Di famiglia benestante, Godard nasce a Parigi nel 1930, ma passa l’infanzia e l’adolescenza in Svizzera, a Ginevra, dove i genitori si trasferiscono a causa della guerra. Rientrato a Parigi nel 1948, frequenta alla Sorbona corsi di etnologia. Si lega in amicizia con André Bazin e François Truffaut, frequenta i cineclub del Quartiere Latino e conosce poi Jacques Rivette ed Erich Rohmer con i quali, nel 1950, fonda la Gazette du cinéma sulla quale scrive recensioni con lo pseudonimo di Hans Lucas. La rivista chiude dopo cinque numeri. Dal 1952, i tre entrano nella redazione dei Cahiers du cinéma, la nuova rivista appena fondata da Bazin dove ritrovano anche Truffaut. Dopo aver realizzato alcuni “corti”, nel 1959, su soggetto proprio di Truffaut desunto da un vero fatto di cronaca, Godard gira il suo primo lungometraggio: Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), che vince l’Orso d’Oro per la regia al Festival di Berlino, ed è considerato il manifesto della Nouvelle Vague per le sue innovazioni tecniche (l’uso della camera a mano, per esempio) e linguistiche come l’asincrono tra suono e immagine e il coinvolgimento dello spettatore mediante lo sguardo in macchina degli attori.
Nel 1960 esce Le petit soldat, seguito l’anno dopo da La donna è donna e, nel 1962, da Questa è la mia vita, che vince il Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia. Sono film che sviluppano, da un lato, la destrutturazione del linguaggio cinematografico già sperimentata nel film d’esordio, e dall’altro propugnano una radicale critica sociale.
Nel 1963 gira Il disprezzo (Le mépris), ispirato al romanzo di Moravia, e altro caposaldo della “nuova onda”. Ambientato a Capri, nella villa di Curzio Malaparte, narra il set di un film, una Odissea girata secondo i canoni dei film peplum in voga in quegli anni, che non vedrà mai la luce. Qui Godard affida il ruolo del regista del film in lavorazione (ossia il proprio doppio) a Fritz Lang, icona e feticcio della Nouvelle Vague. In sala di proiezione, durante la visione dei cosiddetti “giornalieri”, il produttore Prokosch (Jack Palance) sbotta nei confronti di Lang: «Quando sento parlare di cultura, metto mano al libretto degli assegni». Battuta ricalcata su quella analoga di Joseph Göbbels, ministro della propaganda di Hitler: «Quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola». Per Godard, dunque, il denaro (libretto degli assegni) dei sistemi capitalisti equivale alle armi (la pistola) dei dittatori. In entrambi i casi la vittima designata è la cultura, l’arte. La quale peraltro si pone come unica forma eversiva in grado di contrastare in ugual misura totalitarismo e capitalismo.
Nel 1965 gira Il bandito delle ore undici, film imperniato sulla disperazione e il disorientamento di matrice esistenzialista, seguito, nel 1966, da Due o tre cose che so di lei e, l’anno successivo, da La cinese, la cui storia verte su un gruppo di studenti maoisti alla vigilia dei moti sessantotteschi. Gli anni ‘70 coincidono con il periodo più specificatamente politico del cinema di Godard che, a questo scopo, fonda il Gruppo Dziga Vertov, un collettivo formato da registi, tecnici e attori che si riconoscono in una forma filmica autenticamente e radicalmente marxista e rivoluzionaria. Il nome è quello di un grande documentarista russo degli anni ‘20 ideatore della Kinopravda, il “Cinegiornale Luce” dei Soviet. Vento dell’est (1968) e Crepa padrone, tutto va bene (1972), sulle lotte sindacali, Ici et ailleurs (1976), sul conflitto israelo-palestinese, sono i titoli principali di ciò che Godard intende come cinema politico. Nel 1984 Je vous salue, Marie suscita violente polemiche e viene accusato di blasfemia per aver trattato in modo innovativo e laicamente distaccato il tema della maternità di Maria di Nazareth. Analogamente a quanto aveva fatto l’anno prima col melodramma di Bizet in Prénom Carmen, Leone d’Oro a Venezia come miglior film. Sempre il festival del Lido, nel 1982, gli aveva assegnato il Leone alla carriera.
Al 1990 risale Allemagne neuf zéro, seguito da undici anni di silenzio interrotto nel 2001 da Eloge de l’amour. La storia che il regista racconta è ancora una volta la necessità (o meno) di girare un film e il modo (il linguaggio) per farlo. Tema riaffrontato anche nel successivo Addio al linguaggio (2014) dove il regista utilizza il 3D.
Muore ultranovantenne nel 2022, probabilmente mediante suicidio assistito.
