Un racconto di Paola Brovidi – Luca Gallina – Cristina Insaghi – Marisa Istrino
Mario non poteva chiedere di più. Al compimento dei suoi diciotto anni aveva superato la maturità, ricevuto in regalo una Fiat 500 con tettuccio apribile, e la cartolina rosa di chiamata alla visita di leva classe 1950.
Stefano, amico da sempre di Mario, cinque anni più giovane di lui e unico ammiratore che aveva a Milano in quegli anni, fu il primo a salire. Restò a terra invece Ginevra, che iniziava a frequentare il ginnasio, ed era innamorata persa di Mario. Salito in macchina Stefano, Mario gli comunicò la sua decisione, si sarebbe iscritto all’Università per rimandare il servizio militare. Il giovane amico gli confermò la sua solidarietà e accese la radio per ascoltare “Bandiera gialla” assieme a lui. La classifica era sempre la stessa con posizioni alternate, da un paio di settimane:Gimme Little sign – Brenton Wood; The ballad of Bonnie & Clyde – George Fame; Deborah – Wilson Pickett; Words – Bee Gees; Lady Madonna – Beatles. Per le italiane una canzone, una per tutte: Vengo anch’io, no tu no di Enzo Jannacci. Stefano, riusciva a far parlare tranquillamente l’amico più grande di lui e fargli anche domande personali del tipo: hai mai fatto l’amore con una ragazza? E pur non ricevendo una risposta diretta ascoltava volentieri il nuovo racconto del momento. Mario cominciò a raccontare e non si accorse di aver cambiato la prima versione di quella storia. – Ho conosciuto l’amore vero per la prima volta, disse, ma lei non lo sa ancora. Stefano, in realtà, un primo nome l’aveva già sentito, Ginevra. Mario nel pomeriggio sarebbe andato invece a prendere Tiziana, che aveva conosciuto al mare l’anno prima. Tutto era pronto. Il pieno di benzina alla macchina, il sedile lato guida tirato indietro e l’immancabile fiore, un tulipano bianco. Un’ultima sistemata ai capelli e alla dolce vita di cotone aderente alla pelle. Scese dalla macchina per ricevere il suo primo e vero grande amore della vita. Tiziana salì in macchina, si scambiarono un bacio affettuoso sulla guancia, e subito partirono per il mare della Liguria. Una domenica certamente indimenticabile. Non solo per loro due.
Tiziana, quasi estasiata, si accomodò meglio sul sedile della 500 a fianco dell’amico. Il tulipano bianco nella mano mentre con l’altra sistemò la gonnellina corta a pieghe con una certa ritrosia e imbarazzo. Sapeva benissimo, nonostante i suoi quindici anni, di avere già un fisico esuberante, le forme giuste desiderabili e di non essere del tutto indifferente a Mario. Anche a lei piaceva quel ragazzone sportivo che giocava a tennis come Pietrangeli, esuberante, biondo, con gli occhi azzurri e che sciava benissimo. Un mito per lei e si divertiva moltissimo a fare la civetta con lui. Maglietta a righe bianca e azzurra con maniche corte, leggermente scollata, non troppo aderente, morbidamente adagiata sui seni rotondi e sodi già ben sviluppati, gonna blu a pieghe, corta sopra il ginocchio di un palmo di mano abbondante. Le gambe nude lunghe e ben tornite e ballerine basse blu. Biondi capelli al vento trattenuti solo da una fascia azzurra. La classica ragazzina di buona famiglia e ben educata che andava a scuola dalle suore Orsoline.
Mario guidava con fare sicuro per dimostrare che era ormai grande, aveva conseguito la patente e la maturità, era stato convocato per i tre giorni alla visita di leva. Che anno! Adesso tutte le ragazze lo avrebbero guardato con più rispetto. Ogni tanto sbirciava Tiziana e allungava delicatamente una mano per sfiorarle un ginocchio, per farle sentire la sua presenza fisica ma anche per verificare i suoi fremiti al tatto quando la sfiorava.
Tiziana pensava a tutte le bugie che aveva detto a sua madre per avere il permesso di fare quella gita al mare con questo ragazzo che le faceva battere il cuore. – Mamma devo andare a Varazze con due compagne di classe, ci accompagnerà il papà di Cristina. Stai tranquilla, le aveva detto, dobbiamo fare una ricerca geografica, ci dedichiamo allo studio dei resti marini sul litorale ligure.
Tiziana era in ansia accanto a Mario e si domandava se avesse fatto bene ad accettare di andare sola con lui. Aveva voglia di abbracciarlo, baciarlo e scambiare tutte le tenerezze di cui le avevano parlato le sue amiche, però era anche timorosa perché lui era più grande e sicuramente voleva di più… voleva fare l’amore con lei. Ogni tanto arrossiva, faceva la timida, la riservata. Mario si eccitava sempre di più e non vedeva l’ora di sdraiarsi seminudo accanto a lei in spiaggia. Finalmente arrivarono a Varazze. Che sollievo.
