Robert Bresson (1901-1999) nasce in una famiglia borghese di avvocati e medici, ma la sua vocazione lo porta verso le arti, in particolare la pittura. Al cinema arriva quasi per caso nel 1934, quando realizza il suo primo film, il cortometraggio di 25 minuti intitolato Affaires publiques. Di un umorismo surreale, alla René Clair, è la parodia delle manifestazioni pubbliche tipiche delle dittature in un immaginario paese. Immaginario, ma non troppo, visto che Hitler aveva appena preso il potere in Germania. Nel 1939 collabora proprio con René Clair al progetto dal titolo Air pure che l’inizio della Seconda Guerra Mondiale impedisce di realizzare. Durante il conflitto passa un anno e mezzo in un campo di prigionia tedesco, esperienza che si riverbera nel suo film Un condannato a morte è fuggito (1956). Nel 1943, nella Francia di Vichy, realizza il suo primo lungometraggio: La conversa di Belfort (Les anges du péché) cui seguiranno altri 12 titoli in quasi mezzo secolo di attività artistica. Pochi, in senso assoluto, ma tutti realizzati solo a condizione di poter avere l’ultima parola su ogni scelta estetica. Nella storia del cinema, non solo francese, Bresson occupa un posto del tutto particolare: autore inclassificabile, non legato ad alcune scuola, ad alcun gruppo o movimento. Artista solitario, silenzioso, quasi segreto. Un perfezionista sul set nella ricerca dell’essenzialità dell’immagine e dei dialoghi per i quali si è avvalso talvolta della collaborazione di grandi scrittori come Jean Giraudoux, per La conversa di Belfort, e Jean Cocteau, per Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne, 1945). Grandi scrittori figurano anche tra le fonti d’ispirazione: Pickpocket-Il diario di un ladro (1959) e Quattro notti di un sognatore (1971) dall’amatissimo Fedor Dostoevskij e Lev Tolstoj per L’argent (1983), l’ultimo film realizzato. Bresson si è ispirato anche a scrittori francesi, come Georges Bernanos per Il diario di un curato di campagna (1951) e Mouchette (1967), e Chrétien de Troyes per Lancilotto e Ginevra (Lancelot du Lac, 1974). La poetica e l’estetica del regista sono condensate in una breve raccolta di pensieri dal titolo Note sul cinematografo, edito in Italia da Marsilio.
Nell’opera di Bresson la dimensione spirituale ha sempre un ruolo di primo piano, motivo per cui al regista è stato spesso attribuito un intento apologetico nei confronti del cristianesimo. La sua fede appare invece estremamente problematica e tormentata. Come forse è dato solo a chi è nato in Francia, unico paese a maggioranza cattolica che abbia conosciuto le guerre di religione. In tutti i suoi film, infatti, l’esperienza religiosa è vista come inappagata tensione verso Dio che si traduce in sofferenza senza speranza e nell’annientamento della vita stessa.
Adelio Ferrero ha sintetizzato questo aspetto della poetica del regista con l’ossimoro di «cristianesimo ateo». In Mouchette, per esempio, l’esistenza dell’adolescente che dà il titolo alla pellicola è soffocata dalla miseria fisica e spirituale fino alle peggiori bassezze, fino alla violenza carnale. Tanto che soltanto la morte (e la morte per suicidio) diventa l’unica via di uscita. E l’abito bianco, lacerato da un rovo, che Mouchette perde nel precipitare nel fiume, simbolo della sua intatta purezza nonostante lo stupro, è la metafora della possibilità (non della certezza!) che il Nulla non sia la parola definitiva. Attraverso la triste vicenda di questa adolescente, Bresson sembra accettare la scommessa pascaliana sul destino dell’essere umano proprio perché per lui la fede non può avere alcun fondamento razionale.
Ferrero ha parlato anche di giansenismo della messa in scena bressoniana: «La severità della sua scrittura cinematografica [è] puntigliosissima nel circoscrivere e dilatare il significato interiore di un dettaglio quanto ellittica e reticente nello sfiorare i rapporti e le situazioni più dense e “drammatiche”». Prendiamo ancora come esempio la sequenza finale di Mouchette: l’assenza di dialogo e la ripetitività dei gesti della ragazzina si sublimano in qualcosa di metafisico, sottolineato dalla musica del Magnificat di Monteverdi che inizia solo dopo che Mouchette è scomparsa per sempre nelle acque del fiume.
