Nello stesso anno in cui gira Él (Lui, 1953) e scrive, con il titolo provvisorio di Los náufragos de la calle Providencia, il primo abbozzo dell’Angelo sterminatore (1962) Buñuelriesce finalmente a realizzare un vecchio progetto: la versione cinematografica del romanzo Cime Tempestose (Wuthering Heigts, 1847) di Emily Brontë. Tali lavori dimostrano che in questo momento il regista è particolarmente attratto dalle antinomie “essere” e “dover essere”, “carne” e “spirito”, “erotismo” e “religione”. «Ho sempre ammirato quel romanzo che entusiasmava i surrealisti per il suo clima di passione, per l’amore folle che travolge tutto» ha detto Buñuel ponendo l’accento sull’aspetto assoluto e disperato del sentimento che lega tra loro due dei protagonisti (Heathcliff e Katherine) considerato come una sorta di anticipo dell’amour fou propugnato dal movimento di avanguardia nei suoi manifesti poetici.
Tanto attratto che nel 1932 Buñuel scrive con Pierre Unik (suo aiuto per Las Hurdes, 1933) una breve riduzione che vent’anni dopo fa da palinsesto al film messicano. Come era già avvenuto per Gran Casino (1947) l’amico produttore Oscar Dancingers impone però alcune scelte (soprattutto nel cast) che ipotecano il risultato finale certamente non all’altezza delle aspettative dell’autore. Non di meno il film va annoverato tra le cose più rilevanti del primo periodo messicano e, anche a distanza di decenni, conserva intatta la sua caratteristica peculiare: essere un’opera romantica rielaborata con tutta la frenesia del surrealismo.
Da questa consapevolezza nasce la didascalia iniziale in cui Buñuel afferma la propria fedeltà “allo spirito” del romanzo, piuttosto che alla sua lettera. Esattamente l’opposto di quanto avvenuto l’anno prima con un altro grande romanzo della letteratura inglese, il Robinson Crusoe di Defoe. Tale fedeltà di spirito si traduce appunto nell’esaltazione dell’amour fou anche se, come già accaduto con L’âge d’or (1930), il regista sottolinea gli aspetti pessimistici e mortali di tale sentimento. Proprio ai fini di tale “fedeltà di spirito” la messa in scena assume un valore determinante. Già nelle primissime inquadrature, in pochi tratti, mediante trasparenti metafore e brevi battute di dialogo, si delineano i caratteri di tre dei cinque personaggi principali (Catalina, Eduardo e Isabel) osservati dall’autore non diversamente da come Eduardo osserva attraverso una lente le farfalle della propria collezione. Sequenza che trova il proprio corrispettivo nel finale con un’altra metafora (la mosca nella tela del ragno) che prelude alla sorte degli altri due protagonisti: Ricardo e Alejandro. Altre metafore simili sono disseminate nel corso del film, tra cui il rituale tra pagano e cristiano eseguito dal servo José che prevede il sacrificio di una rana (simbolo di lussuria nei bestiari medievali ben noti all’autore) e l’uccisione di un maiale nella fattoria che sconvolge la mite sensibilità di Isabel.
L’apice (o climax) del dramma viene rafforzato dal regista con una delle più acute e geniali “trasgressioni” della lettera del romanzo introdotta allo scopo di mantenerne inalterato lo spirito. Si tratta della lettura, da parte di José, di un passo dal biblico libro della Sapienza (cap. 2, vv. 1-9) che Buñuel nelle sue memorie assimila alle più belle pagine del Divin Marchese (D.A.F. de Sade): una pessimistica, materialistica descrizione della condizione umana che il testo biblico mette in bocca agli empi, ma che può davvero essere considerata un lontanissimo anticipo dell’esistenzialismo.
Del resto l’intera sequenza finale è una sintesi sublime delle idee del regista, un compendio della sua estetica in una resa formale di grandissimo impatto visivo. Dalla musica di Wagner (torna qui il Preludio e morte di Isotta già utilizzato nell’Age d’or) all’abito da sposa, simbolo di purezza, al volto sanguinante di Alejandro (altro riferimento al film d’avanguardia del ‘30) all’apice della tensione amorosa e nel punto stesso della morte.
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