Un nuovo lessico
Alla base del nuovo lessico cinematografico introdotto da Godard con i suoi film stanno alcune innovazioni tecniche come la camera a mano, il pianosequenza, le variazioni senza stacco all’interno dell’inquadratura grazie all’uso degli zoom. Si supera così il montaggio tradizionale, i movimenti di macchina su carrello, la messa in scena nell’inquadratura che avevano rappresentato i capisaldi dell’arte cinematografica fino a tutti gli anni ‘50. In questo Godard non è solo, ma affiancato da cineasti provenienti in gran parte dalla critica esercitata sulle pagine della rivista francese più faziosa e umorale, eppure seguitissima ed estremamente autorevole: i Cahiers du Cinéma. Critici per i quali, lo afferma lo stesso Godard nel 1962, «scrivere significa già fare del cinema». E se il passaggio dalla parola all’immagine rappresenta uno sviluppo del tutto naturale, lo sarà altrettanto, negli anni successivi, il passaggio dalla macchina da presa alla telecamera (ossia dal cinema al video) e dal video alla tv. Sottintendendo anche la reversibilità del percorso, ovvero dalla televisione al cinema e dal cinema alla «carta e matita».
L’intera parabola artistica di Godard conta una filmografia tanto sterminata (attorno al centinaio di opere) quanto eterogenea: dal video di pochi minuti alla composizione plurima (le Histoire(s) du cinéma, 1988-2004), da film di successo distribuiti nel circuito commerciale (Il disprezzo, Prénom Carmen, Je vous salue, Marie…) a film a basso costo passati solo in qualche festival underground. Una onnicomprensività, un onnivorismo che si manifesta sia nell’estrema varietà dei generi praticati sia nella ciclicità di certi argomenti, certi temi, persino certe forme espressive che ricorrono a distanza di anni o persino di decenni. Una riprova si può trovare nelle affinità che legano due opere separate da quasi 20 anni: Il disprezzo, film di successo che nel ’63 consacra il suo giovane autore sulla ribalta internazionale, e Passion (1982), opera elitaria, girata a basso costo e passata esclusivamente nei festival e nei circuiti d’essai. Prima affinità: il film nel film. Un film immaginato che diventa l’oggetto della storia che si sviluppa sullo schermo, con i suoi set e i backstage, gli attori e i comprimari. Dentro e fuori dalla parte, ma, con tutta evidenza, nella parte dei personaggi-attori del film le cui immagini scorrono effettivamente sullo schermo. Volontario e deliberato gioco di specchi che ha la sua esplicitazione nella macchina da presa che inquadra l’obiettivo di una seconda macchina da presa essendone a sua volta inquadrata. È l’applicazione cinematografica della pirandelliana «teoria del doppio» ripresa, al cinema, in vari modi e sotto varie forme da autori come Federico Fellini (8 e ½), Pier Paolo Pasolini (La ricotta), Karel Reisz (La donna del tenente francese) e dal «gemello» di Godard, François Truffaut, in Effetto notte (1973). Seconda affinità: la riflessione sull’arte. L’arte come prodotto industriale (il cinema) e la sua messa in scena. Il «Ci vuole una storia» del produttore del film in Passion e il blocco creativo dello sceneggiatore Paul Javal (Michel Piccoli) nel Disprezzo. Terzo legame: la fabbrica. “Fabbrica” creativa e fabbrica vera e propria, l’opificio in cui il regista vorrebbe mettere in scena i tableaux vivant (quadri viventi ) di Passion. In entrambi i film, alla fine, Godard dimostra che non esiste contraddizione tra rappresentare un’opera e rappresentare il suo processo creativo, il suo comporsi e scomporsi negli elementi che la costituiscono.
Passion: la narrazione di uno stile
Come molte altre volte nei suoi film, anche in Passion Jean-Luc Godard mette in crisi gli esegeti e gira un film che sembra sfuggire a ogni possibile classificazione. Passion è un film sulla pittura, sul video, sulla fabbrica, sull’amore, sulla luce e, naturalmente, sul cinema come terreno di incontro-scontro tra tutti precedenti elementi.
Una troupe televisiva lavora alla messa in scena di quadri viventi tratti da alcuni capolavori pittorici tra cui La ronda di notte di Rembrandt, Le fucilazioni del 1808, La famiglia di Carlo IV, La maya desnuda e La donna dell’ombrellino di Goya, La bagnante di Valpinçon di Ingres, un gruppo di figure da Poussin e L’ingresso dei crociati a Costantinopoli di Delacroix la cui ricostruzione occupa la parte principale del film.
