Per Io, Caligola è inevitabile partire dalle polemiche che hanno accompagnato la fortuna artistica (e non solo) di quest’opera. Che ha tanti padri (nobili e ignobili) e ancor più numerosi figli spuri. L’annosa questione si è riproposta ancora una volta, puntuale come un esattore delle tasse, al Festival di Cannes 2023 quando, sulla Croisette, è stata proposta tra i “classici” una nuova (se così si può dire) edizione di 2 ore e 37 minuti del film ottenuta rimontando il materiale giacente nell’archivio della casa editrice Penthouse. Definita Ultimate Cut ossia versione definitiva. Puntuale, la polemica, per l’immediata presa di distanza da parte del regista, Tinto Brass, escluso ancora una volta dal montaggio e dunque dal cosiddetto Director’s Cut che dovrebbe rispecchiare l’intento creativo dell’autore principale.
Mostri sacri e Penthouse Pets
Dopo aver lanciato nel 1965 la rivista “per soli uomini” Penthouse, in diretta concorrenza con la rivale Playboy, l’editore italoamericano Bob Guccione, forte del successo editoriale e finanziario della sua impresa, decide di investire nell’industria cinematografica. Dapprima con quote di minoranza in film come Quella sporca ultima meta (The Longest Yard, 1974 di Robert Aldrich) e Il giorno della locusta (The Day of the Locust, 1975 di John Schlesinger), quindi proponendosi come finanziatore in prima persona di un’opera che rispecchiasse il core business del suo impero editoriale, ossia un film “per adulti”, ma dall’erotismo patinato. La scelta cade così su un soggetto dello scrittore Gore Vidal (1925-2012) che si era occupato a più riprese della vita dell’imperatore romano Caligola e che nel 1959 aveva collaborato alla sceneggiatura del film Ben Hur di William Wyler. Stabilito di girare in Italia, nella produzione viene coinvolto Franco Rossellini, figlio di Renzo sr., il musicista fratello di Roberto. Il regista prescelto è Tinto Brass, reduce dal controverso successo di Salon Kitty (1975), film che, nelle intenzioni, univa critica storica ed erotismo. Con Caligola, così il film si intitola in questa fase, Brass vorrebbe fare qualcosa di analogo. Anche perché per la realizzazione viene messo insieme un cast tecnico e artistico di notevole livello: per esempio il montatore Nino Baragli (collaboratore anche di Pasolini e Sergio Leone) e lo scenografo Danilo Donati (collaboratore di Pasolini, Lizzani, Fellini, Zeffirelli, Lattuada, Bolognini…). Tra gli attori figurano gli allora giovani emergenti Malcolm McDowell (reduce dal successo di Arancia meccanica, 1971, nel ruolo principale), Helen Mirren (Cesonia) e Teresa Ann Savoy (Drusilla), i mostri sacri Peter O’Toole (specialista in ruoli storici, da Lawrence d’Arabia a Enrico II Plantageneto nel film Il leone d’inverno, 1968, nel ruolo di Tiberio) e John Gielgud (senatore Nerva) oltre agli italiani Adriana Asti (Ennia), Paolo Bonacelli (Cherea), Leopoldo Trieste (Caricle), Guido Mannari (Macrone) e molti altri. Vengono però anche scritturate numerose Penthouse Pets (equipollenti delle Conigliette di Playboy) incluse alcune pornostar come Anneka Di Lorenzo (Messalina), Lori Kay Wagner (Agrippina), Bonnie Dee Wilson e altre.
Vidal riceve 200mila dollari di compenso, ma dopo pochi mesi esce dal progetto sbattendo la porta in quanto il suo soggetto, fortemente orientato alla tematica omosessuale, viene pesantemente modificato da Brass in fase di sceneggiatura. A loro volta anche le riprese sono caratterizzate da contrasti tra Brass e Guccione. Il regista intende raccontare una storia esemplare di eccesso e megalomania dove l’erotismo è solo una conseguenza delle depravazioni del potere, mentre al produttore interessa soltanto esibire quante più nudità possibili grazie al nuovo clima di tolleranza nel costume sociale introdotto negli Usa proprio nel corso del decennio. Tali contrasti sfociano nell’estromissione anche di Brass dal progetto in fase di postproduzione tanto che il nome del regista figura nei titoli di testa semplicemente come “autore delle riprese”, come se fosse un semplice operatore. Il materiale girato è comunque tantissimo, cosa che facilita il compito di Enzo Natale, Franco Rossellini e dello stesso Guccione che inseriscono nel nuovo montaggio le cosiddette additional scenes ovvero sequenze da film pornografico vero e proprio (fellatio, cunnilingus, copule…), in particolare nell’orgia ordinata dall’imperatore alle matrone romane.
