Questo film, girato nel 1964, segna il definitivo ritorno di Buñuel in Europa. Fatta eccezione per il successivo, e incompiuto, Simón del desierto (1965) il regista non lavorerà più in Messico, ma solo nel Vecchio Continente con produttori e troupe europei. Pur mantenendo cittadinanza e residenza nel paese latinoamericano. Questo film segna anche l’incontro professionale con Jean-Claude Carrière, a quest’epoca giovane e semisconosciuto sceneggiatore emergente, che sarà il più fedele e valido alleato per la scrittura di tutte le opere successive (eccetto Simón e Tristana, 1970) compresi alcuni progetti rimasti sulla carta e il libro di memorie Dei miei sospiri estremi (Rizzoli). Segna anche l’incontro con Serge Silberman, piccolo produttore indipendente francese di origini ebraiche, che metterà in cantiere quasi tutti i film girati da Buñuel nel paese transalpino.
Per tornare al Diario di una cameriera, l’operazione più vistosa che Buñuel e Carrière compiono su testo del romanzo di Octave Mirbeau (1848-1917) da cui il film è tratto è lo spostamento della vicenda narrata dall’inizio del ‘900, ossia dalla Belle Époque, agli anni ‘30 del secolo ossia nel periodo in cui l’Europa è pervasa da movimenti di estrema destra particolarmente diffusi e virulenti. Basti pensare, al proposito, a quanto accade in Germania e Spagna al pari di quanto già avvenuto in Italia nel decennio precedente. Tale mutamento non è privo d’importanza e non può essere legato soltanto al ricordo personale del regista dei suoi anni giovanili nella capitale francese. Con questo cambio la protagonista, Célestine, domestica venuta da Parigi per prestare servizio nella casa di campagna dei Monteil, non è solo testimone di segrete perversioni e di un disfacimento familiare privato, ma anche di una follia collettiva che non risparmia nessun individuo né alcuna classe sociale.
Già dall’arrivo di Célestine nella grande casa di campagna dei suoi nuovi “padroni” viene messo in scena un campionario di umanità degradata e tarata che tuttavia domina grazie al denaro e al retaggio familiare. Al di sotto di questo bel campionario del Terzo Stato, il resto della servitù non è a sua volta esente da tare, vizi e doppiezze incarnate in particolar modo dal turpe Joseph, il factotum della fattoria. La nuova arrivata osserva con distacco questo mondo al quale sente di non appartenere, ma nel quale è implicata suo malgrado. In una spirale di abiezione e violenza che culmina con un atroce fatto di sangue. La scena del delitto è resa cinematograficamente mediante una sequenza tra le più riuscite dell’intera filmografia buñueliana che ha influenzato anche un autore come Peter Greenaway per il finale del suo film Lo zoo di Venere (A Zed and Two Noughts, 1985).
La sequenza rappresenta l’apice del dramma anche perché in essa si condensano gli indizi, iconici e psicologici, che il regista ha accumulato sin lì, a frammenti, su ciascuno dei personaggi in scena. Eccoli, sembra dire Buñuel, i buoni borghesi, i cittadini esemplari, i “patrioti”: mentitori e spergiuri (il capitano Mauzer, vicino di casa e avversario dei Monteil), gretti e animaleschi (Mr Monteil) avidi e farisaici (il curato), depravati o inibiti (Mr Rabour e sua figlia, Mme Monteil), assassini e stupratori… Come sempre però la ribellione personale e individuale non porta a nulla e, nonostante il suo “sacrificio”, Célestine non ottiene giustizia per la vittima. Anche lei, alla stregua di un Nazarín o di una Viridiana. L’ambientazione negli anni ‘30, con il suo contesto di violenza collettiva, razzismo, antisemitismo, diventa così per Buñuel una grande, pessimistica metafora sui destini dell’umanità in generale e della civiltà occidentale in particolare. Diversamente da Nazarín e Viridiana, tuttavia, Célestine, non essendo portatrice di alcuna particolare utopia, può trovare persino un parziale riscatto alla propria personale sconfitta con un borghesissimo matrimonio di convenienza.
Inserito da André Breton tra i “numi tutelari” del surrealismo, lo scrittore simbolista francese Joris-Karl Huysmans (1848-1907) è esplicitamente citato da Buñuel nel film, fatto abbastanza inconsueto per il regista. A parlarne è l’anziano e feticista Mr Rabour al cui servizio particolare Célestine viene assegnata in un primo momento. Nel quadro generale di uno stile cinematografico apparentemente realista (dopo il prepotente ritorno al surrealismo formale dell’Angelo sterminatore) questo piccolo cenno serve quantomeno ad avvertire lo spettatore più accorto che, anche in questo caso, siamo di fronte a un approccio surrealistico della “realtà” come era già accaduto nei film precedenti e, in particolare, negli immediati antesignani: Nazarín (1958) La joven (1960) e Viridiana (1961). in particolare, nel film viene citato un passo del Quinto capitolo di ÀRebours (A ritrosoo Controcorrentenella versione italiana) in cui lo scrittore fa riferimento al quadro ad acquarello L’apparizione del pittore Gustave Moreau (1826-1898).
Infine nel realizzare questo suo film francese sicuramente Buñueltiene presente, o comunque rende una sorta di omaggio, a un altro grande cineasta, Jean Renoir (1894-1979), che aveva già portato sullo schermo il romanzo di Mirbeau nel 1946, durante il soggiorno negli Stati Uniti (il cosiddetto “periodo americano”) dovuto all’occupazione nazista della Francia. Pur essendo i due film, quello di Renoir e quello di Buñuel, molto diversi sia sul piano formale sia su quello estetico, non mancano tuttavia alcune affinità dovute in parte al testo letterario, ma anche alla comune ideologia dei due registi. Le sequenze iniziali sul calesse che attraversa la campagna, l’uccisione delle oche da parte di Joseph, il dialogo tra Célestine e un uomo mentre costui si rade (Mr Monteil in Buñuel, Joseph in Renoir) e le pietre scagliate dal capitano sulle serre dei Monteil sono non solo molto simili tra loro, ma celano lo stesso fine che è quello di connotare al negativo il contesto in cui la protagonista si trova ad agire. Un confronto tra i due film può essere interessante anche al fine di una tematica quale l’analisi delle diverse versioni cinematografiche di un medesimo testo letterario. Cosa che l’arte dello schermo consente per centinaia di titoli e altrettanti autori.
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