Il cecoslovacco Milos Forman (1932-2018) arriva al cinema nel suo paese d’origine negli anni ‘60 e si mette in luce a livello internazionale con il suo secondo film: Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965) che viene anche candidato agli Oscar. Siamo all’epoca in cui, nei paesi dell’Europa Orientale governati da regimi comunisti, prende forma quello che viene chiamato cinema del disgelo. Esso si caratterizza in primo luogo dal superamento del realismo socialista, dottrina estetica imposta a tutte le forme d’arte dalle direttive del Pcus a partire dagli anni ‘30. Il realismo socialista esaltava la vittoria del proletariato nel corso della storia attraverso vicende esemplari in forme esteticamente elementari e comprensibili a tutti. Le nuove leve di cineasti tendono invece a scardinare tale assetto e a rappresentare la realtà sociale senza intenti apologetici. Anzi, portando in scena le reali problematiche presenti anche nei paesi del socialismo reale e talvolta anche le tensioni e il dissenso interni. Nel film citato, Forman ambienta la sua storia in una fabbrica di calzature il cui personale è composto in prevalenza da giovani donne che faticano a trovare una propria dimensione sentimentale nel rigido contesto in cui vivono. Il film è una commedia agrodolce capace comunque di squarciare l’ipocrisia di stato. Tre anni dopo, con la tragica fine della cosiddetta Primavera di Praga, ossia le aperture liberali introdotte da Aleksander Dubceck nel sistema di governo, repressa dall’invasione delle truppe sovietiche, Forman lascia il paese d’origine e si stabilisce negli Stati Uniti.
Qui si adatta facilmente alle regole dell’industria cinematografica stelle&strisce, ma riesce a conservare una certa autonomia creativa prendendo spunto per i suoi film da temi di rilevanza sociale come le nuove culture giovanili, oggetto di bonaria indagine nel primo dei titoli targati Usa: Taking Off (id., 1971). È però con il successivo Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1975) che Forman raggiunge fama internazionale e un grande successo al botteghino. Cosa che gli permette di proseguire sulla stessa falsariga con i successivi titoli, tutti film che coniugano dignità culturale e popolarità: si tratta del musical Hair (id., 1979), di Ragtime (id., 1981 dal romanzo omonimo di Doctorow) e di Amadeus (id., 1984), sicuramente il meglio riuscito e il più apprezzato a livello planetario. Girato in parte nella città morava di Kromeriz dalla splendida impronta barocca. Meno azzeccati i titoli dei decenni successivi: Valmont (id., 1989), Larry Flynt-Oltre lo scandalo (The People vs Larry Flynt, 1996), Man on the Moon (id., 1999) e L’ultimo inquisitore (Goya’s Goshts, 2006).
A parte il “divo” Jack Nicholson, interprete già affermato da una mezza dozzina d’anni, il resto del cast di Qualcuno volò sul nido del cuculo, è formato da ottimi attori destinati a successive importanti carriere, ma ancora semisconosciuti al momento di interpretare i vari personaggi di quest’opera. Louise Fletcher era al suo quarto film, Dany De Vito al terzo, Will Sampson, Brad Dourif e Vincent Schiavelli al secondo, Christopher Lloyd all’esordio. Accanto a loro alcuni buoni caratteristi [il caratterista è un attore generico, chiamato a interpretare i ruoli più disparati, ma sempre in parti secondarie ndr] costituiscono l’ossatura della troupe. Tutto ciò per dire che è stata sicuramente l’abilità registica di Forman a creare sul set un insieme omogeneo e variegato allo stesso tempo capace di interpretare al meglio i vari ruoli nel microcosmo di un istituto di ricovero per persone mentalmente disturbate nonché il relativo personale medico e paramedico. Un microcosmo capace di rappresentare però una realtà più vasta, la realtà esterna, coloro che, pur stando fuori dal manicomio, forse non sono meno “pazzi” dei reclusi. Emblematica, al proposito, l’improvvisata escursione in barca organizzata da McMurphy (Nicholson) con i ricoverati del suo reparto, spacciati per stravaganti ma dottissimi docenti universitari.
In effetti il tema della normalità e della follia è stato praticato abbastanza largamente al cinema, sia a partire da romanzi, come in questo caso, sia da soggetti originali o addirittura da casi realmente accaduti. Come già accennato, il binomio serve a Forman per adombrare alcuni temi caldi nella società americana degli anni ‘70, come il rapporto della cultura dominante con quelle minoritarie, le nevrosi familiari, l’abuso o l’eccesso di potere esercitato da chi ha autorità giuridica su coloro che ne sono privi e altre questioni analoghe. Senza peraltro minare alle radici l’establishment. Il risultato è un film di sicuro impatto, con elementi critici verso un sistema estremamente dinamico come quello americano, ma non privo di contraddizioni, disuguaglianze e sperequazioni.
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