È passato ormai un mese dal mio arrivo a Erbil e io sono strafelice di poter condividere questi momenti di vita – unici, adesso qui, con voi. Ma cominciamo dal principio. Era la notte tra il 26 e il 27 maggio e io ero sola, in una camera d’hotel, alle porte di Parigi, a cercare di chiudere gli occhi – ahimè, senza successo. Il giorno dopo sarei partita per l’Iraq – ed era ormai troppo tardi per cambiare idea.
Quante volte mi sono rigirata in quel letto, solo io lo so. Quante volte ho acceso la luce per controllare che tutto fosse pronto. Ed effettivamente tutto era pronto – tranne me. Quella notte ho addirittura acceso la televisione, perché mi tenesse compagnia – e (chi mi conosce lo sa) è da cinque anni che vivo senza.
Nonostante lo stomaco chiuso, la mattina successiva mi sono imposta di fare colazione – e per fortuna (capirete perché) – prima di indirizzarmi verso la sede della mia organizzazione per i briefing formativi pre-partenza. Varcata la soglia dell’hotel, sono partita all’esplorazione e, con occhi curiosi e zaino in spalla, ho osservato meravigliata quelle strade che per sei mesi avevo visto tutti i giorni. Dovevo avere l’aria senza dubbio sognante, a tal punto che una signora mi ha fermato per chiedermi se stessi partendo per una randonnée – un’escursione. In un certo senso, sì.
Durante tutto il giorno, sono stata formata dalle équipe dei vari dipartimenti su svariate questioni. La responsabile delle risorse umane mi ha spiegato nei dettagli tutti gli aspetti contrattuali e, quindi, relativi alla paga, alle ferie, alle assicurazioni, alle procedure da seguire in determinate situazioni. Tra le numerose informazioni comunicatemi, tutte utili, una mi è parsa particolarmente all’avanguardia: la possibilità di usufruire – gratuitamente (fino a una soglia massima di sedute) e liberamente (attraverso una relazione bilaterale paziente-psicologo) – di un servizio psicologico. Altri aspetti su cui sono stata formata hanno riguardato questioni logistiche, amministrative, finanziarie e altresì sulla sicurezza, attinenti alla missione. Grazie al mio taccuino, sono riuscita a tener traccia di tutto quanto – dato che quella mattina, tra l’agitazione e la sonnolenza, non potevo contar troppo sul mio cervello. Dopo saluti affettuosi e graditi incoraggiamenti da parte dei colleghi, non rimaneva che… partire!
Con largo anticipo, sono arrivata in aeroporto, dove mi sono innanzitutto accertata del peso delle valigie – prova stranamente superata – prima di andare a cambiare gli euro in dollari (la valuta ufficiale dell’Iraq è il dinaro iracheno, ma il cambio è generalmente effettuato una volta fatto ingresso sul territorio iracheno). Tutto era sotto controllo, potevo finalmente rilassarmi.
E quando si dice relax si intendono bisogni primari. E la fame, decisa, tornò (ero quasi a digiuno!). Tra lo stomaco chiuso e i mille pensieri, il mio nutrimento era passato, infatti, in secondo piano. Ma adesso il languorino era tornato. Feci un rapido screeninga 360 gradi in cerca di fonti di cibo: l’unica cosa interessante che vidi fu un panino che una signora si stava appetitosamente divorando. Decisi di non strapparglielo dalle mani e rimasi in coda, in attesa.
Fatto finalmente il check-in, raggiunsi – alcune miglia più lontano – il gate d’imbarco (per la prima volta ho messo piede nell’ala di Charles de Gaulle per i voli internazionali, assolutamente sensazionale e affollata). Il senso di fame mi attanagliava, ma intorno a me c’erano solo scale mobili. Arrivai finalmente nella sala pre-imbarco e, cosciente del fatto che sugli aerei hanno l’abitudine di rimpinzare non-stop i passeggeri di cibo, decisi – ancora una volta – di aspettare.
L’attesa prima dell’imbarco durò ore. E io mi sentivo come Robinson Crusoe sulla sua isoletta – con la sottile differenza che io ero in uno degli aeroporti più moderni e più forniti del mondo. Salita sull’aereo, vidi un’hostess passarmi vicino su tacchi a spillo. Parlava inglese. Le chiesi se stesse per portare la cena, ma la sua risposta distrusse crudelmente ogni mia immaginaria visione di leccornie. Restai in preda ai miei deliri famelici.
