I film di Luchino Visconti (1906-1976) hanno rappresentato la coscienza critica dell’arte cinematografica del secondo dopoguerra anche quando l’aristocratica freddezza del suo occhio disincantato ha fatto credere che prendesse il sopravvento in lui il lato estetizzante della sua personalità. «Aristocratico e comunista, realista e decadente, innovatore e conservatore: pseudo antinomie – scriveva Guido Aristarco – che nella loro feconda contraddizione dialettica» definiscono un apporto poetico senza uguali, un’opera che, come tutte quelle autenticamente rivoluzionarie, è sempre stata in anticipo rispetto ai tempi.
All’inizio degli anni ‘40 l’Italia è in guerra. Alle spalle, il Ventennio Fascista ossia autarchia culturale, provincialismo, chiusura alle novità che si sono sviluppate all’estero, soprattutto in Francia e in America. L’industria cinematografica nazionale produce le cosiddette “commedie dei telefoni bianchi”, riduzioni di opere liriche e di romanzi ottocenteschi e film di propaganda militare. Visconti sovverte di prepotenza tale clima con Ossessione (1943), tratto liberamente dal romanzo americano Il postino suona sempre due volte di James Cain, vietato dal regime. Ossessione svecchia di colpo il cinema italiano, impone uno stile e apre le porte a quello che verrà chiamato neorealismo. Visconti aveva letto il libro di Cain in Francia dove erano maturate le esperienze determinanti della sua esistenza: la cultura marxista del circolo di Jean Renoir, di cui era stato aiuto regista, e la scoperta della propria omosessualità.
Nel dopoguerra nessuno osa spingersi tanto in là nell’uso degli strumenti ideologici ed estetici del neorealismo quanto Visconti con La terra trema (1948). Girato in siciliano stretto e quasi senza sceneggiatura, mobilitando sul set un’intera comunità di veri pescatori, il film rappresenta il vertice insuperato e insuperabile di quella breve stagione. Ma la sua specificità sta, soprattutto, nella rilettura marxista dell’opera di Verga. Di lì a poco il neorealismo comincia a trasformarsi nel suo prodotto più spurio: la commedia all’italiana. Nel 1953, mentre Luigi Comencini gira Pane amore e fantasia, Visconti realizza Senso. Quando ormai gli sceneggiatori scrivono solo storie legate all’attualità, ambientate nei quartieri popolari e per attori “presi dalla strada”, lui mette in scena la novella dello scapigliato Camillo Boito, tra ville palladiane, saloni affrescati dal Veronese e teatri d’opera. Senso diventa la pietra dello scandalo della critica più miope, schierata a una inutile difesa del neorealismo, e la pietra tombale dei suoi “cascami”. Anche il precedente Bellissima (1951), che pure del neorealismo conservava i tratti estetici, ne rappresenta un superamento proprio in quel suo guardare con occhio impietoso dentro la macchina del cinema e la sua fabbrica delle illusioni che si appropria, alienandola, della coscienza delle persone.
Nel 1957 Visconti spiazza ancora la critica con Le notti bianche, da Dostoëvskij, ambientato in un set interamente ricostruito in studio, levigato e artificiale come una miniatura, nel quale gli attori si muovono con cadenze geometriche e dove i sentimenti e le passioni diventano teoremi intellettuali. L’esistenzialismo ha immerso l’uomo nel dubbio, nell’incomunicabilità e lo scrittore russo fornisce al regista la cornice narrativa in cui collocare questa nuova realtà. Le ferree leggi dell’industria culturale – e in particolare proprio quelle della produzione cinematografica – sono rese esplicite dal costante rimando a un “altrove” che è, nello stesso tempo, negato: destino comune all’uomo e all’arte, secondo una concezione particolarmente cara a Visconti. L’alienazione e lo spaesamento dell’individuo sono anche il leit motiv narrativo dello Straniero (1967), dall’omonimo romanzo di Marcel Camus, che peraltro non rientra nel novero dei capolavori di Visconti per un’eccessiva freddezza della messa in scena.
Nei primi anni ‘60 l’Italia è in pieno boom industriale. Enormi masse di forza-lavoro si spostano dalle campagne e dal Meridione verso le aree urbane e industriali del Nord. Le grandi città crescono a dismisura. Quelle stesse folle che vivono quotidianamente il disagio dello sradicamento e l’alienazione della catena di montaggio, al cinema sorridono per le imprese dell’arrivista Gassman nel Sorpasso (1963) di Dino Risi. Visconti invece le scuote e le richiama alla coscienza di classe, alienate e sfruttate al pari dei pescatori di Acitrezza, con Rocco e i suoi fratelli (1960), tragedia greca sotto forma di melodramma dove la sorte degli uomini sembra governata unicamente dal gioco cieco del Destino. Nello stesso torno di tempo, come già aveva fatto con Senso, si sottrae alla retorica del centenario dell’Unità italiana (1961) con Il gattopardo (1963), specchio storico di una borghesia (contemporanea) conformista e retriva, tanto corrotta quanto spregiudicata. Visconti, che ha contribuito non poco alla sovversione degli schemi e delle regole (nella società e nel cinema), concepisce e realizza nell’arco di un quinquennio la cosiddetta “trilogia germanica”: La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971) e Ludwig (1973). Sono i tre film che meglio compendiano il suo universo poetico fatto di ossessione della morte laicamente intesa come fine (scopo) dell’esistenza, il futuro come passato da riconquistare, la libertà dell’individuo di fronte alla storia, ma non di fronte al proprio destino di sconfitta.
Di fronte al crepuscolo della vita
Girato quando tutti erano improvvisamente diventati barricaderi, col suo essere intimista, crepuscolare e aristocratico, nonché ampiamente sottovalutato, Gruppo di famiglia in un interno (1974) è il film in cui Visconti, con la figura del professore e del suo misterioso inquilino del piano di sopra (la morte), dà una risposta autenticamente eversiva al clamore falsamente rivoluzionario dell’epoca. Più o meno la stessa cosa che aveva già fatto nel 1965 in un altro film, sottovalutato e ancora oggi classificato, nella migliore delle ipotesi, come opera minore: Vaghe stelle dell’orsa. Le famiglie, concentrato e specchio della società, microcosmi dove pulsano e si aggrumano gli umori e le tensioni, le miserie e le contraddizioni della storia, costituiscono il teatro su cui rappresentare l’impasse di un presente privato delle utopie. Non altro senso hanno infatti gli incesti e i soprusi, l’omosessualità e i suicidi che costellano la parabola, fatalmente discendente, di tutti questi sconfitti: il principe di Salina, i Luzzatti, i von Essenbeck, i Wittelsbach, von Aschenbach… Al pari di quanto messo in scena nell’ultima opera, L’innocente (1976). Qui Visconti si rivolge in modo esplicito ad alcune sue matrici culturali – il decadentismo e Proust – che risalgono alla giovinezza e alla formazione francese. Per molti il film è “scandaloso” proprio perché il Visconti precedente vi si legge a malapena. Tuttavia è legittimo chiedersi, come fa Renzo Renzi nel suo Visconti segreto (Laterza, 1994), se, al crepuscolo della vita, in quell’innocente destinato al sacrificio, il regista non abbia voluto rappresentare se stesso e la propria dissipazione per l’arte davanti all’enigma della morte. Esattamente come nel personaggio del professore di Gruppo di famiglia in un interno.
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