Nei suoi film messicani, più che in tutti gli altri, antecedenti e successivi a questo periodo, Buñuel opera sul genere cinematografico (melodramma, avventura, commedia ecc.) destrutturandolo alle radici per conferire alle sue storie un significato “secondo” che vada oltre le apparenze e le appartenenze, appunto, di genere. Caso emblematico è questo Tentativo di un delitto che sotto le vesti della commedia borghese nasconde lampi surrealisti e freudiani.
Archibaldo de la Cruz, il protagonista, è infatti una sorta di fratello minore di don Francisco Galván, l’inquieto “eroe” di Él, anche se all’apparenza si mostra meglio inserito nella società e più disinvolto. Entrambi sono fatti della stessa pasta, sono due facce della stessa medaglia in quanto entrambi sognano una ormai perduta purezza originaria e trasferiscono questa tensione inappagata nella loro sfera erotica ed esistenziale. A cominciare dall’osservanza formale dei precetti religiosi. Non per nulla la ricca dimora di Archibaldo è zeppa di suppellettili e statue sacre. La molla che induce il personaggio al delitto (o almeno al suo tentativo) è proprio questa nostalgia della purezza, ovvero, per contrasto, il desiderio di punire quelle donne che con il loro comportamento sembrano esserne più lontane. È il caso della disinibita Patricia, ma anche della volubile Lavinia e persino della stessa Carlotta, la promessa sposa, quando Archibaldo ne scopre la relazione adulterina con un uomo sposato. Nel caso della monaca, invece, si tratta, come dice espressamente il personaggio, di affrettare il raggiungimento del gaudio celeste.
La “nostalgia della purezza” è una costante poetica di Buñuel (che non a caso intitola L’âge d’or il suo secondo film facendo appunto riferimento alla mitica età delle origini) presente in forma quasi ossessiva, sia pur discretamente dissimulata.
Per Archibaldo, infatti, l’esistenza si consuma nel dilemma tra perfezione e abiezione («Essere un grande santo o un grande criminale») la cui inconciliabilità finisce col renderlo un don Chisciotte confuso e ridicono tanto nella devozione quanto nel peccato. Non a caso l’unico a subire una qualche lesione a causa del carillon cui egli sin da bambino attribuisce poteri quasi soprannaturali è lo stesso Archibaldo, che si ferisce mentre si rade.
Tra le costanti figurative presenti in moltissimi film di Buñuel (e anche in questo) vi è la particolare attrazione per le gambe femminili sublimata qui dal “doppio” di Lavinia, ossia dal manichino con le sue sembianze che perde una gamba mentre Archibaldo lo trascina verso il rogo al posto della donna. Quasi un’eco al negativo del celebre “gran milagro” di Calanda. In sostanza il protagonista del film cerca una purezza impossibile a trovarsi e, per giunta, ritiene che essa possa consistere in un’istituzione degradata e convenzionale quale un matrimonio borghese. Naturalmente tale “desiderio di salvezza” è destinato a fallire nonostante il film sia tra i pochi a chiudersi con un (ambiguo) happy end: non è certo buttando in acqua un feticcio o evitando di schiacciare un insetto che si guarisce dalle nevrosi.
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