Che per Bresson «L’unico gesto libero che l’uomo sembra compiere sia quello di morire» è provato anche dal fatto che il suicidio è un vero e proprio leit motiv in quasi tutti i suoi film. La narrazione di Così bella, così dolce (Une femme douce, 1969) è interamente racchiusa in flash back a partire dal suicidio della protagonista, al pari del Diavolo probabilmente (Le diable probablement, 1977). Quest’ultimo film mette in scena il suicidio del giovane Charles per interposta persona, alla maniera degli antichi romani che si facevano trafiggere con la spada da un servo, dopo che il suo itinerario esistenziale si è configurato come un incessante, disperato, lucido, a tratti persino voluttuoso preparativo alla morte. Lo stesso destino del povero somaro protagonista di Au hasard Balthazar (1966) ha tutte le caratteristiche del «suicidio», per quanto impropria sia questa parola riferita a un animale, ovvero di una ineluttabile corsa verso la fine, verso l’annientamento preannunciato fin dalle prime inquadrature del film. Anche Marthe, la ragazza di Quattro notti di un sognatore, sta pensando al suicidio su un ponte della Senna quando viene momentaneamente “distratta” da Jacques. Il processo di Giovanna d’Arco (1962), attraverso la sintesi di uno dei giudizi più iniqui mai emessi da un tribunale nel corso della storia, non è altro che un «suicidio di stato» poiché la pulzella non si sottrae al capestro, pur avendone la possibilità, per non rinnegare se stessa e la propria fede. Anche Thérèse, la donna che si è rifugiata nel monastero di Béthanie in La conversa di Belfort, non fa che camminare verso la morte nonostante la sua ostentata voglia di vivere. E se all’inizio del film essa viene mostrata come colpevole di omicidio, dunque meritevole di condanna, alla fine ci rendiamo conto di quanto sia ingiusto quel verdetto che, nella Francia di Vichy, significava la ghigliottina. Il protagonista del Diario di un curato di campagna sconta addirittura colpe non sue e si «suicida» rifiutandosi a lungo di consultare un medico e di curarsi, al punto che ogni terapia diventa inutile.
Il termine «cristianesimo ateo» usato da Ferrero non è però del tutto sufficiente a spiegare l’essenza del cinema di Bresson. Il regista sembra voler sottrarre i suoi «eroi alla rovescia» da un contesto di salvezza e condannarli alla morte in quanto sulla terra è morta ogni speranza. Proprio in questo però essi mostrano una fortissima analogia con l’esistenza di Gesù, con il Cristo storico. Come il nazareno, ciascuno di loro assume su di sé il male del mondo con un sacrificio che appare inutile. Ciò naturalmente implica che il Regno di Dio non solo è aperto a tutti, anche e specialmente ai reprobi, agli emarginati, ma che la grazia può raggiungere direttamente ogni persona, senza alcuna mediazione che non sia l’umanità sofferente del crocifisso. Non a caso l’inquadratura finale del Diario di un curato di campagna è la nuda croce in virtù della quale (voce fuoricampo del protagonista): «Tutto è grazia».
Il cristianesimo di Bresson, disseminato di dubbi e privo di certezze dogmatiche tanto da apparire «ateo» a uno studioso laico come Ferrero, va forse ridefinito con un altro termine: scandaloso. Scandaloso nell’accezione che il Vangelo attribuisce allo stesso Gesù, pietra di scandalo, in primo luogo, per i suoi stessi discepoli («Voi tutti questa notte vi scandalizzerete di me…» Mt 26, 31). Scandaloso per la mancanza di intermediari e di simboli esteriori. Per il rispecchiarsi diretto e immediato del Cristo negli ultimi, nei disperati, nelle prostitute, nei carcerati, nei disadattati, nelle bestie da soma. Un cristianesimo quanto mai attuale proprio perché, come il messaggio a cui si ispira, continua a provocare e turbare le coscienze con l’immediatezza e la radicalità di una «scommessa» in cui si può vincere tutto, ma anche perdere tutto.
