A proposito del Fascino discreto della borghesia (1972) la critica si è soffermata diffusamente sulla costante impossibilità che i sei protagonisti (un ambasciatore, due coppie di agiati signori di mezz’età e la sorella di una delle mogli) hanno a sedersi a tavola e consumare un pasto che viene costantemente interrotto o rimandato per i più svariati motivi. La lettura che ne è stata data consiste, giustamente, nella metafora dell’impotenza del potere ovvero nell’inanità dell’esistenza. Nessun critico ha però notato che il cibo, per quanto ritualizzato da queste persone la cui esistenza è circoscritta in un ambito quasi liturgico di incontri, adulteri, sotterfugi e bassezze ancora più ignobili quali il traffico internazionale di droga, rappresenti, in maniera immediata e assai poco metaforica, la prima e basilare necessità umana. Quella necessità che altrove (per esempio in Viridiana, Simón del desierto e La via lattea) sembrava appannaggio quasi esclusivo delle classi subalterne.
Cosa significa tale spostamento di accento da parte del regista che negli stessi antecedenti diretti di questo film (L’âge d’or e L’angelo sterminatore principalmente) aveva messo in scena grandi borghesi assai meno famelici di questi? In un mondo ormai in via di globalizzazione, dove il “mercato” stava già diventando, anche per i paesi del cosiddetto “socialismo reale” l’unica unità di misura dell’esistenza umana, Buñuel riconduce alla sua essenza primaria, alla sua vera e autentica natura, tutte le sovrastrutture di cui la civiltà occidentale ha ammantato il suo imperialismo planetario: la fame insaziabile, la cupidigia, l’ingordigia di chi passa in continuazione da un banchetto all’altro, da una tavola imbandita a un’altra, senza avere peraltro alcuna necessità “reale” di sfamarsi. E, dopo il cibo, il sesso: un binomio quasi inscindibile. Il secondo appuntamento dai Sénéchal va in fumo perché gli ospiti scappano in giardino per fare l’amore, ma anche la visita di Simone Thévenot all’ambasciatore per consumare un adulterio viene interrotta dall’annuncio di un nuovo invito a cena. Subito dopo don Rafael Acosta neutralizza la guerrigliera che ha cercato di intrufolarsi nel suo appartamento e, mentre le svuota la borsa della spesa che contiene pane, verdura e… una pistola, il diplomatico azzarda qualche avance che termina, in modo molto eloquente, con questa frase: «Lo capirai tu stessa a Miranda, quando sarai costretta ad aprire le cosce di fronte a un battaglione di fanteria».
Cibo, sesso e legge: per questi ineffabili personaggi il “contratto sociale”, ossia il fondamento della convivenza democratica, è lettera morta. Arrestati per il traffico di droga, vengono liberati dal brigadiere insanguinato ansioso di redimersi per aver usato metodi brutali nella repressione delle rivolte studentesche. Benché si tratti solo di un sogno (del commissario), basta la parola del ministro degli interni – evidentemente corrotto e colluso – perché esso si trasformi in realtà. Che si tratti di cibo, sesso e di questioni legali resta il fatto che per questi personaggi è tutto un girare a vuoto, un andare senza meta, da un nulla verso un altro nulla, come nella straordinaria metafora del cammino su una strada deserta che compare due volte nel corso del film. Uno stacco apparentemente incongruo rispetto alla sviluppo narrativo e che chiude la pellicola con un fermo immagine sfuocato senza che compaia la parola “fine”.
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