Erburin, erburin, erburin. Cotto, prosciutto cotto, cotto. Erburin, erburin. Chissà se è già arrivato Mario. Proprio ora doveva mandarmi a fare la spesa? – pensa Stefano – che, poi, lei è dal parrucchiere a farsi cuocere la testa in quel casco, per uscirne con un panettone in testa. Erburin, erburin. Cotto, cotto. Quando entro nel negozio la signora mi saluta con quel suo ciao giovanotto! Sovrasta i ripiani in vetro con le sue forme abbondanti, poi, mani sui fianchi, mi chiede di cosa ha bisogno la mamma. E qui ogni volta entro in crisi. Regolarmente non mi ricordo se il prosciutto che serve, è quello cotto o quello crudo. Sì, perché quello cotto è per i bambini mentre quello crudo è per il papà. Ora se prendo quello cotto e sbaglio, chi la sente la mamma? E poi il papà che si lamenterà della cena! Se prendo quello crudo, che non mi piace, la piccolina di casa non riesce a mangiarlo e quindi ci sarà in più un sacco di lagne. Poverina, tuo fratello non capisce niente… Eppure cerco di ripetermelo per non dimenticarmelo, ma quando arrivo qua, è la nebbia, sì una bella nebbia come quelle che si vedono solo a Milano, ma nel cervello! Due etti di prosciutto crudo. Mi lancio e so già di aver sbagliato. Cavolo! Preso il pacchettino con tanto di fiocchetto, proseguo verso il fruttivendolo è qui che mi sento il più stupido fra tutti i bambini della città. Non mi ricordo più cosa devo comprare, mi guardo attorno e cerco con gli occhi. Se lo vedo, glielo indico. Niente da fare, perché mi parla in milanese e vuole che io parli in lingua italiana? Stefano (in milanese) cosa ti occorre? Il signor Luigi ci conosce da anni e sa che cosa vuole la mia mamma e che io regolarmente mi dimentico. Alla mamma serve il mazzetto di prezzemolo? Già prezzemolo per la minestra di questa sera. Ora non mi rimane che il prestinaio e qui è facile, quattro belle michette dorate, per favore. Un sorriso sporco di farina. La caramella golia è sempre appoggiata sul banco vicino al sacchetto del pane. A quest’ora Mario sarà arrivato. Lui sì, che ha i pantaloni lunghi, non come me che ho ancora quelli corti e che ogni volta che cado le ginocchia mi diventano crostose e mostruose. Chissà, magari per il mio compleanno o per la licenza di scuola media, la mamma me ne regalerà un paio. Io mi vergogno un po’ ad andare alla scuola media con i calzoni corti, tutti mi prenderanno in giro, soprattutto le femmine. Se Mario è arrivato, si può andare a tirare quattro calci al pallone al campetto, magari ci sono anche gli altri. Mario, l’ho visto con la cravatta, una importante come quella di papà, non quella a farfallina del vestito della prima comunione che ho io. Magari Mario non è ancora tornato, l’ho visto che saliva nella sua nuova macchina. Le femmine, la Ginevra e la Tiziana lo fermano e ora che è anche motorizzato, se ne andrà sempre in giro con loro. Io non capisco che cosa ci trovi in quelle due. Parla d’amore, ma un po’ mi mancano le nostre partite a pallone. Quelle due si danno un sacco d’arie. Ridacchiano, con la mano sulla bocca, uffa, cosa avranno poi da ridere? Invece Mario dovrebbe portare me a fare un giro, certo che dovrei chiedere il permesso alla mamma. Forse, mi direbbe di sì, Mario è così un ragazzo per bene, responsabile, che andrà all’università, perché dovrebbe dirmi di no? Anch’io andrò all’università, e mi comprerò una bella fuoriserie e ci porterò le ragazze più belle di tutta la città, altro che la Tiziana e la Ginevra. Suonerò il clacson sotto casa per far sentire a tutti il mio arrivo. Uffa! E poi diventerò un pilota di auto da corsa e vincerò tutte le gare e ci saranno un sacco di coppe in camera mia. Uffa! Mario non c’è, non è ancora tornato, niente pallone. Ginevra, eccola lì, accidenti e ora che faccio?
– Ciao, Stefano. – Ciao Ginevra.- Sei stato a fare la spesa? Hai visto Mario? – No, no, non l’ho visto oggi giuro. Tutte le volte, pensa Ginevra, devo incontrare questo moccioso con i pantaloncini corti e devo chiedere sempre a lui di Mario. Così tanto per darmi un tono. In fondo non me ne importa proprio nulla di quelli più grandi di me. È solo la curiosità di vedere la sua macchina, a me fa una paura fottuta salire sulle macchine e sulle moto, ma non voglio confidarlo a nessuno neanche sotto tortura. Forse più avanti, tra qualche anno sarà naturale, ma non ora. Devo tornare a casa perché mamma si arrabbia. Ci tiene al rispetto degli orari. Quando papà rientra, si deve essere tutti in casa e pronti per la cena. Papà la sera è sempre stanco e non ha voglia di sentire lamentele, già deve ascoltare mamma con tutti i problemi che secondo lei ha affrontato nella giornata.