Le polemiche, i sequestri
In questa versione, il film viene distribuito nei cinema l’11 novembre 1979 e parte subito bene al botteghino nonostante l’ovvio divieto ai minori di 18 anni. Dopo soli quattro giorni di proiezioni, il 15 novembre, viene però sequestrato dalla magistratura in seguito a una denuncia per oltraggio al pudore fondata, a parere degli inquirenti, non tanto sulle numerose scene di nudo quanto per le pur brevi inquadrature di sesso esplicito (le additional, appunto). In attesa di giudizio, l’accusa di oscenità determina comunque il sequestro del negativo originale che rimane sotto chiave fino al 1981, quando un’amnistia estingue il reato. Il provvedimento permette a Rossellini di montare una nuova versione e ridistribuirla nelle sale (sempre v.m.18) con il titolo appena un poco cambiato. Il 31 marzo 1984 Io, Caligola è di nuovo al cinema ma, anche questa volta resta poco in cartello. Il 3 aprile infatti un magistrato ordina di nuovo il sequestro su tutto il territorio nazionale con queste motivazioni: «Palese oscenità nel suo complesso con reiterazioni di immagini di rapporti sessuali anche innaturali, scene raccapriccianti e di carattere violento». Caso più unico che raro nel nostro paese (si vedano gli analoghi Ultimo tango a Parigi, 1972, e Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975) questa volta il sequestro porta alla perdita definitiva del negativo originale per cui gli esemplari attualmente disponibili nei formati dell’home video derivano da copie del positivo e presentano quindi una scarsa qualità dell’immagine e un sonoro “sporco”.
Emuli ed epigoni
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Guccione presenta il film in pompa magna nel febbraio 1980, ma un’organizzazione antipornografia gli intenta causa e ottiene il blocco delle proiezioni. Guccione replica con una controquerela e vince la causa con questa motivazione: «Pur mancando il valore artistico e scientifico a causa della rappresentazione del sesso per soli interessi pruriginosi, la rappresentazione dell’antica Roma contiene innegabili valori politici nel suo essere una sferzante allegoria della corruzione nelle alte sfere». Proprio come lo voleva Tinto Brass.
Ultimate Cut a parte, Io, Caligola ha comunque incassato negli anni oltre 75 milioni di dollari collocandosi saldamente in cima alle classifiche del box office relativamente ai film per adulti. E ancora oggi spezzoni del film sono presenti nei siti o piattaforme web pornografici. Non solo. Come avviene quasi sempre in questi casi, a stretto giro arrivano gli emuli e gli epigoni. Nel 1982, sull’onda dello scandalo, il regista Aristide Massaccesi, in arte Joe D’Amato, artefice specializzato in B-movie, gira un Caligola: la storia mai raccontata con scene splatter e immagini hardcore ancora più esplicite e la presenza di Laura Gemser, meglio nota alle cronache cinematografiche per la serie hard Emanuelle nera. Dello stesso anno anche un Caligola e Messalina di Bruno Mattei (diventato per l’occasione Anthony Pass) anche questo basato principalmente sullo splatter e l’erotismo con una buona dose di scene di massa riciclate dal Colosso di Rodi (1961) di Sergio Leone.
Il decadente fascino della Roma imperiale
Debordante, fantasioso, eccessivo, barocco… Comunque lo si valuti non c’è dubbio che Io, Caligola propone una visione dell’antica Roma coerente con lo spirito dell’epoca rappresentata (Primo sec. d.C.), ma anche con il gusto anni ‘70 delle riviste patinate e del design pop. Una voce off all’inizio avverte: «Quando la libertà diventa liberticidio, quando i valori morali svaniscono, allora tramontano le civiltà…». È lo stesso imperatore Caligola a pronunciarla (ripetendola in una scena successiva) e non è sbagliato collocare tali parole a esergo del film e della sua parabola discendente negli inferi dell’eccesso e dell’assolutismo più sfrenato del potere. A questo scopo va segnalato l’uso antinaturalistico delle scenografie e dei costumi nonché delle dominanti cromatiche nella fotografia, giocate sui toni prevalenti del rosso, del nero, dell’oro e del bianco con le rispettive simbologie classiche: il sangue, la morte, la ricchezza, il candore… Proprio nel suo eccesso, nel suo barocchismo, persino nell’esibizione esplicita della sessualità, il film è tra i più corretti dal punto di vista storico e archeologico anche se la romanità imperiale è dichiaratamente molto di fantasia. A cominciare dagli enormi specchi a parete, oltre che dalle solite staffe alle selle dei cavalli. Il film, ossia lo script di Gore Vidal, rievoca in maniera corretta gli avvenimenti principali del breve regno di Caligola accogliendo la tesi, risalente ad autori classici tra cui Svetonio e Dione Cassio, secondo i quali Tiberio fu assassinato dal prefetto del pretorio Macrone (o da suoi sicari) proprio per favorire l’ascesa al trono di Caligola. Gli eccessi di quest’ultimo, a loro volta, rispecchierebbero la vertigine di un autocrate al quale tutto è concesso e consentito in quanto è venuto meno il senso della dignità morale di un intero popolo a cominciare dalla sua classe dirigente. Realtà destinata a ripetersi molte volte nella storia e realtà contro cui si ribellavano le nuove generazioni che negli anni ‘70 del ‘900 avevano dato vita a movimenti di contestazione sociale.
