Esponente di spicco del cinema del disgelo è il polacco Andrzej Wajda (1926-2016) e proprio la polacca è tra le cinematografie dell’Europa Orientale più sviluppate e attive grazie soprattutto alla Scuola Nazionale di Cinematografia di Lodz. Fondata nel 1948, ha lo scopo di formare le maestranze cinematografiche e le varie figure professionali necessarie alla realizzazione di un film. In pochi anni si forma una vera e propria “scuola” nel significato artistico di trasmissione del pensiero, di un’estetica condivisa, oltre che di semplici conoscenze tecniche. A Lodz si formano infatti varie generazioni di cineasti polacchi molti dei quali destinati a carriere internazionali anche di grande successo. Tra i nomi più noti: Roman Polanski, Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Zanussi, Jerzy Kawalerowicz e, appunto, Andrzej Wajda. Uno dei pochi che, raggiunto il successo internazionale, preferisce restare in patria anziché tentare maggiori fortune all’estero. Regista prolifico, attivo per oltre 60 anni, dalla metà del ‘900 fino alla scomparsa, con una cinquantina di titoli tra documentari e fiction, corto e lungometraggi.
Nel 1957 si impone all’attenzione internazionale con il primo dei suoi numerosi film a sfondo storico: I dannati di Varsavia (Kanal), centrato sull’insurrezione della capitale polacca nel 1944, che ottiene il premio speciale della giuria al Festival di Cannes. L’anno dopo, quasi una prosecuzione del tema, gira Cenere e diamanti (Popiol i diament), ambientato nell’immediato dopoguerra. Negli anni ‘60 arrivano film di taglio più intimistico che raccontano la vita vera della piccola e media borghesia polacca, ma anche di intellettuali e professionisti. Sempre con uno sguardo critico rispetto alla narrazione ufficiale del partito comunista al potere. Con il decennio successivo Wajda torna alla storia recente del suo paese con titoli come Paesaggio dopo la battaglia (Krajobraz po bitwie, 1970), La terra della grande promessa (Ziemia obiecana, 1974) e, soprattutto, con quello che è considerato il suo film più significativo: L’uomo di marmo (Czlowiek z marmuru, 1976) cui il regista ha dato un seguito nel 1981 con L’uomo di ferro (Czlowiek z zelaza). La predilezione di Wajda per gli argomenti storici si conferma anche nei successivi Danton (id., 1983), prodotto e girato in Francia, La settimana santa (Wielki tydzien, 1995) sull’antisemitismo in Polonia, Pan Tadeus (id., 1999), ambientato in epoca napoleonica quando la Polonia era divisa tra l’impero zarista e quello asburgico, e Katyn (id., 2007), sull’eccidio di 22mila militari polacchi da parte delle truppe russe nel 1940. Eccidio nel quale aveva perso la vita anche Jakub Wajda, il padre del regista.
Il soggetto di Paesaggio dopo la battaglia è tratto dai racconti di Tadeusz Borowski, scrittore polacco internato nei campi di concentramento nazisti durante l’occupazione tedesca del paese. Al termine delle ostilità, peraltro, lui come molti altri suoi compatrioti, non viene immediatamente liberato, ma trascorre quasi un altro anno in campi per rifugiati gestiti dalle truppe alleate. Certamente meno disumani dei lager tedeschi, ma non meno alienanti per lo spirito. I testi di Borowski servono a Wajda per comporre un tragico affresco sulla condizione del suo paese che passa dall’essere conteso militarmente tra diverse potenze all’essere conteso tra le diverse anime della nazione stessa: quella sciovinista e reazionaria che trova sponda nella gerarchia cattolica, e quella più progressista che non può tuttavia immedesimarsi nella dottrina comunista imposta dall’esterno contro la volontà della maggioranza. Figura emblematica di questa tensione è il protagonista, Tadeusz (stesso nome di Borowski) un poeta che ha vissuto il trauma della deportazione e che, anche dopo la fine delle ostilità, non riesca a rimuovere quel macigno dalla sua memoria. Nemmeno l’amore per Nina, una ragazza ebrea a sua volta sopravvissuta all’olocausto, riesce a distogliere il giovane dai suoi cupi pensieri.
Interessante il linguaggio cinematografico usato da Wajda per comporre la sua opera. I movimenti di macchina molto fluidi, accanto all’uso del primo piano sui volti degli interpreti accentuano drammaticamente le situazioni così come l’uso straniante della musica nella colonna sonora. Che siano le note delle Quattro stagioni di Vivaldi (sulle lunghe sequenze senza dialoghi della liberazione dai lager), la musica di Chopin o l’inno nazionale polacco che ricorre, per contrasto, nei momenti meno “eroici” del racconto. Interessante anche l’affabulazione teatrale usata come tableau-vivent che rappresenta la battaglia di Grunwald. Nell’epopea polacca questo episodio bellico, avvenuto nel 1410, rappresenta il momento fondativo dell’identità nazionale in quanto fu la battaglia in cui le truppe polacco-lituane ebbero la meglio sulle preponderanti forze dei Cavalieri Teutonici bloccandone l’avanzata verso est. Secondo l’opinione del regista, per altro verso, la memoria di Grunwald rappresenta invece il nazionalismo più retrivo.
Interessante anche la scenografia claustrofobica del secondo campo, quello in territorio germanico occupato dagli alleati, dove all’apparente libertà di movimenti (gli internati possono tranquillamente entrare e uscire) fa da contraltare una costrizione ancora più subdola e sottile: la coercizione psicologica e la memoria del passato che tende in ogni istante a riprendere il sopravvento su un futuro che appare quanto mai incerto e confuso.
La frase emblematica del film può essere quella pronunciata da Nina che vorrebbe andarsene con Tadeusz e ricominciare altrove una nuova vita: «Smetti di pensarci [ai lager]. Per vivere bisogna dimenticare».
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