Il diavolo probabilmente
«Ciò che mi ha spinto a fare questo film è stato lo spreco che abbiamo fatto di ogni cosa. È questa civiltà di massa dove presto l’individuo non esisterà più. È questa folle agitazione, questa immensa impresa di distruzione dove moriremo a causa di ciò che credevamo ci facesse vivere. Ed è anche la stupefacente indifferenza delle persone, tranne alcuni giovani, che sono più lucidi».
Robert Bresson
Negli ultimi anni ’70 il disagio giovanile, emerso per la prima volta nel 1968, era tornato in primo piano manifestandosi soprattutto in tre forme: la ricerca di paradisi artificiali mediante le sostanze stupefacenti, la rivoluzione sessuale e la violenza terroristica. Lo scenario mondiale presentava ancora la contrapposizione ideologica dei blocchi Est-Ovest (già logora, ma tutt’altro che vicina alla dissoluzione) mentre cominciavano a manifestarsi nuovi fenomeni (l’inquinamento, l’estinzione delle specie animali e vegetali, il saccheggio delle risorse naturali, i rischi del nucleare, gli shock energetici) che condizionavano pesantemente i comportamenti collettivi e incidevano direttamente su quel disagio. Tutti segnali inequivocabili di una incombente crisi planetaria.
Il film racconta questo scenario attraverso gli ultimi sei mesi di vita di un giovane, Charles, e del piccolo gruppo di suoi amici che, a vario titolo e in vari modi, interagiscono con la sua sfera affettiva, sentimentale e ideologica. Charles si suicida benché sia un ragazzo che ha tutto, figlio di genitori benestanti, amato dalle donne, intelligente, acuto… Tuttavia è estraneo al mondo al punto da rifiutare qualsiasi forma di inserimento nella società. Va controcorrente senza essere un disadattato, non ha illusioni senza essere un contestatore (anzi: contesta la contestazione) e non accetta compromessi senza essere un idealista. Charles non crede a nulla nel senso che si rifiuta di dare un senso, sia pure «anti-qualcosa», alle proprie azioni. Illuminante, al proposito, è il dialogo con lo psicanalista che indaga il suo disagio.
«Il disaccordo con la società è il mio stato abituale» dice il giovane. Che aggiunge: «Se il mio scopo fosse il denaro e il profitto sarei rispettato da tutti».
Il medico cerca di blandirlo: «Constatare che ha ragione non la riconcilia con la vita?».
«Perdendo la vita ecco cosa perderei» gli risponde Charles estraendo di tasca alcune pagine spiegazzate di una rivista e leggendo dal sommario: «Il piano famiglia. Le vacanze organizzate, culturali, sportive, linguistiche. La biblioteca dell’uomo colto. Tutti gli sport. Come adottare un bambino. Le associazioni dei genitori, degli alunni, degli insegnanti. L’educazione da 0 a 7 anni, da 7 a 14 anni, da 14 a 17. L’educazione propedeutica al matrimonio. Gli obblighi militari. L’Europa. Le decorazioni, i distintivi, le onorificenze. Una donna sola. Le malattie degli assistiti. Le malattie dei non assistiti. L’uomo di successo. Gli esoneri fiscali per le persone anziane. Le tasse comunali. La cessione del quinto. I canoni radiotelevisivi. Il credito concesso al consumo. Le riparazioni a domicilio. L’indicizzazione dei contratti. Iva e ritenuta d’acconto…» Il giornale torna appallottolato e finisce nel caminetto.
«Lei è credente?» gli domanda il medico.
«Credo più che posso alla vita eterna, ma se mi suicido credo che non sarò giudicato per non aver capito quello che nessuno può capire».
In questo dialogo «pascaliano» tra un giovane indifeso, prima di tutto da se stesso, e chi dovrebbe salvarlo dal baratro è condensata l’essenza del cinema di Bresson. Le idee di Charles sono frutto di una scelta lucida e deliberata, non di una condizione oggettiva di degrado. Per questo il suicidio è l’epilogo inevitabile della radicale volontà di non compromettersi con il mondo, con il suo principe e il suo seduttore, secondo le definizioni che del demonio danno gli autori del Vangelo di Giovanni e dell’Apocalisse.