Mentre voltavo in senso inverso lasciando il moccioso impacciato con i pacchettini del salumiere tra le mani, pensavo che adesso dovevo prepararmi ad affrontare la portinaia. L’avrei trovata a controllare, a spiare quelli che passavano, e soprattutto che i ragazzi non salissero sull’ascensore. Con quel suo faccione rotondo e il fisico robusto si sarebbe messa davanti alla porta e non mi avrebbe permesso di salire.
– A piedi devi salire. A piedi, è scritto sul regolamento, lo dico a tuo padre.
E chi se ne frega, lo dica pure ai miei, tanto uno scappellotto in più non mi avrebbe certo rimbambita. Fare sette piani a piedi non è piacevole, ma io come il solito avrei preso l’ascensore al secondo piano. E lei facesse quello che voleva.
Appena superato il pesante portone di legno e vetro, la passatoia rossa arriva diritta alle scale, dove c’è la guardiola. La Gianna, la portinaia, è voltata di schiena, sta china sopra la culla mettendo in mostra il suo culone. Il piccolo strilla con tutto il fiato che ha. Velocissima supero la portineria e schiaccio il bottone per chiamare l’ascensore. Non l’avessi mai fatto! Una furia, esce con tutti i capelli per aria, gridando manco la stessi strangolando, anche se qualche volta per la verità l’ho pensato. – Questa volta non la passi liscia, augurati solo che tuo padre rientri tardi, ma se non è oggi… prima o poi lo vedo!
Non mi resta che fare le scale a piedi. Primo piano. Quasi, quasi suono un campanello. Poi desisto, è meglio starsene buona per questa sera. Secondo piano, e intanto penso a come affrontare l’argomento scuola. Io non voglio frequentare le superiori, andare al ginnasio, voglio fare una scuola d’arte. Sogno una vita da pittrice, voglio iscrivermi all’accademia. In casa però non sono d’accordo. Mio padre parla degli artisti come se fossero degli sfaticati, sempre che non siano dei Fontana, dei Carrà… Terzo piano. Mi siedo sui gradini. Quasi quasi per dimostrare quanto sono brava e che ho stoffa, disegno sui muri di ogni piano qualche soggetto, che idee che mi vengono per la testa! Le ultime rampe di scala le faccio quasi di corsa, sono talmente presa da questi pensieri che mi ritrovo davanti al mio appartamento. Suono. Mi apre mia madre, come il solito. Sta cucinando. Si sente odore di arrosto. Non mi piace la carne. Chissà se ci sono le patatine, quelle sì che le mangio volentieri.
– Ginevra, dovresti andare in portineria, è arrivata una lettera, ha citofonato adesso la Gianna. – Ma sono appena salita, perché non ci vai tu?
– E non rispondere sai, eppure ti ho insegnato l’educazione, non vedi che sto preparando la cena?
– Va bene, vado. Uffa però!
Mentre esco dall’ascensore, la signora Gianna sta chiudendo a chiave la guardiola della portineria per salire a casa nel mezzanino. Non so se chiamarla e farmi scoprire o lasciar correre. Decido di rientrare nell’ascensore, e schiaccio il pulsante. Cerco una scusa da raccontare a mia madre che mi aspetta sulla porta di casa.
– Non solo sei venuta su senza la posta, ma anche comoda, eh! Ha proprio ragione la custode!
Meglio tacere, lascio che si sfoghi.
– Attenta a quello che fai. Più tardi quando arriva tuo padre, facciamo i conti!
– La lettera la ritireremo domani… mammina dammi un bacio. Pace fatta?
– Quale pace, tuo padre aspetta una risposta molto importante per la sua carriera!
Il Movimento Studentesco all’Università Statale di Milano continuò anche nei primi anni ’70 a infervorare e motivare il dibattito, sia di sinistra sia di destra, su cosa fosse giusto fare per i giovani nella vita sociale e familiare. In questo clima era difficile per gli studenti frequentare regolarmente le lezioni all’università. Mario, nonostante tutto, riuscì a laurearsi e a partire per il servizio militare. Aveva fatto domanda, accolta, di entrare come allievo ufficiale nell’esercito. Presto sarebbe dovuto andare per due anni a Pisa, assegnato alla gloriosa Brigata Folgore. Per prima cosa decise di comunicare a Stefano la bella notizia, proprio ora che il suo giovane amico, classe 1955, stava a sua volta sottoponendosi ai tre giorni di leva presso l’ospedale militare di Baggio. Tiziana, nel frattempo, era diventata una giovane promettente étoile del Teatro alla Scala di Milano.
In quei giorni arrivò a Mario una telefonata inaspettata da parte di Tiziana:
– Amore mio, voglio vederti subito!
I due s’incontrarono nel pied à terre sottotetto a Brera, dove si erano dati il primo bacio e non solo.
– Volevo chiamarti io per comunicarti una buona notizia e tu mi precedi.
– Devi assolutamente venire al mio saggio d’ingresso domani. Ballo nello Schiaccianoci di Ciaikovskij.
