Jean Seberg, da icona per caso a donna impegnata
Con i capelli “à la garconne”, il corpo esile, lo sguardo dolce e smarrito, la bella studentessa americana Patricia passeggia per Parigi al fianco dello spavaldo Michel, un ladro d’automobili con il cappello da gangster, l’aria annoiata e il viso angoloso di Jean-Paul Belmondo. È con questo personaggio che Jean Seberg si ritaglia uno spazio significativo nella storia del cinema. Siamo nella primavera del 1959 e, sotto lo sguardo della cinepresa di Jean-Luc Godard, nasce Fino all’ultimo respiro, manifesto della Nouvelle Vague e di un’intera epoca. Una svolta nel linguaggio cinematografico.
Studentessa di francese Nata il 13 novembre 1938 a Mashalltown nello Iowa, Jean Seberg, figlia di un farmacista, è scoperta a soli diciassette anni dal regista Otto Preminger in cerca di un volto nuovo per il film Santa Giovanna. È un incontro casuale tra i due e una fortuna per la futura attrice che presentatasi al provino si sente dire «Signorina Seberg lei vuole fare del cinema?». E così la ragazza dello Iowa, sbaragliando diciottomila concorrenti, ottiene la parte. La pellicola non ha successo, ma il regista l’anno dopo la richiama in Bonjour Tristesse, tratto dal romanzo di Francoise Sagan, per interpretare l’inquieta Cècile al fianco di Deborah Kerr, David Niven, Juliette Gréco e anche del nostro Walter Chiari. Il destino però le riserva di meglio. Trasferitasi a Parigi nel ’59 è scelta da Jean-Luc Godard insieme con Jean-Paul Belmondo, che il regista ha incontrato casualmente in strada, per Fino all’ultimo respiro nei panni della studentessa Patricia Franchini. La foto del futuro divo francese a spasso per le Champs -Élysées con la sigaretta penzolante dalle labbra, le mani in tasca e lo sguardo sbarazzino al fianco della sorridente giovane americana nella sua maglietta chiara con la scritta New York Herald Tribune appartiene ormai alla mitologia dello schermo.
Tra Parigi e Londra Nello stesso anno, grazie ai suoi tratti talvolta malinconici e la forte espressività, è chiamata in Inghilterra per Il ruggito del topo (1959), una farsa sulla guerra fredda al fianco dell’emergente Peter Sellers. Nel ’61 Jean è diretta dal suo primo marito François Mareuil in Appuntamento con la vita e da Philippe de Boca in L’amante di cinque giorni. Seguono La linea di demarcazione (1965) e Criminal Story (1967), tutti e due di Claude Chabrol. Nel ’64, dopo essere tornata negli Usa, si mette in luce nel ruolo della giovane psicopatica di Lilith, la dea dell’amore di Robert Rossen. Nel 1966 è nel cast di Una splendida canaglia di Irving Kershner, film con il quale Sean Connery nei panni di un poeta anarchico si dimostra attore capace di affrontare personaggi ben più consistenti di James Bond. Nel ’68, nuovamente in Francia, è protagonista di Gli uccelli vanno morire in Perù di Romain Gary, suo secondo marito (da cui avrà un figlio) con Maurice Ronet e Pierre Brasseur, un melodramma poco significativo tratto da un romanzo dello stesso Gary. Nel ’69 è di nuovo negli Usa nel brioso musical popolare di Joshua Logan La ballata della città senza nome, con Clint Eastwood e un memorabile Lee Marvin. Poi è la volta di Airport (1970) diretto da George Seaton, il primo di una fortunata serie di film catastrofici.
Parentesi italiana Anche il cinema italiano negli anni Settanta non se la fa sfuggire, con Ondata di calore (1970) di Nelo Risi e Questa specie di amore (1972) di Alberto Bevilacqua. Nel 1974 è al fianco dello “psicopatico” Kirk Douglas nel thriller televisivo di Daniel Petrie Il gatto e il topo e nel ’75 in Francia gira Prossima apertura casa di piacere, una mediocre commedia grottesca, diretta da Dennis Berry, suo terzo coniuge. La sua carriera è purtroppo penalizzata da una vita sentimentale travagliata e infelice che la porta all’abuso di psicofarmaci, di alcool e a lunghi periodi di depressione. Attiva politicamente a sinistra, l’attrice già negli anni Sessanta contribuisce finanziariamente a sostenere la National Association for the Advancement of Colored People e il Black Panther Movement entrando nel mirino dell’Fbi di Edgar J. Hoover che ordina ai suoi uomini di “neutralizzarla” accusandola, in un’America a quell’epoca molto bigotta, di promiscuità sessuale e razziale. Jean Seberg diviene così una delle tante vittime della persecuzione pianificata nei confronti di personaggi dello show business. Un periodo nero ricostruito nei due film inchiesta, From the Journal of Jean Seberg dell’americano Mark Rappaport e Jean Seberg American Actress dei fratelli svizzeri Fosco e Donatello Dubini.
Lo zampino dell’Fbi Il 9 settembre 1979 a Parigi, a due passi dal suo appartamento in rue General Apperitn, nell’elegante sedicesimo arrondissement, il suo corpo avvolto in un plaid è rinvenuto da due motociclisti sotto i sedili di un’automobile, una R5, con accanto tubetti vuoti di barbiturici e mezza bottiglia di acqua minerale. La morte risale a dieci giorni prima, al 30 agosto. In una lettera rinvenuta tra le sue cose e indirizzata al figlio che si trova dai nonni a Chicago, l’attrice scrive: «Non posso più continuare a vivere con il mio sistema nervoso». Già due settimane prima aveva tentato il suicidio gettandosi sotto un treno della metropolitana a Montparnasse fingendo uno svenimento. Non perde tempo l’ex marito Romain Gary, sconvolto, che senza mezzi termini accusa l’Fbi come responsabile della tragedia. Nel giugno 1980 i dirigenti della polizia federale saranno costretti a confermare di aver imbastito nel 1971 una campagna intesa a screditarla consistente nella diffusione di una falsa notizia secondo la quale il padre della bambina di nome Nina nata prematura al settimo mese di gravidanza e morta dopo solo due giorni è un’attivista politico nero.
Antidiva ribelle Un’esperienza terribile per lei, che non riesce a riprendersi più. Il suo stato d’animo angosciato la spinge a far seppellire la neonata in una bara trasparente con l’intento di smascherare le menzogne ordite nei suoi confronti. Il feto è in effetti di pelle bianca. Questa tragica vicenda porterà al suicidio nel dicembre 1980 anche Romain Gary. Scomparsa a soli quarant’ anni, Jean Seberg, la ragazza semplice dagli splendidi occhi azzurri e dai capelli biondi cortissimi, è stata un’antistar dalla recitazione naturale e magnetica impegnata anche come scrittrice, regista e produttrice, ma mai veramente valorizzata dal cinema. Un’artista originale e ribelle alle regole convenzionali, prima ancora della liberazione dal condizionamento dello “star system” hollywoodiano che ha portato alla nascita di un’intera generazione d’attori antidivi, da Dustin Hoffman a Mia Farrow da Elliot Gould a Shirley Knight da Jon Voight a Sandy Dennis, i cui volti simili alla gente comune non si adattano più agli eroi mitici amati, sognati e idealizzati per decenni dagli spettatori di tutto il mondo.
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