Gli anni ‘60 del secolo scorso segnano il graduale affermarsi nella storia di grandi movimenti di emancipazione di massa: razziale, sessuale, femminile in primo luogo. Movimenti che culmineranno, verso la fine del decennio, nelle “rivolte” del ‘68. Senza seguire o cavalcare le “mode” Buñuel coglie sicuramente in questo film, a torto considerato tra i suoi minori, tali istanze sociali, ma, fedele al proprio pessimismo radicale, ne mette in luce soprattutto le contraddizioni e i limiti. Al pari delle altre utopie che hanno accompagnato il cammino dell’umanità nella storia.
Stupro e razzismo, violenza e discriminazione sono per il regista aspetti complementari e reciproci dello stesso problema: i rapporti tra gli individui in una società apparentemente evoluta. Sin dalle prime battute del film ci accorgiamo infatti che tali rapporti si manifestano essenzialmente come rapporti di forza e si mantengono solo grazie alla violenza. Il microcosmo (ancora una volta un’isola) che fa da teatro alla vicenda e la piccolissima comunità che vi si forma per una serie di eventi fortuiti, non differisce molto da quanto già mostrato in Robinson Crusoe, l’altro film di produzione congiunta Usa-Messico.
Miller, Jackson e il reverendo Fleetwood sono in varia misura la continuazione moderna di Robinson così come Ewie e Travel lo sono di Venerdì. Con questa differenza: tutti i personaggi di questo film presentano allo stesso tempo aspetti rassicuranti e inquietanti, coerenze e incongruenze di comportamento. Sono, insomma, come tutte le persone, intrisi in egual misura di “bene” e “male” che prevalgono o cedono, di volta in volta, seguendo le leggi del caso e l’impulso degli istinti.
Per Buñuel non c’è insomma ragione (o ragionevolezza) che possa in qualche modo mitigare le pulsioni più profonde della psiche e della natura umana: homo homini lupus (l’uomo è un lupo per i suoi simili), dunque, secondo la nota accezione del filosofo razionalista inglese Thomas Hobbes (XVII sec). Ancora e sempre l’uomo rimane il peggior nemico dell’umanità.
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