Fu sufficiente guardarsi intensamente negli occhi. Si abbracciarono appassionatamente sdraiati sul divano, sotto la copia della ballerina di Degas appesa alla parete e si dissero di sì. Mario, però, non riuscì a comunicarle l’imminente distacco. Chissà come lei avrebbe preso la notizia. Tiziana aveva da poco compiuto i ventuno anni ed era ormai perdutamente innamorata di Mario, il suo primo grande amore: aveva condiviso con lui tutto, i primi baci, le prime carezze, la fede politica. Sì perché Mario era inserito nei Comitati studenteschi dell’Università ed era stato il suo tutor anche in questo, aveva risvegliato la sua coscienza sopita dal benessere ovattato della sua famiglia, l’aveva fatta crescere e prendere atto di certe problematiche sociali. Quando Tiziana discuteva con i suoi genitori, terminava sempre la frase con: -Anche Mario dice così… – oppure – fa così…- è giusto perché Mario pensa che…-. Papà e mamma si guardavano con complicità pensando comunque che dopo tutto era un ragazzo di buona famiglia e rappresentava un buon partito per la figlia. Speranzosi che di lì a poco tempo la loro storia d’amore terminasse con un bel matrimonio come si conviene tra due famiglie borghesi e benpensanti. Ma già si percepiva benissimo che il vento di rinnovamento culturale e sociale scaturito dal ‘68 stava dando i suoi frutti nel modo di pensare sia dei ragazzi sia delle giovani donne e per i genitori era difficile accettare e comprendere questo cambiamento di costumi.
Tiziana, finito il liceo, aveva convinto la famiglia che il suo percorso non era quello scontato di professoressa di lettere, come avrebbero voluto loro, bensì continuare con la danza classica, disciplina in cui si cimentava sin dall’età di sette anni con successo. Si era impegnata con esercizi estenuanti alla sbarra che duravano per ore. Un grande impegno fisico e mentale che le aveva consentito di superare le selezioni per entrare a far parte del corpo di ballo della Scala.
Quella sera in cui lei e Mario fecero l’amore per la prima volta nel sottotetto bohemien di Brera e si giurarono eterno amore, nessuno dei due ebbe il coraggio di dire all’altro quali fossero i rispettivi progetti per i mesi futuri. A Tiziana era stata offerta l’opportunità di andare all’estero per una tournee con il corpo di ballo della Scala e poi… chissà. Nemmeno i suoi genitori, cui non aveva ancora detto nulla, si aspettavano una figlia così ambiziosa! Proprio loro che avrebbero voluto vederla felicemente sposata magari con Mario e con due o tre marmocchi che le ballavano in giro.
Riformato! Riformato per insufficienza toracica! Bene! Era quello che speravo. Che disonore! Ora che ho accontentato papà con il diploma di ragioneria, me ne vado! Viva la libertà! Basta con queste menate sui miei capelli lunghi, su come mi vesto, sulla musica che ascolto. – Stefano abbassa quello stereo! Stefano, e questa la chiami musica? Per me è solo rumore! – Devo solo comprare il biglietto aereo. Orecchini, collanine, ho passato le mie serate a fabbricarli, i miei pomeriggi e venderli alle ragazze che entravano e uscivano dall’Università Statale. Ho scaricato cassette di frutta e verdura dai camion dell’ortomercato a ore pazzesche per tutto l’inverno, ho lavato le auto di tutti i condomini della zona. E ora ho giusto i soldi per il biglietto, poi là si vedrà. India, Bombay e poi Calcutta, Kathmandu, e poi chissà. In tanti sono partiti prima di me: raccontano una vita diversa, un mondo migliore. Un mondo di pace, senza confini, dove possiamo sentirci tutti fratelli. Sì, la mamma piangerà un po’. Povera mamma, quando entra in camera mia, guarda con occhi pieni di nostalgia la foto del primo giorno di scuola del suo bambino. Poi, le scivolano gli occhi sulle pareti della stanza tappezzate con i poster dei miti di musica rock. –Stefano, ti droghi? Che puzza che fanno quelle sigarette che fumi!- Per il papà sarà un colpo, lui così integerrimo. Ordine, disciplina, questo è bene, questo è male. La mamma ce la mette tutta per mediare tra me e lui. Devo assolutamente incontrare Ginevra, devo dirglielo che c’è l’ho fatta! Mario mi dirà che sono un pazzo. Ora devo pensare assolutamente allo zaino, alle cose che voglio portarmi via: il sacco a pelo, il materassino, l’armonica a bocca, il mio diario, e la foto dei miei amici scattata con la polaroid di Mario, il Siddharta di Hermann Hesse. Mario ci rimarrà male, ma in fondo lo sa che questo era il mio desiderio più grande. Ginevra, Ginevra dove sarà? Voglio comunicare proprio a lei la mia gioia, lei sì che mi capirà. E poi, Mario ha Tiziana, loro si sposeranno. Sono una bella coppia da sempre. Lui ha un grande futuro che lo aspetta. Io in banca non ci voglio finire: tra quei colletti bianchi, in giacca e cravatta a contare i soldi.
