I modelli culturali che hanno ispirato il regista tedesco Wim Wenders (n. 1945) nel corso della sua carriera, iniziata nel 1970 con l’esordio nel lungometraggio Estate in città, rimandano al cinema francese della Nouvelle Vague e al cosiddetto cinema classico americano, ossia quello prodotto dalle Major tra gli anni ‘30 e i ‘50. il cinema dei divi, dei generi, dei codici. Molto presenti anche i riferimenti letterari, sia da autori tedeschi che americani. Del resto lunghi soggiorni di studio e di lavoro hanno portato il regista per molti anni sia in Francia sia negli Stati Uniti. Autore eclettico, Wenders ha girato anche numerosi documentari e cortometraggi, si è occupato di televisione e nuove tecnologie. Oltre che dietro la macchina da presa, si è cimentato come produttore e sceneggiatore. Appassionato di musica, ha frequentato anche questo ambito artistico portando sullo schermo autori ed esperienze musicali. Il suo cinema è difficilmente collocabile, ma alcuni temi, per esempio il viaggio, sia in senso proprio che metafisico, rappresentano una costante. Come l’interesse dell’autore per i più diversi luoghi del mondo narrati attraverso la caratterizzazione dei personaggi che li abitano. Poliedrico, ma mai banale, nella sua ormai lunga carriera Wenders ha sempre realizzato opere di buon livello, raggiungendo spesso un’elevata qualità sia formale che espressiva.
Il film L’amico americano (Der Amerikanische Freund, 1977), anche se non appartiene al novero delle opere più famose di Wenders, è un discreto compendio della sua arte e della sua estetica. Tratto dal romanzo Ripley’s Game di Patricia Highsmith (da cui è stato desunto anche Il gioco di Ripley di Liliana Cavani, 2002) unisce riflessioni sull’arte e sulla sua natura, a cominciare dalla falsificazione di opere pittoriche, con un intreccio criminale degno della miglior tradizione thriller stelle e strisce. Anche se, alla fine, sotto l’intreccio e la suspense, non si cela altro che una storia d’amore e di amicizia. I riferimenti a modelli cinematografici importanti, disseminati qua e là sottotraccia dal regista, sono numerosi.
Si va dalla lezione dell’ultimo Welles (F for Fakes, 1973), che tratta l’argomento della pittura e della sua falsificazione, sia pure con un approccio molto diverso, al Cassavetes di Assassinio di un allibratore cinese (1976) per le atmosfere cupe e il tema del ricatto. Ma esistono anche altri frammenti importanti come la citazione indiretta di Buster Keaton attraverso il giocattolo del bambino con la locomotiva che si chiama The General (titolo originale del film Come vinsi la guerra, 1926) o i numerosi strumenti ottici basati sui principi della lanterna magica, l’antenata del cinema. Infine, aspetto non indifferente, il coinvolgimento sul set di amici registi americani come Nicholas Ray, guarda caso nel ruolo di un pittore, e Samuel Fuller in quello di un gangster. In buona sostanza il regista tedesco si mostra abile nell’assimilare i migliori modelli del cinema europeo e americano (non necessariamente i più premiati al botteghino) per rielaborarli in uno stile personale e con un taglio originale. Il risultato è un’opera di notevole impatto visivo, dalla serrata drammaturgia e dalla perfetta scansione scenica.
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