Le luci calarono, il sonno no, e – come se non bastasse – girandomi, vidi qualcosa di estremamente pauroso. Un volto bianco molto simile a “L’Urlo” di Edvard Munch – ma più bianco ancora. Era una ragazza dai tratti asiatici che aveva indossato una di quelle maschere in tessuto che proteggono il viso (capisco che l’aria dell’aereo faccia seccare la pelle ma, insomma, un po’ di pietà!). Il viaggio della fame si stava trasformando nel viaggio del terrore.
Finalmente ci portano un menu. Era un inizio, un barlume di speranza. La lista comprendeva addirittura un antipasto, un piatto principale, un dolce e uno snack. Ma per me fu piatto unico – data la velocità con cui lo divorai. La scelta del piatto principale era tra un piatto di carne e dei fantomatici “macaroni”; non mangiando carne, scelsi questi ultimi. Dopo un’attesa che a me sembrò infinita, vidi incamminarsi verso di me l’hostess (la solita, con i tacchi a spillo). Veniva a scusarsi e a dirmi che purtroppo il piatto scelto non era disponibile e che… La interruppi: “Bring me something to eat pleeeease!”. Ebbi diritto a un riso indiano con verdure che tutti i passeggeri intorno a me lasciavano, ma che a me sembrò buonissimo.
Finalmente potei pensare ad altro. Per esempio, a dormire. Avrei sorvolato tutta l’Europa e poi tutto il Mediterraneo e poi il Medio Oriente. Passai la notte ad aprire gli occhi per sbirciare fuori dal finestrino, immaginando un panorama magnifico sotto di me.
Dopo uno scalo a Doha, nel Qatar, verso le dieci di mattina arrivai all’aeroporto di Baghdad dove – inaspettatamente – mi ritrovai accanto a un gruppo di cinesi. Dopo essermi accertata di non essere salita sull’aereo sbagliato, cominciai a chiedermi cosa ci facesse un gruppo di cinesi a Baghdad. Tuttora – non ho la risposta.
Grazie alle dettagliate indicazioni che la mia organizzazione mi aveva fornito sull’arrivo all’aeroporto di Baghdad, sentivo di avere la situazione sotto controllo. “Uscire dall’aereo, fare cinque passi, svoltare a destra, fare otto passi, scendere le scale, fare una giravolta, svoltare a sinistra, farla un’altra volta, attraversare il corridoio, etc”. E invece l’uscita a destra era chiusa, le scale in ristrutturazione, e così via. Ma su qualcosa le istruzioni non si sbagliavano: l’attesa relativa alle procedure per il visto. “Le procedure potrebbero durare anche diverse ore. Assicurarsi di non mostrare alcun segno di impazienza”. E infatti.
Sana e salva (e molto fusa), dopo aver passato un posto di blocco dell’esercito iracheno, sono finalmente arrivata alla mia nuova casa, dove il livello di sicurezza mi confermò di aver preso l’aereo giusto: cancelli alti, filo spinato, sbarre ovunque e guardiani all’entrata. Fui accompagnata nella mia camera, con vista cortile – in mezzo al quale spuntava un bel gabbiotto per sentinelle, che doveva esser stato un tempo utilizzato, visti i buchi di proiettili nel vetro. Conobbi poi alcune colleghe che, vista l’ora, si stavano preparando il pranzo. Mi fu offerto da mangiare, ma per eccessivo garbo – di cui mi pento – rifiutai. Entrai in camera e – al contempo – in coma (dal greco κῶμα, “sonno”). Più tardi feci un briefing sulla sicurezza – che viene fatto in occasione di ogni spostamento, entro 24 ore. Scoprii che a Baghdad non si ha diritto a uscire da soli (come è ben immaginabile), che per ogni spostamento c’è bisogno di un autista e che – trovandoci durante il mese sacro del Ramaḍān– era preferibile non disturbare gli autisti durante il pasto serale dell’ifṭār ma che allo stesso tempo non era possibile uscire dopo l’orario di coprifuoco – in vigore indipendentemente dal Ramaḍān. Mi addormentai. E non mangiai – che patimento. La mattina dopo avrei iniziato a lavorare troppo presto per trovare il tempo di fare la spesa – strazio.