Ginevra era in piedi di fronte alla finestra della sua camera e guardava distrattamente la pioggia che da diverse ore si riversava sulla città. Un temporale, di quelli che anticipano l’autunno. Lampi, tuoni, fulmini. Le facevano ancora paura, come da bambina. L’estate ormai stava finendo e un altro anno se ne stava andando… Già. Pensava a come sarebbe continuata la sua vita. Ci pensava, ma in fondo non le interessava molto. Intanto era riuscita a ottenere quello che voleva. Il diploma all’accademia, dopo averlo conseguito, era finito in fondo al baule con tutte le cose passate. Per il momento aveva trovato lavoro al bar di fronte a Brera. Così continuava a incontrarsi con i giovani studenti e spesso partecipava assieme a loro alle mostre collettive. I vecchi professori con cui aveva studiato la invitavano ai dibattiti che si tenevano in accademia per tenersi aggiornata in campo artistico. Il ’68 aveva portato diversi cambiamenti e persino sua madre se ne era accorta. – Ormai le donne fumano e guidano la macchina, come fossero degli uomini -, aveva commentato. Intanto anche lei del nuovo si era presa quello che le faceva comodo. Ottenuto il divorzio, viveva una seconda vita. Comunque era vero, la corsa alle automobili era iniziata, tutti possedevano un’automobile. Solo lei continuava a usare la sua vecchia bicicletta. Sapeva di non essere capita e per la verità neanche lei si capiva molto. Dove sarebbe arrivata? Aspettava. Qualcosa in futuro sarebbe successo. Solo Stefano sembrava capirla. Quel moccioso. Se lo ricordava con i pantaloncini corti, poi un giorno all’improvviso le era capitato di fronte con i pantaloni lunghi e cresciuto. Si erano guardati come se si scoprissero per la prima volta, senza parlare e in quel momento avevano capito che la loro intesa era totale.
Uno sguardo all’orologio. Era ora di andare a lavorare. Prendere la bicicletta? Neanche a pensarci, pioveva troppo forte. Sul portone aprì l’ombrello e velocemente si diresse alla fermata del tram.
-Signorina, signorina. La voce le sembrava di riconoscerla. Si voltò per vedere da dove proveniva. Di fronte, sul marciapiede opposto c’era Mario che la chiamava. Le fece un cenno con la mano per far capire che l’aveva visto. In due minuti era già vicino a lei. – Ciao Ginevra. – -Ciao Mario, non ti vedo da molto tempo. – -E’ vero, ma dove stai andando?- -Forse tu non lo sai, lavoro al bar di fronte a Brera, oggi ho il turno serale, inizio tra poco e termino a mezzanotte- -Hai qualcuno che ti aspetta quando esci?- -Se intendi dire se ho un ragazzo, no, non ho un ragazzo.- -Allora, vengo a prenderti all’uscita, a mezzanotte. Ciao ci si vede più tardi. — Ciao -Nel frattempo il tram è arrivato. Salgo e mi ritrovo a pensare a Mario. La malinconia che mi era piombata addosso intanto si è allontanata. Mi capita sempre così. E’ che mi piace andare a lavorare. Che strano incontrarlo! Me lo ricordavo spavaldo e sicuro di sé, sempre a correre dietro alle ragazze, adesso tutto bagnato fradicio con l’acqua che gli colava da tutte le parti, mi ha fatto tenerezza. Mi è sembrato più vulnerabile, più fragile. Ho un appuntamento, incredibile, ho finalmente un appuntamento! Ed è capitato così, io che odio dare gli appuntamenti ai ragazzi, non ho potuto evitarlo e forse neanche volevo evitarlo. Sono curiosa di vedere cosa succede e perché mi vuole vedere. Da lontano, da qualche parte, qualcuno sta cantando una canzone di Adriano Celentano … —-Questa è la storia di uno di noi, nato per caso anche lui in via Gluck.– E intanto sta terminando di piovere. Tra qualche ora sarà mezzanotte.
Mario arrivò puntuale, entrò nel locale e si mise a sedere vicino all’entrata: tavolo all’ingresso sicuro successo! Questo era il suo motto con gli amici: mettersi bene in vista; e lui la sua sporca bella figura la faceva sempre. Mi sedetti anch’io, come una normale cliente. Prima lui, però, si alzò quando mi vide arrivare e mi baciò sulla guancia; guardandomi fisso negli occhi, mi disse:
– Accomodati, pure, ti devo parlare. –
– Che cosa avrai tanto d’importante da dirmi?- risposi sorridendo.
– Ascoltami bene, è importante, devo sapere cosa c’è esattamente tra te e Stefano.-
– Curiosa la tua domanda, dove vuoi arrivare?-
– Desidero chiederti se ci tieni veramente a lui. –
– Ora basta con queste domande, perché sei qui?-
– Allora ti porto da lui e capirai meglio. –
Stefano aveva confidato all’amico Mario di voler vedere Ginevra a qualsiasi ora, assieme a lui. Avrebbe avuto più coraggio nel comunicarle la notizia della sua partenza per il lungo viaggio fissato a giorni.
