Si è soliti far coincidere l’inizio della riflessione critica sul Vietnam nel cinema americano con il film Tornando a casa (Coming Home, 1977) di Hal Ashby, girato due soli anni dopo il ritiro delle truppe statunitensi dal paese del Sud Est Asiatico e con una colonna sonora fatta interamente da canzoni di protesta dell’epoca. La percezione della novità introdotta da Ashby nel dibattito sociale seguito al disimpegno militare fu però molto più viva in Europa che in America, dove il film passò quasi inosservato. Per gli Usa il Vietnam rappresentava ancora un trauma collettivo di difficile definizione: era la prima guerra persa nella bisecolare storia del paese e un’esperienza tragica per milioni di giovani mandati a combattere il comunismo in nome di una democrazia e una libertà che il corrotto regime di Saigon calpestava sistematicamente.
Soldati Stelle&Strisce
Illusi di essere accolti come liberatori, al pari dei loro padri e nonni nell’Europa del 1945 e del 1918, i soldati stelle e strisce si rendevano ben presto conto di essere degli invasori e che i loro avversari, i Vietkong, combattevano per difendere la propria terra. Inoltre in patria si diffondeva sempre più una corrente di opinione pubblica contraria all’intervento, altro fatto del tutto inedito nella storia del paese. Infine, la presenza massiccia dei mass media sul teatro del conflitto contribuiva ad alimentare tale opposizione documentando in maniera inoppugnabile e con immediatezza le brutalità commesse ai danni della popolazione civile. Tutto questo determinò la creazione di una sorta di cordone sanitario dell’apparato militare e politico attorno alla sporca guerra che la rese a lungo un argomento tabù per l’industria culturale.
Confronto critico
Oltre a quello di Ashby, infatti, nella seconda metà degli anni ’70 pochissimi altri film si confrontano criticamente con la Guerra del Vietnam: Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978) di Michael Cimino, I guerrieri dell’inferno (Who’ll Stop the Rain, 1978) del britannico Karel Reisz, Vittorie perdute (Go Tell the Spartans, 1978) di Ted Post e Apocalypse Now (id., 1979) di Francis Ford Coppola. In Cimino e Reisz, peraltro, la guerra ha una valenza eminentemente esistenziale e psicologica, nel primo caso limitata al microcosmo di una piccola comunità di immigrati, mentre l’opera di Coppola risente maggiormente della sua origine letteraria (Cuore di tenebra, di Conrad) che di un riferimento diretto alle vicende belliche. Come il successivo Giardini di pietra (Garden of Stones, 1987) dello stesso autore. Tutte queste pellicole dimostrano però che il cinema, meglio di qualsiasi altra forma d’arte, poteva contribuire a una seria riflessione su un capitolo così controverso della recente storia nazionale. Al pari di quanto accaduto in Italia trent’anni prima con il Neorealismo rispetto al ventennio fascista.
Indietro tutta
Nel decennio degli Ottanta si assiste invece a una rapida quanto generalizzata inversione di tendenza. Il film che apre il “nuovo corso” è Platoon (id., 1982) di Oliver Stone. Forte del suo passato di combattente, Stone realizza una pellicola strutturata come un classico del genere bellico e ottiene un notevole successo commerciale. La ragione di tale popolarità, e autentica intuizione del regista, è girare un film sul Vietnam alla stessa stregua di come negli anni ’50 si celebravano al cinema i fasti delle armate americane in Normandia, in Italia o nelle isole del Pacifico. Celebrazione al negativo, la sua, nel segno dell’eccesso e della violenza, ma pur sempre celebrazione. L’abbattimento del tabù coincide dunque con la rimozione del problema: del Vietnam si può finalmente parlare, ma solo in chiave mitica. Si affronta l’argomento per neutralizzarlo. Il successo di Platoon dimostrò inoltre che un simile approccio poteva diventare un ottimo richiamo per il pubblico e i film si moltiplicarono.
