I pugni in tasca che Marco Bellocchio (n. 1939) gira nel 1965 sono il primo segnale nella cultura italiana dell’imminente ’68. In una chiave non politica in senso stretto, ma rivolta piuttosto alle dinamiche familiari, sottese a quelle sociali. Un ’68 dell’anima a cominciare dallo stesso titolo, citazione da Ma Bohème di Arthur Rimbaud: «Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; / e anche il mio cappotto diventava ideale. / Andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo seguace. / Oh! quanti amori splendidi ho sognato!». Protagonista del film è un diciottenne, Ale (Lou Castel), animato da un’assoluta quanto incontrollabile pulsione distruttiva, che non esita di fronte al matricidio e al fratricidio. Sempre in bilico tra deliri di onnipotenza e frustrazioni mal represse, soccombe a sua volta nel corso di una crisi epilettica. Solo e inascoltato.
La fama di Bellocchio regista «contro» nasce qui, da questo film che, per ragioni puramente economiche, pone in scena una parte della vita personale dell’autore: la casa di famiglia, a Bobbio, in Valtrebbia, e la città di Piacenza, sua «piccola patria». Tuttavia il senso del discorso non può essere più generale e meno autobiografico. In discussione c’è un intero mondo che cambia, una generazione in cerca di un ruolo e di una dimensione in un’Italia che sta mutando vertiginosamente e non certo in meglio. Il tutto con gli umori, i grumi di una sensibilità acutissima che sa vedere oltre il reale anche se non riesce a razionalizzarlo. Succederà spesso nei film di Bellocchio.
A monte di questo esordio cinematografico c’è anche il dibattito culturale sviluppato sulla rivista «Quaderni piacentini» diretta da Piergiorgio, fratello maggiore del regista, che dal 1962 al 1965 osserva con grande attenzione il mondo giovanile di quegli anni. Tra queste due esperienze – militanza politica e analisi psicologica dell’esistenza – si collocano la poetica e l’estetica di Bellocchio, coerentemente portate avanti nell’intera attività artistica non solo mediante il cinema, ma anche l’animazione culturale, il documentario, la tv e il teatro.
Il ’68 e dintorni: la normalità della violenza
Dalla scarna e, tutto sommato borghese, biografia del regista piacentino alcuni dati presentano una certa rilevanza per la sua arte: l’educazione cattolica negli anni dell’infanzia (il collegio di Nel nome del padre è un riflesso personale oltre che un omaggio al Jean Vigo di Zéro de conduite) e l’adesione al comunismo più radicale negli anni della maturità. Altro dato: il padre del regista, l’avvocato Francesco, muore quando Marco è adolescente e in moltissimi suoi film, a cominciare proprio da I pugni in tasca, il disagio (psichico e sociale) scaturisce in primo luogo dall’assenza di una figura paterna. O, per contrasto, da una presenza ossessiva, fortemente connotata in senso negativo.
Dopo I pugni in tasca vengono La Cina è vicina, (1967), Nel nome del padre, (1972), Sbatti il mostro in prima pagina (1973), e Marcia trionfale (1976). Tutti rappresentano microcosmi chiusi (un circolo di partito, un collegio, la redazione di un giornale, una caserma e, tratto comune, la famiglia) al cui interno si sviluppano drammatiche dinamiche individuali e di gruppo che portano alla follia, alla morte, alla disperazione, all’avvilimento della persona. Luoghi circoscritti che sono terreni di coltura di una realtà più grande fatta a sua volta di violenza e ipocrisia.
Emblematico, per esempio, il personaggio del capitano Asciutto (Franco Nero), in Marcia trionfale. Benché costui non abbia figli, esercita sui suoi soldati, in particolare sulla recluta Paolo Passeri (Michele Placido) un ascendente paterno e, all’interno del mondo chiuso della caserma, rappresenta un modello, sia pure in una forma e in una prospettiva aberrata. Parlando con Passeri, Asciutto riassume così le sue folli teorie pedagogiche: «In fondo mi basterebbe poco: che [mia moglie] mi desse un figlio. Avere qualcosa da impastare, da plasmare… Che diventi davvero quello che vuoi tu. Da tenere sotto tiro dal primo giorno di vita. Un uomo lo puoi far diventare quello che si vuole, no? Sai che bello vedere la gente cambiare sotto i tuoi occhi […] Pensa, un figlio tuo tutta la vita. Da piccolo, di notte, lasciarlo piangere. Poi mandarlo alle scuole pubbliche. Acqua fredda e senza riscaldamento. E dopo la quinta elementare, tutta l’estate all’estero, così impara ad arrangiarsi. E dopo la terza media, a puttane! Ce lo porto io: saltare il periodo delle seghe…»
Tra i lavori del periodo ce n’è uno, del 1974, che introduce un’altra delle linee portanti l’ideologia (e dunque l’estetica) di Marco Bellocchio: l’interesse per i fenomeni e le manifestazioni della psiche. Si tratta di Matti da slegare, documentario «a otto mani» girato in collaborazione con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, commissionato dall’Assessorato alla Sanità della Provincia di Parma. Il film nasce come due distinti reportage, intitolati Nessuno o tutti e Matti da slegare, la cui durata complessiva oltrepassa le 4 ore. Anche qui si parte da una citazione poetica: «Nessuno o tutti – o tutto o niente. / Non si può salvarsi da sé. / O i fucili – o le catene. / Nessuno o tutti – o tutto o niente» è il refrain di Polvere da sparo, dalle Poesie di Svendborg di Bertolt Brecht, autore particolarmente amato, studiato e rappresentato dagli intellettuali di sinistra negli anni ’70. Tema è la devianza psichica, ma siamo negli anni in cui Franco Basaglia si batte per la chiusura dei manicomi. «La follia è una condizione umana» scrive Basaglia. «In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». Parole fatte proprie dagli autori del film che, almeno sullo schermo, aboliscono le barriere che la società, il pregiudizio, la tradizione e l’interesse economico erigono attorno alla cosiddetta devianza psichica.