Aveva appena finito di piovere. Una leggera nebbiolina disturbava parecchio, sia per la visibilità, sia per il freddo, il viaggio in lambretta a quell’ora di notte, verso la periferia poco illuminata, di Milano. Stefano abitava al Giambellino in un monolocale di una casa popolare, che lui occupava dalla morte della nonna materna. Andava spesso a dormire lì a leggere e a suonare la sua musica preferita. Quando arrivarono, non ci fu bisogno di suonare, Mario aveva una copia delle chiavi di casa. Un ambiente unico, con un angolo cucina e un bagnetto indipendente. Quando videro il disordine e sentirono l’odore acre di chiuso, Ginevra andò ad aprire subito la finestra. Mario si avvicinò al corpo del suo giovane amico. Stefano era disteso per terra vicino al divano con le gambe penzoloni, come se fosse rotolato giù. Che cosa facciamo, si dissero, quasi senza fiatare per la paura. D’istinto entrambi s’inginocchiarono verso il loro amico, lo presero per le ascelle e le gambe, lo distesero sul divano. Mario provò ad auscultarlo aprendogli la camicia, madida di sudore, misurò le pulsazioni guardando l’orologio: un battito flebile del cuore. Era molto pallido, puzzava d’alcool e di fumo in modo molto sgradevole. Non rimaneva che chiamare l’ambulanza d’urgenza. – Dov’è il telefono? Il telefono, porca miseria, dov’è?- si misero a gridare all’unisono. Lo trovarono dalla vicina di casa. L’ambulanza arrivò dopo mezz’ora, Stefano era salvo. In ospedale lo tennero in osservazione per qualche giorno: dagli esami clinici risultò che aveva bevuto alcolici e che faceva uso di droghe leggere, un mix fatale d’arresto cardiaco se non fosse stato salvato in tempo. Il mal di vivere aveva colpito ancora! Mario d’allora non vide più il suo giovane amico. Qualche giorno prima si erano abbracciati lasciandosi per destini diversi: ad maiora, si dissero. E anche di Ginevra non seppe più nulla.
Mario doveva partire per Pisa quella settimana. Pensò bene di fare una sorpresa a Tiziana, che non vedeva da più di un mese. Lei non l’aveva chiamato assiduamente come prima e non gli aveva nemmeno detto che era partita con la compagnia di danza classica, per una breve tournée in Italia. Mario decise di andare a trovarla a casa, una bella sorpresa, davvero! In portineria chiese di avvisare la signorina. Poteva salire. Venne ad aprire il maggiordomo.
– La contessina è appena tornata dal maneggio, la prega di accomodarsi.
– Grazie. Tenga per favore, li può sistemare lei?
Un mazzo bellissimo di tulipani, assortiti nei colori bianco, rosso, giallo e ornato di molto verde legato da un fiocco oro con la scritta, noi due per sempre! Mario si accomodò in un piccolo salotto comunicante con lo studio libreria. Mentre aspettava, non poté fare a meno di sfogliare una rivista patinata appoggiata su di un tavolino e scoprire che la prima ballerina della compagnia di danza classica, Tiziana Aldovrandi Murat, aveva dichiarato che il sodalizio artistico con il primo ballerino, Rolando Bugatti, era diventato anche sentimentale. Lasciò cadere immediatamente la rivista e uscì dal salotto per andarsene via, per sempre.
Tiziana entra nel piccolo salotto, indossando un grazioso vestito stile impero color arancio, decolleté nere con tacco basso. I capelli biondi un po’ scomposti, il suo modello era Jacqueline Kennedy che cercava di imitare. La solita icona di stile ed eleganza, dote che le era innata. Nota con stupore che non vi è traccia di Mario. Vede il giornale aperto sul tavolino alla pagina nella quale si parla di lei e di Rolando Bugatti. Comprende la sua reazione. Del resto lei conosce benissimo sin da ragazzina Mario, carattere deciso, impulsivo, se pensava di aver subito un torto si accendeva subito come un fiammifero. Solo lei sapeva come farlo ragionare, con calma, con dolcezza e facendogli le coccole. Era ancora un bambinone Mario! Ma questa volta lui aveva tutte le ragioni del mondo per infuriarsi così. Che codarda sono stata, non ho avuto il coraggio di fargli un discorso chiaro. Ora, davanti allo specchio, ripete le parole che avrebbe voluto dire. Mario, io ti voglio ancora bene, sei stato il mio Pigmalione, aiutandomi a crescere, ad affinare il mio senso critico e la mia capacità di giudizio nei confronti degli altri, a comprendere la politica, mi hai fatto uscire dal guscio e diventare una donna! Nel mio cuore tu occuperai sempre un posto privilegiato, ma ora cerca di comprendere il presente. Noi abbiamo intrapreso strade molto diverse, non condividiamo più gli stessi ideali, gli stessi interessi. Mario tu sei l’avvocato, che mi parla delle sue scartoffie legali, dei suoi processi, del senso di giustizia. Molto lodevole. Io però preferisco avere accanto a me Rolando che prova le mie stesse emozioni, quando ci teniamo stretti per mano dietro le quinte prima che si alzi il sipario. In quel momento io e lui diventiamo un corpo che si muove all’unisono, abbiamo anche la stessa anima. Ci sfioriamo con leggerezza, abbiamo quasi il timore di farci male e ci sembra di volare nella danza. Mario, questo volevo dirti: apparteniamo ormai a due mondi troppo diversi! Tiziana si guarda allo specchio mentre pronuncia con enfasi le ultime parole e vede riflessa l’immagine di Mario, che rientra nella stanza a cercare le chiavi della Lambretta lasciate sul tavolino insieme al giornale. Pallida in viso, Tiziana, gli corre incontro in lacrime per abbracciarlo, ma lui ferito nel suo orgoglio, la respinge bruscamente. Mario non può sopportare la cocente delusione del suo primo grande amore, che si aggiunge a quella che gli ha procurato Stefano allontanatosi per andare in India a cercare, diceva lui, la sua vera essenza. Mario è troppo concreto per comprendere Tiziana e Stefano.