Un riferimento remoto
In Rambo (First Blood, 1982), che si struttura narrativamente come un western, la guerra è uno sfondo indeterminato, un rimando lontano cui attinge la sfera psicologica del protagonista nel momento in cui entra in azione in un contesto completamente diverso. Negli anni ’80 la Guerra del Vietnam diventa così essenzialmente un pretesto per rinnovare il repertorio di generi ormai poco attraenti, come appunto il bellico e il western. Non a caso quasi tutti i soggetti presentano un forte contrasto drammaturgico: Good Morning Vietnam (id., 1987) di Barry Levinson, Saigon (Off Limits, 1988) di Christopher Crowe, Eroe comune (Ordinary Hero, 1989) di Peter Cooper, o addirittura connotazioni granguignolesche: Rambo 2 la vendetta (First Blood 2nd Part, 1985) e la serie Rombo di tuono (Missing in action, 1984-88).
Un caso a parte
Solo pochi titoli fanno eccezione alla regola, opere peraltro molto eterogenee tra loro e che ottengono una diversa fortuna commerciale. Con Nato il 4 luglio (Born on a 4th of July, 1989), molto più rozzo dell’analogo Tornando a casa, Oliver Stone riprende l’argomento che gli era valso la consacrazione, ma evidenzia tutti i suoi limiti di narratore, mentre un film onesto e poco indulgente come Hamburger Hill (id., 1987) dell’inglese John Irvin si rivela un flop al botteghino. Caso a parte: Full metal jacket (id., 1987) di Stanley Kubrick, che non è un film sul Vietnam, ma un film sulla follia della guerra, sulla barbarie della guerra a partire dalla caserma, dalla violenza gratuita di chi esercita un potere su chi è costretto a obbedirgli. Full metal jacket parla del Vietnam solo perché il Vietnam era stata certamente una delle più assurde, immotivate e violente avventure belliche della storia, ma non sviluppava in alcun modo una riflessione specifica su “quella” guerra.
La cattiva coscienza
Il decennio del Novanta si apre con Air America (id., 1990) di Roger Spottiswoode. Il film è una commedia e il Vietnam è diventato così anche oggetto di umorismo. Sin dall’antichità questo significa l’avvenuto esorcismo del mito, ma il Vietnam ha davvero finito per rappresentare la cattiva coscienza dell’America nei confronti di se stessa e del mondo? Dal punto di vista storico certamente no. Non altrettanto nel cinema: infatti, dopo il Vietnam, ci sono state le due Guerre del Golfo, le Torri Gemelle, l’invasione dell’Afghanistan e la Guerra Civile in Siria. Ciascuna con la sua rappresentazione sullo schermo, da Three Kings (id., 1999) di David O. Russell ad American Sniper (id., 2014) di Clint Eastwood, da Green Zone (id., 2010) di Paul Greengrass a Zero Dark Thirty (id., 2012) di Kathrine Bigelow. Fatta eccezione per L’alba della libertà (Rescue Dawn, 2006) del tedesco Werner Herzog, e Billy Lynn (id., 2016) del taiwanese Ang Lee, che tornano sul Vietnam, ma affrontano altri problemi, in tutti i casi citati gli Stati Uniti hanno ripreso, almeno sullo schermo, il loro ruolo di paladini della libertà a mano armata e di esportatori di democrazia a colpi di cannone. E questo, per il mondo dello spettacolo, basta e avanza: The show must go on!
Didascalia finale di “Hamburger Hill”
Se ne siete capaci, conservate per loro un posto nella vostra memoria. E guardatevi indietro mentre andate verso luoghi dove loro non potranno più andare. Non abbiate vergogna di ammettere che li avete amati, anche se non è stato sempre e del tutto vero. Prendete ciò che hanno lasciato e ciò che vi hanno insegnato con la loro morte e conservatelo insieme alla vostra. E quando verrà il momento in cui gli uomini decideranno che ormai possono chiamare la guerra un’insana follia, sostate un momento ad abbracciare quegli eroi gentili che avete lasciato indietro
Maggiore Michael Davis O’Donnell, 1, 1, 1970 – Dak To – Vietnam
3a Squadra, 1° Plotone
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