Debordante, eccessivo, provocatore… Sono questi, o altri di significato simile, gli aggettivi usati in prevalenza per definire il cinema e, prima ancora, la stessa persona di Rainer Werner Fassbinder (1945-1982), talentuoso regista nonché elemento di spicco del Nuovo Cinema Tedesco. Di spicco, ma anche del tutto particolare, non iscrivibile a scuole, generi o categorie. Sia per la versatilità dei soggetti messi in scena sia per le notevoli differenze estetiche esistenti tra opera e opera. E anche per la varietà delle esperienze artistiche praticate dall’autore: cinema e teatro come regista, ma anche attore, drammaturgo, sceneggiatore e scrittore. Poliedrico e versatile Fassbinder, nonché prolifico, con 23 film girati in poco più di un decennio oltre a un buon numero di cortometraggi. Film spesso a basso costo, girati in pochi giorni e con un cast composto in parte da amici e sodali ovvero tratti da precedenti copioni teatrali dello stesso regista. Tra i titoli più noti: L’amore è più freddo della morte (film d’esordio nel 1969), Il fabbricante di gattini (1969), Attenzione alla puttana santa (1971), Le lacrime amare di Petra von Kant (1972), Effi Briest (1974), Roulette cinese (1976), Il matrimonio di Maria Braun (1979), Lilì Marlene (1981) e il testamentario Querelle de Brest (1982).
Difficile trovare una linea omogenea in tante opere, se non lo sguardo critico sulla società tedesca e sulla sua classe borghese attraverso storie malate d’amore e d’amicizia ovvero di sfruttamento e asservimento. Spesso di persone immigrate, ossia esterne alla chiusa “casta” germanica. Forme larvali di razzismo contro il genericamente “diverso” che il regista coglie come diffuse tra i suoi connazionali. Il pessimismo di Fassbinder sulla natura umana è radicale, al pari della sua visione della vita priva di un avvenire migliore del presente. Il tutto in un linguaggio cinematografico crudo ed esplicito che, a volte, diventa fastidiosamente sin troppo esibito.
Il problema degli immigrati dal Sud del mondo nei paesi più ricchi della vecchia Europa non è certo una novità del XXI secolo e già negli anni ‘70 Fassbinder lo affronta con uno dei film più anomali della sua carriera. Innanzitutto dal punto di vista linguistico. La grammatica e la sintassi cinematografica utilizzate dal regista sono estremamente classiche, senza virtuosismi o ricorso alle tecniche più innovative. Inquadrature fisse, brevi carrellate, scarso o nullo uso dello zoom sono gli elementi di più immediato riscontro anche se, spesso, il regista piazza la macchina da presa dietro una porta socchiusa come a voler sottolineare la sua volontà di entrare nell’intimo della vita dei suoi personaggi. Il montaggio è altrettanto classico con giustapposizione di inquadrature, scene e sequenze ordinate in modo consequenziale in base alla progressione drammaturgica della storia narrata. La trasgressione sta tutta nel soggetto del film: il tema della “diversità”, riferita sia all’immigrato in una società larvatamente razzista sia nella possibilità di un amore senile. Elementi che, combinati, hanno un effetto dirompente sull’assetto sociale, sui rapporti familiari, sulla stabilità anche psichica delle persone coinvolte. Tema attualissimo, non solo portato al cinema anche recentissimamente (L’innocente, 2022 di Louis Garrel), ma non ancora risolto né sotto il profilo sociale né psicologico.
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