Nel 1963 (lo stesso anno in cui Godard gira Il disprezzo) un’altra troupe, quella della Ricotta di Pasolini, è impegnata alla ricostituzione cinematografica delle tele del Pontormo (Deposizione in santa Felicita, Firenze) e del Rosso Fiorentino (Deposizione di Volterra). La ricotta fa parte del film a episodi intitolato, dai cognomi dei loro autori, Ro.Go.Pa.G.; dove prima della Pa. di Pasolini figura la Go. di Godard. Ro. è Roberto Rossellini e G. Ugo Gregoretti. Certamente tra Godard e Pasolini esiste una grande distanza stilistica ed estetica, ma molta affinità ideologica. In ogni caso il tormentato Orson Welles (il personaggio del regista nella Ricotta) ha almeno un punto di contatto con lo sfuggente Jerzy (Jerzy Radziwilowicz), regista del film-nel-film di Passion: entrambi si accorgono che stanno realizzando qualcosa di molto diverso da quello che si erano prefissati. Pasolini e Godard partono quindi da questo punto comune: il cinema e, più in generale, l’arte non è che il compromesso tra ciò che si è intenzionati a esprimere e ciò che si riesce a esprime. L’arte nasce dunque dal conflitto tra ciò che si vorrebbe esprimere, ma rimane inespresso, e ciò che non si sa di esprimere, ma viene rappresentato, viene messo in scena.
Godard enuncia questa impasse dell’arte – e del suo cinema in particolare – attraverso il procedimento del doppio: il set televisivo e quello cinematografico; la fabbrica dove Isabelle lavora, che dovrebbe diventare il vero, autentico spazio scenico per i quadri viventi, e i teatri di posa dove avviene invece la ricostituzione scenica vera e propria. La realtà del lavoro meccanico respinge però la manipolazione artistica così come l’imprenditore Michel (Michel Piccoli), proprietario della fabbrica, licenzia Isabelle perché è un’operaia sindacalizzata. Ma anche perché è l’amante dell’amante di sua moglie.
Con Passion Godard entra volontariamente e deliberatamente in un circolo chiuso, nell’orizzonte circoscritto della rappresentazione che, se da un lato non risolve per intero il rapporto con il reale, dall’altro ne può trascendere i confini.
Nel corso delle prove per le riprese dell’Entrata dei crociati a Costantinopoli una macchina da presa fissa inquadra una telecamera in gru che compie un movimento perfettamente circolare sul set sgombro. Poco dopo la stessa macchina da presa compie l’identico movimento circolare della telecamera andando a inquadrare successivamente i diversi gruppi di figuranti che compongono la riproduzione-rappresentazione del quadro.
«Quello che si trova nella luce è ciò che sommerge la notte» afferma un personaggio del film e Godard conferisce alla luce che illumina i suoi tableaux vivents (ossia il suo film) una straordinaria importanza. Le riprese in esterni sono effettuate sempre a luce ambiente mentre negli interni il mutamento dell’illuminazione avviene frequentemente a vista; sovente gli attori in primo piano sono lasciati in ombra mentre è illuminato lo sfondo. Nei quadri viventi invece predomina l’illuminazione dei primi piani su sfondi bui. A connettere ulteriormente questi due poli espressivi intervengono infine l’uso del sonoro e il taglio delle inquadrature. Il Concerto per pianoforte di Dvorak, il Requiem di Fauré, una Sonata di Beethoven e l’Agnus dei di Mozart condizionano i legami tra le diverse scene nel continuo di un contrappunto audiovisivo con l’immagine.
La luce dell’arte resta comunque inadeguata alla rappresentazione e gli sforzi dell’artista sembrano destinati al fallimento. Sul set televisivo, a un centro punto, vengono spente a una a una le luci di scena finché tutto si oscura con l’eccezione di una lontana fessura che squarcia il fondale aprendo una breccia sul mondo esterno, su una realtà che rimane peraltro indefinita. Il produttore seguita a reclamare una storia per il film. Esige che ci sia qualcosa da raccontare e non si accorge che si sta raccontando un racconto, che Godard sta narrando uno stile. «Ho scoperto che le storie vanno vissute prima d’inventarle». È una battuta del film, ma potrebbe essere la sintesi perfetta dell’estetica di Godard e del suo modo di fare cinema.
Passion è dunque l’itinerario narrativo della passione laica dei quadri, delle delusioni di Isabelle e Anne, tradite nel lavoro e nell’amore. È l’impotenza del regista, teso alla vana ricerca di un’impossibile rappresentazione. È l’oppressione militare della Polonia, paese in cui è appena stata introdotta la legge marziale, e verso cui tutti i personaggi, all’improvviso, decidono di dirigersi una volta ultimate le riprese. La Polonia come mitico luogo in cui Goya e Delacroix potranno finalmente essere messi in scena dentro una fabbrica.
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