Anche Kubrick, Come Losey, è “un americano a Londra”, scelta dovuta in questo caso alla refrattarietà dell’autore verso le regole ferree dell’industria cinematografica statunitense che non consentivano (né consentono tutt’oggi) il controllo totale del regista sulla propria opera delegando tale compito al produttore. Kubrick arriva in Gran Bretagna nei primi anni ‘60 per dirigere Lolita e nel Regno Unito trova quella libertà di azione ed espressione che nell’ultimo film americano (Spartacus, 1959) erano state messe a dura prova dalla presenza sul set del protagonista (e divo) nonché produttore Kirk Douglas. Dopo la messa in scena del romanzo di Nabokov, Kubrick realizza il film di critica sociale Il dottor Stranamore (1963) che si impone per la feroce satira e la visionarietà della messa in scena. A fine decennio è la volta di uno dei maggiori successi del regista: 2001 Odissea nello spazio (1968) giustamente considerato una pietra miliare della storia del cinema. Frattanto, anche i tempi sono cambiati. L’Inghilterra, e Londra in particolare, sono al centro di novità planetarie in campo musicale (Beatles e Rolling Stones su tutti), nella moda (Mary Quant e la sua minigonna) e, più in generale, nell’evoluzione sociale che sfocerà di lì a poco nella varie “rivoluzioni” caratteristiche del decennio (sessuale, razziale, studentesca ecc.). Per contro, in una società diventata estremamente fluida nelle sue componenti, non mancano subculture caratterizzate da elementi di rottura radicale e di disagio collettivo come il fenomeno delle bande criminali giovanili (Teddy Boys per esemplificare).
Cogliendo tutti questi aspetti della nuova società, nel 1970 Kubrick mette in scena il romanzo distopico di Anthony Burgess intitolato Arancia meccanica (A Clockwork Orange, in originale) uscito una decina d’anni prima. Mescolando suggestioni letterarie (Orwell, per esempio) e cronaca quotidiana Burgess aveva scritto un romanzo ambientato in un prossimo futuro governato da cinici politicanti inclini all’autoritarismo, in cui le libertà fondamentali sono garantite solo sulla carta e dove la forte sperequazione sociale crea un costante stato di malessere che si estrinseca in forme di violenza. Protagonista del romanzo è Alex, capo carismatico di una banda di teppisti, che narra in prima persona le vicende in cui viene coinvolto. Incluso un periodo di reclusione e la successiva terapia di recupero fondata su teorie pseudoscientifiche.
Contrariamente a quanto aveva fatto (e farà) in molte altre occasioni, Kubrick è abbastanza fedele alla lettera e allo spirito del romanzo di Burgess che evidentemente avverte come vicino alle proprie corde e al tipo di messaggio che vuole veicolare con il suo film. Di notevole importanza risulta a questo punto la messa in scena con un’ambientazione quasi psichedelica (inclusa l’ambientazione in una villa progettata dall’archistar Norman Foster) a partire dalle innovazioni della moda, del design e dell’arte maturate appunto tra la fine dei ‘60 e l’inizio dei ‘70. Scenografia e costumi sono di grande impatto e sempre funzionali alla trama in quanto il regista si serve della loro gamma cromatica a fini espressivi. Notevolissimo anche l’uso della colonna sonora con brani (arrangiati) di musica classica (Beethoven, Rossini, Elgar…) e di musica rock che dialogano costantemente con l’immagine fino a diventarne il contrappunto indispensabile come nel caso della Nona sinfonia di Beethoven utilizzata nel corso della terapia riabilitativa cui Alex viene sottoposto dopo la carcerazione.
All’uscita del film si parlò molto dell’esibizione di violenza (e sesso) contenuta in alcune scene al punto che la pellicola venne boicottata/vietata a livello di distribuzione (in Italia, per esempio, uscì col divieto dei minori di 18 anni) e, da una certa parte della critica, anche stroncata. A distanza di mezzo secolo, con quello cui ci ha abituato il cinema (e la tv) in questo frattempo, la violenza di Arancia meccanica appare meglio per quello che è: più suggerita che esibita, talvolta quasi simile a una vera e propria coreografia. In questo senso si deve leggere anche la recitazione impostata da Kubrick: mai naturalistica e, in alcuni ruoli (la guardia carceraria, i genitori di Alex, lo scrittore…), decisamente forzata su toni quasi grotteschi. Incluso il linguaggio in slang desunto dal romanzo e mantenuto nel film. Nel cast il regista trova inoltre nell’allora semisconosciuto Malcolm McDowell (al suo quarto film) la perfetta incarnazione di Alex.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.