Bellocchio incarna, insomma, la coscienza critica del sistema, analizzato e aggredito nelle sue varianti più retrive e nell’ambito del più classico trittico delle oppressioni: la religione, lo stato e la famiglia. Non a caso Pier Paolo Pasolini scrive a Bellocchio: «Le auguro […] di turbare sempre più le coscienze dell’Esercito, della Magistratura, del Clero reazionario, e insomma della Piccola Borghesia italiana, a cui abbiamo il disonore di appartenere».
Quell’imbecille di Freud, quell’inutile Marx
Negli anni ’70 Bellocchio stringe amicizia con lo psicanalista “eretico” Massimo Fagioli (secondo cui Freud è «un imbecille» e Marx «necessario ma non sufficiente») e finisce con il trasferire le sue teorie nelle proprie opere, soprattutto quelle degli anni ’80. Fagioli entra addirittura nei processi creativi dei film in modo sempre più determinante tanto da diventarne, in alcuni casi, cosceneggiatore. Sono gli anni della crisi delle ideologie (e dell’ideologia comunista in particolare) nel momento in cui stanno maturando grandi sconvolgimenti politici: la fine della cosiddetta Prima Repubblica sotto le inchieste giudiziarie di Mani Pulite e Tangentopoli, il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione del blocco sovietico.
Su una cosa Fagioli ha ragione e, in tale analisi, l’ex cattolico e comunista “pentito” Marco Bellocchio non può che trovarsi d’accordo con lui: «Il comunismo ha ignorato e annullato l’inconscio. Lo stesso ha fatto e fa il cristianesimo per cui l’inconscio o non esiste o è il Male. Tuttavia l’identità umana […] non è la Ragione: bisogna volgere la ricerca verso ciò che non è Ragione, l’irrazionale». Questa affermazione può essere letta in filigrana sotto molti film che Bellocchio gira tra l’80 e il ’94: Salto nel vuoto (1980), Gli occhi, la bocca (1982), Diavolo in corpo (1986), La visione del sabba (1988), La condanna (1991) e Il sogno della farfalla (1994). Periodo e titoli che rappresentano probabilmente il momento più debole del Bellocchio autore. Debole perché non solo vengono meno i supporti ideologici (le certezze) che l’avevano accompagnato e sorretto negli anni precedenti, ma viene anche meno quella rabbia interiore che, se da un lato porta alla follia, dall’altro reca in sé una carica eversiva dirompente proprio perché non sottoposta ad alcun controllo.
Enrico IV (1984) da Pirandello e Il principe di Homburg (1996) da Von Kleist sono le due opere che segnano il progressivo distacco dall’influenza di Fagioli pur mantenendo il regista un grande interesse sul rapporto che intercorre tra follia e realtà in quella fascia di confine (il sogno) dove l’una confluisce nell’altra ed entrambe sfumano nel mistero dell’inconscio. Folle è il personaggio pirandelliano che si rifugia in una falsa follia ossia in una prigione mentale ben più atroce di un carcere di pietra. Il personaggio kleistiano, che ha ottenuto un’insperata vittoria in seguito a un atto di insubordinazione, viene chiamato a giudicare se stesso. Deve scegliere se affrontare la morte per aver trasgredito gli ordini o rifugiarsi nella viltà e aver salva la vita. Qui è il sogno a essere più forte della realtà. Un finale ricalcato sette anni dopo in Buongiorno notte (2003), con quella apertura all’impossibile che consente ad Aldo Moro, prigioniero delle Br, di concludere la propria vita (e la propria parabola politica) con la fuga in una dimensione onirica, che però ci restituisce la sua storia nella maniera più autentica.
E, ancora una volta, il titolo è preso da una lirica: «Buongiorno, mezzanotte. / Torno a casa. / Il giorno si è stancato di me: / come potevo io – di lui? / Era bella la luce del sole. / Stavo bene sotto i suoi raggi. / Ma il mattino non mi ha voluta più, / e così, buonanotte, giorno! / Posso guardare, vero, / l’oriente che si tinge di rosso? / Le colline hanno dei modi allora / che dilatano il cuore. / Tu non sei così bella, mezzanotte. / Io ho scelto il giorno. / Ma, ti prego, prendi una bambina / che lui ha mandato via» (Emily Dickinson).