Il tram dondolando sui binari procedeva fermata dopo fermata verso la periferia del Giambellino. Due piedi scalzi abitavano un paio di sandali di cuoio consumati, sottili caviglie e leggere gambe s’immergevano in una bruna sottana. Dall’alto un cordone scendeva catturato dalla gravità, appeso un crocifisso di legno, oscillava al ritmo del nove. Occhi quasi trasparenti guardavano il finestrino come lo schermo di un cinema, curiosi nel cercare di capire la trama di un racconto già iniziato. Tutto era cambiato, e tutto sapeva di un nuovo conosciuto. Case, palazzi, negozi riempivano ogni spazio possibile, appiccicati, sembravano non voler far passare neanche un filo d’aria. La città respirava a fatica. Auto s’incastravano nelle corsie a formare un puzzle dai colori spenti. Nulla era come prima, neanche lui era come prima. Il tempo era passato lontano da quella città, era giunto il momento di tornarci per fare i bagagli per sempre. Fratello Francesco, così ora si chiamava, sistemi le sue cose. Ha una settimana, poi sarà in viaggio per la sua nuova missione. Quella ragazza che era salita sul tram con in braccio i libri gli aveva dato un sussulto, quasi una scossa elettrica. Ginevra…è lei! No, non poteva essere lei. Impossibile incontrarla così come l’aveva lasciata tanti anni prima! Anche lei sarà cambiata, anche per lei sono passati gli anni. Quanti? Non lo sapeva con esattezza, avrebbe dovuto fare un po’ di conti con la memoria, Quando era partito per l’India era un ragazzo appena diplomato e lì si era fermato un po’, quanto? Il tempo in quel paese è strano, corre meno, forse per lasciare più tracce nell’anima. Quando era tornato, chiamato dalla sorella perché i genitori erano morti in un incidente stradale, era provato dall’esperienza indiana. A contatto con la povertà, la malattia, la mancanza di diritti, il sopruso di uomini su altri uomini e sulle donne e i bambini, non ce la faceva più, qualcosa gli aveva aperto il cuore, indicato la strada, aveva cercato prima accoglienza in un convento, poi la vocazione si era evidenziata. Frate francescano, fra i bisognosi del mondo, sempre in viaggio da una missione all’altra. Mario, Tiziana, cosa ne era stato di loro? Eccoli, ma no, non sono loro. E’ inutile continuare a cercarli fra i ragazzi che salgono affollando il tram dopo la scuola. E Ginevra? La dolce Ginevra? Quanto mi sei mancata! Ogni cosa che scoprivo del mondo, ogni luogo, cosa, persona che vedevo, ogni emozione, ogni pensiero, ogni sensazione mi faceva ritornare a te, a come avrei voluto condividerla con te, sola anima fra tante capace di capirmi. Chissà? Si ritorna in quel vecchio monolocale, per sistemare così le ultime cose prima della sua vendita. Dare così l’addio ufficiale al passato, abbandonare per sempre l’abbandonato, ma mai lasciato veramente. A pensarci l’emozione sale, ma sono tranquillo, sereno della scelta fatta. La prossima fermata è la mia, mi avvicino alla porta, quando il tram si ferma scendo i gradini lentamente e mi guardo intorno con il timore di non riconoscere il luogo dove tutto ebbe inizio. Impossibile, anche la casa ha le tracce del tempo passato: rughe profonde attraversano la sua facciata. Respiro muffa, e penso che sono felice, qualcuno ridarà vita nuova a questo posto.