Per fortuna, avevo la mia cicoria solubile (60% cicoria, 40% caffé), elemento per me primordiale – soprattutto per combattere il rimbambimento da lungo viaggio. Viaggio che tra l’altro non era terminato. Dopo pranzo dovevo partire di nuovo – e guarda un po’ anche questa volta certe cose da sbrigare mi fecero saltare la pausa pranzo.
Montai in macchina, direzione aeroporto. Durante il tragitto scoprii che quel traffico che a me sembrava così intenso in realtà era nulla in confronto ad altri periodi. Durante il Ramaḍān, difatti, i ritmi cambiano – anche quelli di circolazione. L’accesso all’aeroporto di Baghdad – seppur possibile – è una vera impresa. Si arriva in un parcheggio. Si caricano i bagagli su una sorta di navetta molto rustica. Si lascia parlare il proprio autista con l’autista della navetta. Si sale sulla navetta. Si fa un tratto di strada. Si scende a un posto di blocco, lasciando tutto sulla navetta. Si fa un secondo tratto di strada. Si scende a un secondo posto di blocco, portando giù tutto dalla navetta. Si risale. Il tutto con quarantaquattro gradi centigradi e persone molto armate intorno (e se si è fortunati come me, anche con una valigia di trenta chilogrammi con una ruota rotta). Si arriva in aeroporto. Ci si lascia perquisire (donne da donne, uomini da uomini). Si cerca educatamente di rifiutare la gentile ma poco generosa offerta di aiuto dei presenti. Si consegnano i bagagli per controllo di routine. Si entra nell’aeroporto. Ci si sente persi. Si cerca una soluzione per capire dove andare (la maggior parte delle volte combacia con il luogo in cui c’è la fila più lunga).
Più di ventiquattro ore senza mangiare ma finalmente avevo la possibilità (e il tempo) per comprarmi calorie. Se non fosse stato che era il Ramaḍān! Mangiare o bere davanti a chi digiuna non è un segno di rispetto. In più, essendo sul suolo iracheno da poco più di un giorno, non osavo prendere iniziative. Scartata l’idea del bar, con i contorni poco definiti come in un sogno, apparse alla mia vista un distributore di cibo e bevande un po’ isolato. Era lui la luce divina per il mio stomaco vuoto. Guardinga come un ladro, ma onesta come un frate, mi avvicinai alla macchinetta e infilai cinquecento dinari iracheni (corrispondenti a trentasette centesimi di euro), che avevo cambiato il giorno prima nello stesso aeroporto. Stavo per effettuare l’atto indegno quando una voce di uomo mi interruppe. Eccoci! Ero già pronta a chiedere scusa in ginocchio e a scontare la mia pena. Ma il gentil signore voleva solo che lo aiutassi ad inserire la sua banconota (da quel poco, quasi nulla, che ho capito). Il signore prese dell’acqua. Io dell’acqua e dei grissini – che nascosi immediatamente.
Come scagionarsi dall'(ipotetica) accusa di un atto (ipoteticamente) illegittimo? Rendendolo obbligatorio. Detto fatto: passai l’ultimo controllo pre-imbarco con i liquidi in borsa e – altolà – “quelli sono da consumarsi immediatamente”. Infiniti salti di gioia – dentro di me. Mancavano solo i grissini.
E siccome i miracoli esistono, i miei compagni di viaggio in aereo erano un uomo e una donna kurdi – in assoluto i primi kurdi conosciuti – molto sorridenti e simpatici che, come prima cosa, mi offrirono una caramella. Mai accettare caramelle da sconosciuti, a maggior ragione quando ci si trova in un Paese lontano – ma in quel caso la avevano appena presa tra quelle messe a disposizione per i passeggeri sull’aereo. Accettai e ne approfittai per chiedere se non fosse un problema mangiarla, dato che altre persone probabilmente digiunavano. Mi tranquillizzarono – anche l’uomo kurdo digiunava mentre sua moglie no, ma non era assolutamente un problema secondo loro. Quindi aprii il mio pacchettino di grissini – che a mio volta offrii. Poi crollai.
Mi sono svegliata a Erbil. E quando sono scesa dall’aereo ho visto il tramonto più intenso mai visto prima. Intenso per via del colore – rosso fuoco. E intenso per via della sofferenza che ha illuminato durante tutti questi anni di conflitti – troppa. Eppure, è lo stesso Sole che in altre parti del mondo illumina momenti felici e spiensierati. E il racconto continua…
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