Il padre
regia Fatih Akin sceneggiatura Fatih Akin, Mardik Martin cast Tahar Rahim (Nazaret Manoogian) Simon Abkarian (Krikor) Arsinée Kahnjian (sig.ra Nakashian) Hindi Zahra (Rakel) George Georgiou (Vahan) Makram Khoury (Omar Nasreddin) Akin Gazi (Hrant) Zein Fakhoury (Arsinée) Dina Fakhoury (Lucinée) genere drammatico durata 134′
Che un turco, sia pur nato e cresciuto in Germania, parli del genocidio armeno e ne parli dalla parte degli armeni è di per sé un fatto epocale. Qualcosa di inedito e persino di inaudito. Eppure è così e questo solo fatto rende meritevole d’attenzione il film di Akin, già apprezzato autore della Sposa turca e di Soul kitchen. Per altro verso non basta la nobiltà d’intenzioni o la purezza di uno sguardo privo di pregiudizi per creare un capolavoro.
Partito bene, il film di Akin si annacqua strada facendo e finisce con l’essere ricordato più per la sua prolissità (una volta si chiamavano “polpettoni”) che per l’impegno civile. L’episodio iniziale è decisamente il più riuscito nel mostrare i molteplici aspetti di una comunità aperta, la serenità della vita domestica e l’irrompere, violento e repentino, della persecuzione razziale, della deportazione, della morte. È anche l’episodio in cui Tahar Rahim riesce credibile ed efficace nel ruolo del protagonista, il fabbro Nazaret Manoogian. Il punto è che in questa sezione Nazaret non è “l’eroe”, ma piuttosto il simbolo della sua comunità. Il film ha infatti un andamento corale che giova decisamente all’insieme.
Purtroppo nello sviluppo del racconto l’attenzione si sposta sempre di più su questo solo personaggio. Da storia di popolo diventa vicenda individuale di un padre alla disperata ricerca delle figlie, uniche sopravvissute allo sterminio della propria famiglia. Il film viene così a pesare per intero sulle spalle dell’attore francese di origini algerine e qui la scelta del casting si rivela sbagliata: alla lunga Rahim mostra tutti i suoi limiti artistici dovendo per giunta esprimersi solo con la mimica facciale. Anche l’episodio cubano è ricco e sfaccettato, con un’ispirazione fresca ed efficace. Al contrario della parte successiva, collocata nelle fredde pianure del Nord Dakota, dove si torna a lambiccate soluzioni sceniche e drammaturgiche che non giovano al risultato.
Il padre resta comunque un’opera di drammatica attualità visto che dal Medioriente si sta ancora riversando sull’Europa una moltitudine di esseri umani perseguitati e oppressi. E, ancora una volta, le cosiddette potenze occidentali tendono a voltarsi dall’altra parte.
E allora, perché vederlo? Per soddisfare la propria passione per la storia del Novecento.
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