Ginevra si stava guardando intorno in quel piccolo appartamento mentre ne prendeva possesso. Mario le aveva lasciato le chiavi della casa di Stefano prima di partire -Non si sa mai- le aveva detto, e lei aveva iniziato ad abitarlo, in un primo tempo per mettere un po’ d’ordine, in quel bailamme. Poi col passare dei giorni si era accorta di trovarsi bene tra quelle quattro mura. Il luogo le dava una forza che non sapeva di avere, anche i suoi lavori erano migliorati. Tutto qui dentro le parlava di Stefano. Quando era libera da impegni, ascoltava la sua musica mentre dipingeva. Le pennellate si erano fatte più sicure. Le sue tele grondavano di colori accesi. Rossi, blu, gialli, marroni, verdi, soprattutto, verdi. Perché Stefano se ne era andato senza una parola? Stupido moccioso. Lo sapeva che lei lo amava, non poteva non sapere quanto ci teneva a lui. Forse doveva seguirlo, non lasciarlo partire da solo. Queste cose se le era dette mille volte. Rimorsi, non faceva che dormire con i rimorsi. In fondo niente la legava a questa città, tutto poteva ricominciare anche da un’altra parte. Solo qui dentro provava una sensazione di pace, come se Stefano fosse anche lui in un certo modo presente. E in un certo modo lo era. A memoria aveva dipinto il quadro appeso all’unica parete libera. Il ritratto di lei e Stefano mentre si tenevano per mano, due adolescenti che s’incamminavano su una lunga strada senza fine.
Anche questo doveva finire, si disse Ginevra. Non poteva continuare a tormentarsi. La sua vita ormai era nelle sue mani. Sola, era sola. Mamma all’estero con il suo nuovo amico alla ricerca dell’eterna giovinezza. Dei suoi vecchi compagni, ormai si erano perse le tracce. Che cosa avrebbe fatto della sua vita? Che cretina, girava sempre intorno alla solita domanda, e alla solita risposta possibile. Non m’interessa.
Iniziò una nuova tela, l’unico modo per sentirsi bene. Dipingere la rilassava. Anche questa volta si sarebbe estraniata dal presente per vivere in un’altra dimensione. La pittura era la sua droga. Come Stefano, a suo modo, riusciva anche lei a isolarsi.
E basta! Non se ne può più, con questo strazio! La sua testa si stava ribellando, ormai stufa di ragionare in senso unico. In fondo Stefano ha fatto una scelta, giusta o sbagliata. Ha preso comunque una decisione e senza consultarmi. Spero solo che sia felice. Da oggi si cambia. Per prima cosa, la casa, solo adesso mi accorgo che non arriva mai il sole in quest’appartamento, mentre fuori è una giornata splendida. Cercherò una casa in affitto ai piani alti per avere tanta luce per dipingere. La casa di mamma, no, prima o poi tanto anche lei ritorna con i piedi per terra. La valigia era rimasta per tutto questo tempo appoggiata in un angolo come un pezzo di mobile. La prese, lo appoggiò sul letto e iniziò svogliatamente a riempirla. Questo no, non mi appartiene, questo invece potrei portarlo per ricordo. Ginevra, si cambia vita, l’hai capito o no? Cresci una buona volta! Seguire sempre il proprio istinto! Prendo solo le poche cose che avevo portato. Un ultimo sguardo per vedere se c’è tutto. Un colpo secco al coperchio…e via! Controllo il gas. Contatore chiuso. Spengo la luce. Chiudo la porta. La chiave la lascio in portineria. E’ inutile fare la dura, una lacrima scappa. Non voglio piangere, non lo permetto! Con decisione senza voltarmi scendo le scale. La portiera sta parlando con un giovane frate. Con le chiavi nella mano sinistra, la valigia nella destra e sotto il braccio le tele mi avvicino al vetro per lasciare cadere le chiavi di là del divisorio. Per un attimo il mio sguardo incrocia lo sguardo del frate. Poi con un saluto veloce mi allontano ed esco dal portone. Ginevra non si accorge che il frate nel vederla è diventato tutto rosso e che velocemente fingendo di cercare qualcosa nelle tasche del saio abbassa la testa, poi non appena lei supera la soglia della porta la segue con lo sguardo fino a perderla. Istintivamente e vergognandosi per questa sua debolezza fa qualche passo per fermarla, poi, come sempre per cancellare i ricordi che ogni tanto riaffiorano, con la mano stringe il crocefisso e inizia a pregare.
Ginevra sta arrivando lentamente alla fermata del tram appoggiando di tanto in tanto la valigia per terra. Un ultimo saluto alla casa, mentre il nove si sta avvicinando. Solo in quel momento ricorda di avere dimenticato la tela appesa al muro nel monolocale. Non c’è più tempo e in fondo meglio così. La tela appartiene ormai alla casa e non a lei! E se Stefano fosse tornato…
Un ultimo sforzo per prendere il tram. Mentre sta salendo i gradini sente una voce familiare che da qualche parte nella sua mente le ricorda qualcuno e che la sta chiamando. Si volta. Dalla parte opposta della strada Mario con una valigetta sotto il braccio si sta sbracciando per salutarla.
-Ginevra! Dove stai an…- La voce si perde. Lo sferragliare del tram la sovrasta. Ginevra non ha più tempo. Al bar dove lavora, la stanno aspettando.
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