sceneggiatura Guillermo Del Toro, Vanessa Taylor cast Sally Hawkins (Elisa Esposito) Michael Shannon (Richard Strickland) Richard Jenkins (Giles) Doug Jones (la Creatura) Michael Stuhlbarg (Robert Hoffstetler/Dimitri) Octavia Spencer (Delilah “Zelda” Fuller) Nick Searcy (gen. Frank Hoyt) genere fantasy prod Usa, 2017 durata 120 min.
La bella e la Bestia (qualsiasi versione, a piacere), Il mostro della palude (1982), Alien (1979), La cosa da un altro mondo (1951)… Sono troppi e troppo banalmente noti i riferimenti/antecedenti cinematografici di questo patchwork fantasyscentifico con piccole venature di piccola commedia dei piccoli orrori. Nulla che possa impensierire, nel senso di far lavorare le meningi, anzi: molto che mette a rischio di narcolessi anche il più sveglio e vispo degli spettatori. La favoletta è esile quanto un filo d’acqua, tenue come una goccia di rugiada, densa come uno sbuffo di vapore in cielo. Concentrata attorno al personaggio di Elisa, trovatella e muta (ma non sorda) che fa la donna delle pulizie in un laboratorio supersegreto vagamente somigliante alla fabbrica di Metropolis (1926). È lei la (non troppo) bella fanciulla che si innamora, ricambiata, di una strana creatura anfibia catturata nella giungla amazzonica e portata lì per essere studiata e, all’occorrenza, vivisezionata. Siamo nei primi anni ’60, ossia in piena guerra fredda e nel momento clou per avvistamenti di ufo, ritrovamenti di esseri semifantastici e via folleggiando nell’immaginario collettivo. Non stiamo a sintetizzare lo sviluppo della storia, tanto è prevedibile, né citeremo più che al volo i vari personaggi che ruotano attorno a Elisa: la collega e amica del cuore Zelda, il vicino di casa e complice, nonché artista svanito Giles, il cattivone razzista (con tutti i “diversi”) Strickland e il doppiogiochista dal cuore buono Bob/Dimitri. Personaggi e storia strampalati come pochi ossia incoerenti sul piano drammaturgico e troppo banali anche per il regno della fantasia. Inspiegabili (questi sì) gli osanna della critica e la messe di premi: dai quattro Oscar al Leone d’Oro veneziano. Per quanto riguarda le statuette dei cinematografari americani, non che sia un merito, ma si è visto anche di peggio. Fa più specie il massimo riconoscimento di quella che si ostina a chiamarsi “Mostra d’Arte Cinematografica”. O dobbiamo cominciare a chiamarla, più correttamente, “Marchettificio d’Ammennicoli Cinematografici”?
E allora perché vederlo?
Per rendersi conto di cosa sono diventati i premi festivalieri del cinema.
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