Ci vuole un Padre… un padrino, un patrono
Le opere successive al Duemila – L’ora di religione (2002), Buongiorno notte (2003), Sorelle Mai (2006), Vincere (2009), Bella addormentata (2012) e Sangue del mio sangue (2015) – riportano il regista a quell’impegno ideologico che aveva contraddistinto l’inizio della sua carriera, sempre però filtrato da un’accurata analisi psicologica delle dinamiche esistenziali e familiari. Quasi un ritorno alle origini, ma con un respiro più ampio, una maggiore lucidità e minore frenesia. Sicuramente il primo scorcio del XXI secolo ha poco a che vedere con i «favolosi anni ’60», ma nel frattempo il mondo è peggiorato e il nostro paese più di altri. Un decadimento morale prima ancora che politico. Dove le forze più retrive (ancora Dio, patria, famiglia?) hanno cambiato pelle, ma non sostanza. Si sono modificate nella forma, ma non nell’azione pervasiva all’interno della società. E poco importa se sullo schermo scorrono vicende ormai consegnate agli annali come Il caso Moro, Il caso Englaro, la torbida origine del fascismo o il totalitarismo curiale della Chiesa Militante: il discorso di Bellocchio è sempre rivolto all’oggi e nelle tasche del suo paletot le mani sono sempre chiuse a pugno.
Singolare anche il fatto che l’unico film in cui il regista rappresenta un tenero, bellissimo rapporto padre-figlio è L’ora di religione: quello tra Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto), il protagonista, e Leonardo, il suo bambino di 7-8 anni. In questa stessa pellicola emerge peraltro, più che altrove, la valenza negativa della figura paterna come «culla degli atti ribelli». Lo si capisce dal dialogo tra Ernesto e sua zia Maria (Piera Degli Esposti), anima della macchina mediatica che dovrebbe portare sugli altari la madre di Ernesto, uccisa da uno dei suoi cinque figli, malato di mente.
«La famiglia Picciafuoco non conta più nulla perché non ha un protettore» attacca la zia. «Perché senza un protettore… un padre… un padrino… un patrono, non sei nulla. Qualunque padre, purché sia un padre: la massoneria, l’Opus Dei, l’Istituto Gramsci, la Famiglia Marchigiana, il Circolo della Caccia, i Terziari Francescani… Per ritrovare il padre, la famiglia Picciafuoco deve conquistare un titolo che le restituisca dignità, prestigio, riconoscibilità… Voi rischiate l’anonimato, il nulla. Questo titolo è la santificazione di tua madre… I vostri figli devono tornare ad avere quella posizione di privilegio che voi, per i vostri ideali fallimentari, avete sperperato».
«Il mondo non cambierà mai…» commenta amaramente Ernesto.
«E perché dovrebbe cambiare?» insiste la zia.
«Perché se non si mandano a fare in culo i padri e le madri… Ma definitivamente, radicalmente…» insorge Ernesto.
«Ma non ti vergogni a parlare ancora così? A perseverare nell’idiozia?»
Dunque, a 35 anni da I pugni in tasca, Bellocchio (ri)legge l’esistenza come atto di ribellione ai «padri», mentre gli «ideali fallimentari» sono quelli di emancipazione, di rivolta contro le convenzioni domestiche, lo scardinamento della famiglia, mattone basilare dell’intera architettura sociale e ideologica del potere. Per altro verso, il «mondo che non cambierà mai» è la morte delle idee e la tomba delle libertà. Eppure, c’è ancora chi «persevera nell’idiozia» di credere che la società (le persone) si possano cambiare e persino cambiare in meglio.
A questo stesso proposito è significativo che l’ultimissima produzione del regista torni a essere ambientata fisicamente nella Bobbio del primo film cui si riconnette, più di ogni altro, il recentissimo Sangue del mio sangue. Opera che ci parla di un contesto attuale, anche se i suoi personaggi indossano costumi seicenteschi. Come in Buongiorno notte, anche qui Bellocchio non esita di fronte alla forzatura storica pur di colpire il bersaglio. L’amore umano, terreno è l’unica espressione sensata dell’animo. Le sofferenze e le torture inflitte alla monaca affinché confessi il suo commercio con il demonio sono una passione laica e femminista che culmina nella più pura e blasfema delle resurrezioni. Ci sono echi di Dreyer nella storia di Benedetta, con il coro delle novizie nel chiostro, la tonsura, le lacrime, le torture dell’Inquisizione. E come in Dreyer, altro regista fatto passare indebitamente per religioso se non addirittura per mistico, “tutto è amore”. Ma non quello di Dio, bensì quello terreno e carnale di un uomo e di una donna. Anche se lui è un prete e lei una monaca.
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