Avevo già quarant’anni quando entrò nella mia vita Palmira Taddei, in un mattino come tanti, un mattino d’inverno, per la precisione. Sulla campagna era calata d’improvviso una nebbia fredda e compatta che aveva cancellato ogni parvenza di vita. Anche i rumori sembravano come sprofondati in un silenzio sospeso. Poteva essere l’immagine della mia vita, ma di questo non ero pienamente consapevole. Non ancora; sapevo unicamente di essere un uomo solo, anzi, meglio, un uomo solitario. Nel corso degli anni me ne ero fatta una ragione e un vanto: fisicamente poco attraente, caratterialmente introverso, più propenso al rigore dello studio che alla vanità dei salotti o all’ipocrisia delle confessioni religiose.
Il mio ceto probabilmente esigeva inclinazioni ben diverse, interessi più materiali, frequentazioni nobili, relazioni pseudo amorose finalizzate al consolidamento di alleanze e patrimoni. Non era questa la vita che avevo scelto: l’esaltazione del conoscere, la sicurezza della scienza avevano accompagnato i miei giorni e festeggiato i miei compleanni nella grandiosa e vuota dimora di famiglia nella campagna reggiana, dove ero io solo a testimoniare la nobiltà di una casata ormai in estinzione.
Era dunque un gelido mattino dell’inverno del 1890 e io partecipavo come coordinatore scientifico al Congresso che avrebbe cambiato per sempre la mia vita. In quel periodo il fermento in campo medico-sanitario e nuove conoscenze avevano portato trasformazioni radicali nella vita delle persone. Le Leggi emanate negli ultimi anni andavano in quest’ottica e facevano intravedere la possibilità di miglioramenti sostanziali.
Gli interventi dei relatori si stavano succedendo senza suscitare in me particolare interesse: il lavoro di formazione era agli inizi e spesso, al di là di entusiasmo e dedizione, le conoscenze erano incerte.
Fu la sua voce a riscuotermi: una voce chiara, gioiosa, incredibilmente giovane, una voce che d’incanto spazzò via l’inverno.
“Mi chiamo Palmira Taddei e sono una levatrice. Rappresento qui la Società Italiana delle Levatrici costituitasi nel 1888 a tutela della professione. Prima della relazione, permettetemi di ringraziare chi mi ha condotto fin qui: Desolina Barazzoni sposa devota e da poco vedova addolorata di Dentorio Taddei, mia madre e mio padre”.
Stavo già per pentirmi di quell’interesse concesso quando la voce, dopo una breve pausa, continuò.
“È di lei che voglio parlare qui. Desolina Barazzoni, mia madre, è stata una levatrice di campagna. Per tanti anni è entrata nelle case dei contadini e dei signori, dei poveri e dei ricchi testimone della loro discendenza, ha conosciuto i segreti più intimi, ha condiviso felicità e tragedie. È stata, nella sua semplicità, una donna importante perché aiutava a dare la vita. Questo lei ha fatto con l’amore immenso che la Fede ha sostenuto anche nei momenti più difficili. Questo lei mi ha insegnato senza libri né parole inutili, ma con i suoi gesti sicuri e attenti, con la luce dei suoi occhi a ogni primo vagito di un nuovo nato. Il mio percorso professionale si è arricchito di nuovi saperi: so come assistere le partorienti, quali cure igieniche adottare nei confronti di madri e figli, quali strumenti utilizzare. Il Regolamento ministeriale da poco emanato specifica diritti e doveri della nostra professione. Ma questo è sufficiente a fare di me l’erede degna di Desolina e delle tante altre levatrici del passato? Si può coniugare l’amore per la vita con la scienza e come è possibile raggiungere questa fusione?”.
Non ho ascoltato altro, non potevo staccare gli occhi da quella giovane donna. Mi emozionava tutto di lei. Il lieve movimento del suo corpo mentre parlava, così fasciato dalla camicetta bianca e dalla lunga gonna scura, eppure morbido e tenero. E il candore della sua pelle e i suoi capelli ramati e quello sguardo serio, ma allegro nello stesso tempo. Come avevo potuto vivere senza di lei? Come potevo pensare di farlo ora?
Più tardi qualcuno ci ha fatto conoscere:
“Signorina, ho il piacere di presentarle una persona davvero speciale, il conte Giovanbattista Arlottini Grimaldi, illustre professore e ricercatore in campo medico, nonché letterato e insigne benefattore e…”
“Piacere, Palmira Taddei, solo una levatrice”, ha interrotto lei con un sorriso ironico.
Non ci siamo più lasciati. Io l’ho amata subito e lei, ancora mi stupisce questo, ha ricambiato il mio amore in modo appassionato. Abbiamo vissuto nella grande casa diventata un luogo vivo e un punto di riferimento non solo per studiosi e intellettuali, ma anche per le persone comuni. Palmira era instancabile nell’insegnare, nel diffondere le sue conoscenze sanitarie ai contadini della zona, nel sostenere le donne madri sole, nell’occuparsi degli orfani.
Desolina ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita insieme a noi, discretamente ci è stata accanto e discretamente è morta all’alba di un giorno d’estate recitando il rosario. Ho voluto scrivere io il necrologio, parole semplici come semplice era lei, parole che ricordassero il suo amore per la vita.
“Ogni nuova vita, nasce un nuovo mondo. Ecco il frutto del vostro Amore.” Con queste semplici parole la piccola vita appena sbocciata passava dalle braccia della levatrice al primo abbraccio materno. L’atto di Fede, in ringraziamento della SS Vergine e Gesù, sanciva la fine di un giorno felice. E cosi ogni giorno, stagione dopo stagione. Genuinamente dolce e premurosa, sensibile e generosa la levatrice Desolina Barazzoni vedova Taddei, ha terminato serenamente in preghiera l’ultima stagione della sua vita. Da tutti noi che vi abbiamo amato su questa terra. Grazie Mamma!”.
Gli anni della felicità sono trascorsi in fretta, qualche volta penso sia stato tutto un sogno. Un sogno avere conosciuto Palmira, un sogno averla avuta come sposa, un sogno aver accarezzato il suo corpo e baciato le sue labbra, un sogno aver sentito la sua voce sussurrarmi parole d’amore, un sogno essere riuscito insieme a coniugare la scienza con l’amore per la vita.
Lei è morta d’inverno. Mentre tornava a casa dopo aver assistito una giovane donna a mettere al mondo il suo decimo figlio, il calesse si è rovesciato.
Noi non abbiamo avuto figli nostri ed è difficile ora sopravvivere in questo buio dopo aver conosciuto la luce di una primavera radiosa.
“26 maggio 1899
Palmira perché? Mi manca tutto di te. Mi manca il tuo senso della Famiglia, che aveva radici profonde. Tra noi, fino dal primo istante, è nato un coinvolgimento di qualità ricettive e dipendenti. Perché ci sentivamo una sola persona. Sento il bisogno della tua sensibilità verso i miei sentimenti per avere fiducia in me stesso. I nostri sentimenti, un segreto mondo nel quale è scomparsa la pietra angolare. Accettavi le tue emozioni e le esprimevi in maniera diretta. Ti sforzavi di vincere la paura della tua vulnerabilità per accrescere la sicurezza e le certezze personali, le nostre certezze. Torneremo presto insieme, nel sonno che ora ti ha strappato a me. Quando sarà quel momento, per il mondo basterà una semplice scritta con i nostri due nomi”.
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