Il cinema di Luis Buñuel-Lo schermo nelle mani di un poeta

Pubblicato il 8 Marzo 2022 in Humaniter Cinema
Buñuel

Testo della conferenza tenuta da Luis Buñuel alla Unam (Università Nazionale Autonoma del Messico) nel dicembre 1958 intitolata “Il cinema, strumento di poesia”

 

Il gruppo di giovani della Direzione per la Diffusione Culturale mi ha chiesto di partecipare a un convegno […] Si è convenuto che il tema fosse Il cinema come espressione artistica, o meglio, come strumento di poesia, con tutto ciò che questa parola può contenere di senso liberatorio, di sovvertimento della realtà, di soglia al mondo meraviglioso del subconscio, di non conformità con l’angusta società che ci circonda.

Ha detto Octavio Paz: «Basta che un uomo in catene chiuda gli occhi perché possa far esplodere il mondo» e io, parafrasandolo, aggiungo: basterebbe che la palpebra bianca dello schermo possa riflettere la luce che le è propria, per far saltare l’intero universo Ma, per il momento, possiamo dormire sonni tranquilli, poiché la luce cinematografica è abbastanza dosata e controllata.

In nessuna delle arti tradizionali esiste una sproporzione così grande tra possibilità e realizzazione come c’è invece nel cinema. Agendo direttamente sullo spettatore, presentandogli esseri e cose concrete, isolandolo, grazie al silenzio, all’oscurità, da quello che potremmo chiamare il suo habitat psichico, il cinema è capace di rapirlo come nessun’altra espressione artistica umana. Ma come nessun’altra è in grado di abbrutirlo. Purtroppo la stragrande maggioranza delle sale cinematografiche attuali non sembra avere altra missione che quella: gli schermi mostrano il vuoto morale e intellettuale in cui prospera il cinema, che si limita a imitare il romanzo o il teatro con la differenza che i suoi mezzi sono meno capaci di esprimere psicologie. Ripetono all’infinito le stesse storie che l’Ottocento si stancava di raccontare e che ancora si ripetono nel romanzo contemporaneo.

Una persona moderatamente istruita getterebbe via sdegnosamente il libro che contenesse una delle storie che ci raccontano i più grandi film. Eppure, comodamente seduta nella sala buia, abbagliata dalla luce e dal movimento che esercitano su di lei un potere quasi ipnotico, attirata dall’interesse del volto umano e dagli abbaglianti cambiamenti di luogo, quella stessa persona nel del tutto incolta accetta supinamente gli argomenti più screditati.

Bunuel
Hollywood 1972, foto di gruppo del ricevimento a casa di George Cuckor in onore di Luis Buñuel. Da sinistra, in piedi: Robert Mulligan, William Wyler, George Cuckor, Robert Wise, Jean-Claude Carrière, il produttore Serge Silberman, il giornalista Charles Champlin e Rafael Buñuel. Seduti: Billy Wilder, George Stevens, Luis Buñuel, Alfred Hitchcock e Rouben Mamoulian.

Lo spettatore cinematografico, in virtù di questo tipo di inibizione ipnogogica, perde un’alta percentuale delle sue facoltà intellettive. Faccio un esempio specifico: il film intitolato Pietà per i giusti [Detective Story 1951, di William Wyler con Kirk Douglas ed Eleanon Parker]. La struttura della trama è perfetta, il regista magnifico, gli attori straordinari, la realizzazione geniale, ecc. Eppure, tutto quel talento, tutto quel sapere, tutta la complessità che la macchina cinematografica comporta, sono state messe al servizio di una storia stupida, rilevante solo per la sua inconsistenza […] Il mistero, elemento essenziale di qualsiasi opera d’arte, di solito nei film manca. Autori, registi e produttori stanno ben attenti a non turbare la nostra tranquillità aprendo la meravigliosa finestra dello schermo sul mondo liberatorio della poesia. Preferiscono riflettervi i temi che potrebbero essere una continuazione della nostra vita ordinaria, ripetere lo stesso dramma mille volte, farci dimenticare le ore dolorose del lavoro quotidiano. E tutto questo, naturalmente, ben sancito dalla morale comune, dalla censura politica, dalla religione, presieduto dal buon gusto e condito con umorismo “bianco” e altri prosaici imperativi della realtà.

Se vogliamo vedere del buon cinema, raramente lo troveremo nelle grandi produzioni o in quelle esaltate dalla critica e dal consenso del pubblico. La storiella minuta, il dramma privato di un individuo non credo possano interessare a nessuno che sia degno di vivere il suo tempo. Se lo spettatore si rende partecipe delle gioie, della tristezza o dell’angoscia di qualche personaggio sullo schermo, deve essere perché vede riflesse in quella persona le gioie, la tristezza o l’angoscia dell’intera società e, quindi, la sua. La mancanza di lavoro, l’insicurezza della vita, la paura della guerra, l’ingiustizia sociale ecc., sono cose che, poiché colpiscono tutti gli uomini di oggi, colpiscono anche lo spettatore. Ma che il signor X non sia felice in casa e si cerchi un’amica per distrarsi, che poi, infine, la abbandoni per ricongiungersi alla moglie devota, è senza dubbio qualcosa di edificante, ma che ci lascia del tutto indifferenti.