E che sia il diavolo ad agire sulla terra e a renderla quello che è, Bresson ce lo rivela con una breve sequenza tra le più dense e significative (anche per il linguaggio utilizzato) del suo cinema.
Charles e il suo amico Michel vengono da una lezione universitaria in cui sono stati evidenziati i temi delle questioni energetiche con particolare riferimento alla scelta nucleare, strategica per la Francia. Sono seduti su un autobus e, riprendendo il tema della lezione, Charles afferma: «Stupendo: per tranquillizzare la gente, basta negare l’evidenza».
Michel: «Quale evidenza? Siamo in pieno soprannaturale. Niente è visibile».
Charles: «Tu sei incredibile…».
La macchina da presa inquadra ora, in dettaglio, le mani dei passeggeri aggrappate ai sostegni, la luce intermittente della richiesta di fermata, le porte, le obliteratrici, i pulsanti dell’autista…
Charles: «I governi hanno la vista corta».
Un passeggero, voltandosi verso di lui: «Non prendetevela con i governi. In tutto il mondo in questo momento nessuno e nessun governo può vantarsi di governare. Sono le masse a determinare gli eventi. E le forze oscure di cui è impossibile conoscere le leggi».
Lo specchietto retrovisore con il traffico.
Una passeggera [in off]: «La verità è che qualcosa ci spinge contro quello che siamo».
Altro passeggero [sempre in off]: «Bisogna starci, starci sempre. Se no passi per quello che protesta e basta».
Terzo passeggero [inquadrato di spalle]: «Ma chi è, allora, che si diverte a farsi beffe dell’umanità? Chi ci manovra, sotto sotto?».
Primo passeggero: «Il diavolo, probabilmente».
Seduti ai loro posti Charles e Michel ascoltano. Il primo dà di gomito all’amico e indica qualcosa. È l’autista del bus, voltato verso i passeggeri, che per la distrazione provoca un piccolo incidente. La sequenza si conclude con i dettagli delle portiere aperte del mezzo, il conducente che scende per le formalità di rito mentre la colonna sonora rimanda i clacson delle automobili bloccate.
Sono due minuti e mezzo della più pura essenza cinematografica. Benché totalmente intriso degli umori, delle passioni, dei problemi del suo tempo, il film riesce a oggettivarli e sublimarli rendendoli eterni. Come appunto eterna è la lotta tra il bene e il male cui l’umanità partecipa senza consapevolezza. Come su un autobus privo di guida che finisce inevitabilmente fuori strada.
Inquinamento, disastri ecologici, contestazione (anche armata) e repressione, diffusione delle tossicodipendenze… Il film parla lo stesso linguaggio, crudo e aspro, della cronaca di quei giorni, ma ciascuno dei giovani che sono in scena reagisce in modo diverso al problematico contesto sociale della seconda metà degli anni ’70. Michel, il più positivo, razionalizza le questioni morali (o almeno tenta di farlo) coniugandole con l’impegno e la militanza ecologista. Alberte ed Edwige, entrambe amate da Charles, entrambe innamorate di lui, entrambe estranee ai suoi sentimenti più profondi, rappresentano invece il puro orizzonte sensuale in cui egli stesso afferma di credere. Eppure, sembra dirci Bresson, le vie di uscita non sono queste. Per l’umanità non c’è salvezza senza il sacrificio di un Messia che, accogliendo su di sé tutte le bassezze del mondo, rende vano l’insonne operare del suo grande seduttore.
A settantasei anni, insomma, Bresson mostra non solo una straordinaria sensibilità per il proprio tempo, ma una lucidità interiore e una scioltezza espressiva sorprendenti. Un’opera che compendia mirabilmente la sua intera filmografia tutta orientata alla (vana) ricerca di un senso all’insensatezza del vivere: «Credo più che posso alla vita eterna, ma […] non sarò giudicato per non aver capito quello che nessuno può capire».
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