Gli anni ‘70 sono il periodo in cui, per numero di film, autori e riconoscimenti internazionali la cinematografia tedesca arriva al suo apice. La rinascita era partita nel 1962 con il cosiddetto Manifesto di Oberhausen, dalla città della Renania in cui era stato stilato. Nel Manifesto, 26 giovani autori, tra cui Edgar Reitz, Volker Schoendorff e Alexander Klüge, denunciavano la crisi della cinematografia nazionale e annunciavano la volontà di dare vita a un nuovo modo di fare cinema, libero nel linguaggio e svincolato da regole commerciali. È l’atto di nascita del cosiddetto Nuovo Cinema Tedesco, modellato, almeno in un primo tempo, sulle analoghe istanze della coeva Nouvelle Vague francese. Sulla spinta di tale movimento artistico, anche l’apparato politico della Repubblica Federale (l’allora Germania Ovest) si muove con una seria di iniziative legislative volte ad ammodernare la catena distributiva, finanziare le opere dei giovani autori e garantirne la distribuzione nelle sale. Si mette così in moto un volano economico e culturale che incoraggia la realizzazione di pellicole a basso costo e il reclutamento di nuovi attori, tecnici e registi che trovano condizioni favorevoli per esordire. Tra la fine del ‘60 e il decennio successivo si affaccia così alla ribalta internazionale un folto gruppo di autori tra cui, oltre a quelli citati, Rainer Werner Fassbinder, Margarethe Von Trotta, Hans Jurgen Syberberg, Wim Wenders e Werner Herzog. Personalità differenti con differenti visioni del mondo e dell’arte cinematografica che hanno creato capolavori apprezzati in tutto il mondo e non solo in patria.
Nello stesso decennio, oltre a un notevole sviluppo economico, la Germania conosce peraltro fenomeni di forte tensione sociale nelle fabbriche, l’attentato durante le Olimpiadi di Monaco del 1972, la crisi energetica planetaria del 1973 e il terrorismo con la Raf (Rote Armee Fraktion) paragonabile alle nostre Brigate Rosse. Di tutto questo, e di mai sopiti rigurgiti neonazisti, narra il regista Alexander Klüge nel suo racconto Il bolscevico del capitale da cui nel 1976 trae il film Ferdinando il duro (Der Starke Ferdinand, lett. Ferdinando il forte). Opera originale, fortemente improntata all’ironia pur nell’estrema verisimiglianza delle situazioni, corrosiva e a tratti quasi grottesca, mette nel mirino la proverbiale mania per l’efficienza del popolo tedesco attraverso la figura singolare, ma non così anomala, di Ferdinand Rieche, funzionario di polizia maniaco dei sistemi di sicurezza. Con una dedizione che può trasformarsi in pignoleria o in cieca accettazione dei regolamenti. Attraverso questo personaggio il regista condanna l’approccio militarista ai problemi sociali, sempre presente sottotraccia anche nello stato democratico, e la spregiudicata economia di mercato adottata nel suo paese come in tutta l’Europa occidentale.
Il funzionario di polizia Ferdinand Rieche decide di lasciare il corpo di appartenenza perché impossibilitato «dalle leggi ridicole dello stato costituzionale» a svolgere al meglio il suo compito. Viene quindi assunto da una multinazionale, con il compito di organizzare la protezione e la sicurezza interna degli impianti. Nella sua razionale paranoia, Rieche diventa così simbolo e paradigma di una realtà politica e sociale, quella tedesca degli anni ’70, contraddittoria e complessa, la cui unica preoccupazione è la produzione di capitale. Una realtà incapace di guardare alla propria storia e che si proietta nel futuro priva di punti di riferimento. Nel suo film Klüge descrive una società che si definisce democratica ma che nel profondo non ha abdicato all’autoritarismo. La fabbrica come metafora di un sistema basato sul sospetto, sulla repressione, sulla violenza, sul controllo del “diverso.
Nella sua ottusa e lucida follia, lo stesso Rieche non è altro che una vittima grottesca, esasperata, assurda, ma non per questo meno reale, di un processo sociale alienante, in cui la vita scorre senza avere «un obiettivo preciso», come spiega nella scena finale del film. È per non sprofondare nel vuoto che ha fagocitato la sua esistenza che Rieche s’identifica, fino al parossismo, nel ruolo che riveste di responsabile della sicurezza. È per rivendicare un’identità, che Ferdinand finisce con l’indossare le vesti di quel nemico (il terrorista, il sabotatore) attraverso cui può giustificare e conferire senso alla propria esistenza. Nella struttura formale del film peraltro il regista opera in senso opposto a quello attribuito e descritto dal suo personaggio. A cominciare dalla voce narrante che invita lo spettatore a partecipare alla creazione di significato rispetto a quello che sta vedendo e a scardinare, quindi, il sistema chiuso, predefinito e rigidamente controllato del protagonista.
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