, bensì il relativismo morale, il compromesso con la propria coscienza che caratterizza gli altri personaggi. Per i quali il fine da raggiungere a ogni costo può giustificare anche i comportamenti più spregevoli e bassi. Stesso discorso per la più attuale delle questioni politiche in questo primo scorcio del XXI secolo: i fenomeni migratori, analizzati attraverso la grande metafora del Villaggio di cartone (2011).
La morte dello spirito
L’importanza della produzione documentaristica di Olmi non è secondaria – quantomeno per consistenza – rispetto a quella di film a soggetto. Coltivata anche in anni recenti con risultati di grande rigore. Come Terra Madre (2008) puntigliosa ricerca di alternative alla globalizzazione nell’agricoltura che unisce le testimonianze dell’omonima rassegna organizzata da Slow Food di Carlo Petrini, alla ricerca di esperienze concrete come quella dell’anziano contadino che rifiuta di utilizzare chimica, ogm e qualsiasi altro presidio tecnologico nella conduzione del proprio podere.
La sensibilità ecologica del resto non è un accessorio della fede, ma ne rappresenta l’aspetto più genuino e veritiero. Solo in stretto rapporto con l’insieme dell’universo l’uomo può trovare la sua dimensione più autentica. Non come vertice del creato, ma come parte – e neppure prioritaria – di esso. Di conseguenza, ciò che può rendere appena un poco più libero l’uomo è la coscienza della propria finitezza. Ecco perché, secondo Olmi, sono appunto i limiti oggettivi di una condizione socialmente subordinata o di emarginazione, quale quella dei contadini lombardi a fine ’800, della piccolissima borghesia nell’Italia del boom, il mondo dei clochard di Parigi o le nuove povertà degli immigrati, il contesto in cui si può può sperimentare la vera dimensione della salvezza. Come lo stesso Gesù, un perdente secondo i parametri sociali, ma evangelica «pietra scartata dai costruttori» che diventa «testata d’angolo», secondo la nota metafora del Salmo 118, ripresa dai tre Sinottici (Mt 21, 42; Mc 12, 10; Lc 20, 17).
Per la dottrina cristiana i comportamenti dell’uomo, in ogni tempo, sono fatalmente condizionati da quello che viene definito peccato originale, ossia la colpa collettiva che, secondo la teologia contemporanea, si configura come idolatria, ossia «La pretesa dell’uomo di considerarsi completamente autonomo nei confronti di Dio». Il regista ha dichiarato di ritenere che, all’origine della storia, ci sia una forma di presunzione che spinge l’uomo a porsi nei confronti della natura nel suo insieme, non come custode di un ordine che egli può trasformare armonicamente in sintonia con le leggi di Dio, ma come possesso esercitato in maniera predatoria e violenta. In ultima istanza è questa la forma più acuta di asservimento, proprio perché si tratta di una schiavitù morale. Che reca in sé la vera condanna che incombe sia sul singolo individuo sia sull’umanità intera: la morte. Non della carne, destinata comunque a perire, ma dello spirito.
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