Nelle sue memorie il regista afferma che l’idea di una rappresentazione che avesse protagonista san Simeone stilita risale ai tempi della Residencia de Estudiantes di Madrid e all’amicizia con Federico García Lorca che gli aveva parlato di tale personaggio. Stiliti erano detti quegli anacoreti che vivevano sulla sommità di una colonna, una forma di spiritualità cristiana sviluppatasi nel V secolo nel deserto siriano. Avuta via libera per questa singolare narrazione dall’amico produttore messicano Gustavo Alatriste, Buñuel mette in scena alcuni episodi ma non riesce a portare a termine il progetto per un’improvvisa bancarotta della produzione con conseguente sospensione immediata delle riprese.
Il film risulta perciò lungo soltanto una quarantina di minuti con un finale molto diverso da quello previsto in sceneggiatura che prevedeva una sanguinosa lotta tra opposte fazioni che si contendevano le spoglie mortali del santo eremita. Pur in questa versione frutto di necessità il film risulta peraltro una delle opere più compiute e dense dell’autore. La storia si struttura come un calco delle tre tentazioni di Cristo nel deserto narrate nei vangeli di Matteo (4, 1-11) e Luca (4, 1-13) comprese tra un prologo e un epilogo. Una composizione drammaturgica che possiamo definire classica per il regista ricorrendo in svariate opere nel corso dell’intera filmografia. Il prologo consta nel trasferimento di Simone da una colonna a un’altra più maestosa. Cosa che avviene, secondo quanto detto nei dialoghi, dopo 6 anni 6 mesi e 6 giorni di penitenza. E già con questa semplice sequenza numerica Buñuel ci avverte di un uso ereticale delle Scritture essendo la sequenza 666 il numero che nell’Apocalisse viene attribuito all’Anticristo (Ap 13, 18).
Nel prologo è narrato anche un miracolo che avviene peraltro tra la generale indifferenza dei fedeli che pure erano accorsi in massa. Altri personaggi contrappuntano la vicenda contraddicendo dialetticamente lo sviluppo principale (la lotta tra Simone e il demonio) con significativi “lampi” surrealisti. È il caso, per esempio, del pastore nano e del novizio, del monaco indemoniato e, soprattutto, della madre di Simone che vive ai piedi della colonna in una povera casupola di sterpi. E poi c’è “lei”, ossia la donna tentatrice, il demonio personificato in sensuali sembianze femminili, che rappresenta il perfetto contraltare del disincarnato spiritualismo dello stilita. Il demonio è carne, è vita anche se arriva dentro una bara, è donna primigenia, è bambina, è giovane ed è vecchia e in questa chiave si spiega anche l’improvvisato finale che sublima visivamente (e concettualmente) la parabola dei due “avversari”.
Tra le scene di particolare rilievo che contrappuntano il disincarnato empireo di Simone c’è la sequenza onirica con a madre e, soprattutto, il “dialogo sul mio e sul tuo” fra Simone e frate Daniele. L’ispirazione in questo caso rimanda a un passo del Don Chisciotte di Cervantes (parte I, cap. XI) in cui il cavaliere dalla triste figura tiene un discorso ad alcuni pastori sull’età dell’oro dell’umanità e ricordiamo che L’età dell’oro è anche il titolo del secondo film di Buñuel: «Avventurosa età e avventurosi secoli quelli cui gli antichi dettero il nome di età dell’oro, non già perché l’oro, che in questa nostra età di ferro tanto si apprezza, si ottenesse, in quel tempo fortunato, senza alcuna fatica, ma perché allora, quelli che ci vivevano ignoravano queste due parole del tuo e del mio». Nel film, Daniele intavola con l’eremita una discussione basata sul paradosso del diritto di proprietà, ma la disarmante innocenza (la purezza) di Simone lo mette in difficoltà: «Il tuo disinteresse è ammirevole e assai benefico per la tua anima. Ma ho paura che, come la tua penitenza, non serva molto agli uomini» commenta deluso frate Daniele ritirandosi. Al che il santo stilita gli replica: «Non ti capisco, parliamo linguaggi diversi». I linguaggi, appunto, dell’utopia (Simone) e della storia (Daniele).
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