Lezioso, ma corretto, l’appellativo (scarponcini) con cui Tiberio si rivolge al giovane congiunto ed erede designato. Tale è infatti il significato della parola latina caligula, ovvero piccola caliga, la calzatura dei legionari che Caio Giulio Cesare Germanico (questo il vero nome del protagonista) indossava da bambino negli accampamenti dell’esercito al seguito del padre durante le sue campagne militari.
Il regista
Tinto (Giovanni all’anagrafe) Brass (1933), una laurea in legge, ma una ancor più forte passione per il cinema, compie le prime esperienze nell’industria dello spettacolo come montatore e aiuto di registi quali Roberto Rossellini, Joris Ivens, Alberto Cavalcanti fino a quando, nel 1963, esordisce nella regia con il lungometraggio In capo al mondo, apologo sul disagio giovanile. In forma di umorismo nero, il film mette in scena le traversie di un ragazzo che stenta a integrarsi nella società. Con questo primo film iniziano anche le controversie del regista con la censura, questa volta di natura politica. La critica al potere e alle istituzioni induce infatti i censori a ordinare una pesante revisione del girato. Brass cambia semplicemente il titolo e ripresenta l’opera, praticamente identica, come Chi lavora è perduto. Incredibilmente la “nuova versione” passa senza modifiche. La satira sociale e l’umorismo nero sono i caratteri dominanti della prima produzione del regista che negli anni ‘60 gira anche film a episodi (La mia signora, 1964), film di montaggio (Ca ira, il fiume della rivolta, 1964) e film di genere (Il disco volante, 1964 e Yankee, 1966). Fino alla metà degli anni ‘70, con film come Col cuore in gola, 1967, L’urlo, 1968, Nerosubianco, 1969, Dropout, 1970, La vacanza, 1971, Brass si qualifica come un regista talentuoso, ma di scarso successo commerciale. Nel 1975, la svolta – da tutti i punti di vista – con il controverso Salon Kitty. Il film, ambientato nella Berlino del Terzo Reich, dovrebbe coniugare erotismo e critica storica. Qualcosa di analogo al viscontiano La caduta degli dei (1969) che aveva avuto la stessa interprete, Ingrid Thulin. Solo che ormai Brass ha capito che il box office non si riempie con le elucubrazioni sociali, ma con l’esibizione della sessualità. Possibilmente accompagnata da strascichi giudiziari e relative campagne stampa. Sarà lo stanco copione di quasi tutti i titoli successivi (La chiave, 1983, campione d’incassi dell’anno, Miranda, 1985, Capriccio, 1987, Paprika, 1991 ecc.) fino ai primi anni 2000. Un copione che ha finito con l’essere la (dorata) gabbia in cui il regista si è autorecluso e dove si è smarrito anche il suo talento.
Caligola, chi era costui?
Caio Giulio Cesare Germanico, detto Caligola, nasce nel 12 d.C. e muore a 29 anni, nel 41, dopo quasi quattro di regno. È il terzo imperatore della dinastia Giulio-Claudia, succeduto ad Augusto e Tiberio. Le fonti storiche giunte sino a noi che ne parlano sono testi tardivi e fortemente critici in quanto dovuti ad autori (i già citati Svetonio e Dione Cassio) legati alla classe senatoria e quindi poco propensi alla causa imperiale. Sta di fatto che il suo breve regno è ricordato, in sostanza, come il primo tentativo di instaurare a Roma una monarchia assoluta di tipo orientale mentre la caratteristica dei primi imperatori è quella di mantenere in essere, almeno formalmente, le istituzioni e le prerogative della Roma repubblicana anche se accentrate nelle mani di una sola persona, il sovrano, che deve godere, in primo luogo, dei favori dell’esercito. Sono infatti spesso i militari a uccidere un imperatore e a proclamare il successore scegliendolo tra i propri alti ufficiali.
Anche la più nota delle stravaganze di Caligola, ossia la nomina del proprio cavallo Incitatus a senatore, oltre che priva di un vero fondamento storico, nasce da resoconti antichi volti a screditarne la figura. La singolare nomina, se mai fu vagheggiata, avrebbe soltanto manifestato il disprezzo di chi voleva governare in maniera assolutistica e dispotica verso le antiche istituzioni repubblicane che, per quanto esautorate dalle loro effettive funzioni, mantenevano comunque una parvenza di legalità e dignità formale.
Il processo di “orientalizzazione” dello stato romano in età imperiale prosegue anche dopo Caligola e si accentua con i suoi successori. Tra le manifestazioni più tipiche di tale sviluppo è l’abitudine, cominciata proprio da Caligola, di divinizzare (il termine tecnico è: apothèosis) l’imperatore non solo dopo la sua morte, ma già nel corso della vita con il titolo di dominus et deus (signore e dio). Tale prerogativa sarà anche alla base dello scontro con la religione cristiana la cui dottrina non poteva ammettere il culto divino per un essere umano. Fatta ovviamente eccezione per Gesù di Nazareth.
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