A volte l’essenza cinematografica emerge insolitamente da un film anonimo, da una commediola o da un serial. Con una frase ricca di significato Man Ray ha detto: «I peggiori film che abbia mai visto, quelli che mi hanno fatto dormire profondamente, contengono sempre cinque minuti meravigliosi, e i migliori, i più celebri, hanno davvero soltanto cinque minuti che valgano la pena. In altre parole, sia nei film buoni sia in quelli cattivi, e soprattutto e nonostante le intenzioni dei suoi realizzatori, la poesia cinematografica combatte per venire a galla e manifestarsi».

Il cinema è un’arma meravigliosa e pericolosa se maneggiata da uno spirito libero. È lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, dell’istinto. Il meccanismo che produce le immagini cinematografiche, per il suo modo di funzionare, è, tra tutti i mezzi di espressione, quello che più somiglia alla mente umana, o meglio, quello che meglio imita il funzionamento della mente in uno stato onirico […] La notte che gradualmente invade la sala cinematografica equivale a chiudere gli occhi: allora, sullo schermo e nell’uomo, inizia l’incursione nella notte dell’inconscio; le immagini, come nel sogno, appaiono e scompaiono attraverso dissolvenze e oscuramenti; tempo e spazio diventano flessibili, si restringono e si allungano a piacimento, l’ordine cronologico e i relativi valori di durata non corrispondono più alla realtà; l’azione passa dal giro di pochi minuti a svariati secoli; i movimenti accelerano e ritardano.

Il cinema sembra essere stato inventato per esprimere il subcosciente, che affonda le sue radici nella poesia. Tuttavia, non viene quasi mai utilizzato a questi scopi. Tra le tendenze moderne del cinema, il più noto è il cosiddetto Neorealismo. I suoi film presentano allo spettatore spaccati di vita reale, con personaggi presi dalla strada e persino con edifici e interni autentici.

Salvo poche eccezioni, e cito in specificatamente Ladri di biciclette, il neorealismo non ha fatto nulla perché nei suoi film emerga ciò che è tipico del cinema, cioè il mistero e il fantastico. A che serve tutto quell’apparato se le situazioni, i motivi che animano i personaggi, le loro reazioni, gli stessi copioni sono desunti dalla letteratura più sentimentale e conformista? L’unico contributo interessante che ci ha portato, non il Neorealismo, ma Zavattini personalmente, è l’elevazione dell’atto anodino al rango di categoria drammatica

In Umberto D., uno dei film più interessanti prodotti dal Neorealismo, una domestica, per un’intera bobina, cioè per dieci minuti, compie atti che fino a poco tempo fa potevano sembrare indegni dello schermo. La vediamo entrare in cucina, accendere un fornello, mettere la pentola sul fuoco, versare ripetutamente da una brocca acqua su formiche che avanzano in fila indiana verso il cibo, dare il termometro a un vecchio che ha la febbre ecc. Nonostante la banalità delle situazioni, esse sono seguite con interesse e persino con suspense.

Il Neorealismo ha introdotto nell’espressione cinematografica alcuni elementi che ne arricchiscono il linguaggio, ma niente di più. La realtà neorealista è incompleta, formale, soprattutto ragionevole, ma nelle sue realizzazioni manca assolutamente la poesia, il mistero, ciò che completa ed espande la realtà. Confonde la fantasia ironica con il fantastico e l’humour nero.

«La cosa più notevole del fantastico – ha detto André Breton – è che il fantastico non esiste, tutto è reale». Parlando con lo stesso Zavattini, qualche tempo fa, ho espresso le mie riserve sul Neorealismo: stavamo mangiando insieme e il primo esempio che mi è venuto in mente è stato il bicchiere di vino da cui stavo bevendo. Per un neorealista, gli dicevo, un bicchiere è un bicchiere e niente di più: vedremo come lo tolgono dalla credenza, lo riempiono di liquido, lo portano in cucina per lavarlo, dove la cameriera lo rompe, fatto per cui potrebbe essere licenziata o meno ecc.

Tuttavia quello stesso bicchiere, contemplato da altri uomini, potrebbe essere mille altre cose diverse, perché ognuno di loro carica di affetto ciò che contempla e nessuno lo vede così com’è, ma come vogliono vederlo i suoi desideri e il suo stato d’animo. Sostengo un cinema che mi faccia vedere questi diversi tipi di bicchieri, perché quel cinema mi darà una visione integrale della realtà, aumenterà la mia conoscenza delle cose e degli esseri e mi aprirà il meraviglioso mondo dell’ignoto, di ciò che non posso leggere sulla stampa quotidiana o trovare per strada.

Non crediate però, da quanto ho detto, che io sostenga un cinema dedicato esclusivamente all’espressione del fantastico e del mistero, un cinema disimpegnato che, sprezzante della nostra realtà quotidiana, ci immerga soltanto nel mondo inconscio dei sogni. Anche se molto brevemente, ho recentemente sottolineato l’importanza che attribuisco ai film che affrontano i problemi fondamentali dell’uomo moderno, non considerato isolatamente, come un caso a parte, ma nei suoi rapporti con gli altri.

Faccio mie le parole di Engels che definisce così la funzione di un romanziere (ossia, per traslato, di un cineasta): «Il romanziere avrà agito con onestà quando, attraverso una descrizione delle relazioni sociali autentiche, abbia demolito le opinioni convenzionali sulla natura di queste relazioni, abbia spezzato l’ottimismo del mondo borghese e abbia costretto il lettore a dubitare dell’immutabilità dell’ordine costituito. Anche se ciò non comporta necessariamente una conclusione e anche se non prende esplicitamente posizione».

 

 

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